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DALLE DANZE RELIGIOSE E GUERRIERE DEI ROMANI E ITALICI ALLE DANZE ASIANE MIMICHE E LEZIOSE

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Coribante
Coribante

 

 DALLE DANZE RELIGIOSE E GUERRIERE DEI ROMANI

E ITALICI

ALLE DANZE ASIANE MIMICHE E LEZIOSE

 

exululant comites, furiosaque tibi flatur,

et feriunt molles taurea terga manus.

 

   Non è la rappresentazione di un “Gay Pride Parade”, ma stiamo assistendo ad una processione della Magna Mater in Roma, ai tempi di Ovidio che n’è appunto il cronista. Gli accompagnatori, i fedeli urlano e i flauti suonano all’impazzata, mani effeminate percuotono i tamburi! I sacerdoti eunuchi di nazionalità frigia sono i protagonisti del culto. Un’improvvisa superstizione aveva invaso la città in quel tempo, questo dice Tito Livio riportandosi al momento storico in cui quel culto s’introdusse e fu accolto nell’Urbe.

 

ibunt semimares (ermafroditi) et inania tympana tundent,

aeraque tinnitus aere repulsa dabunt:

ipsa sedens molli comitum cervice feretur

Urbis per medias exululata vias.

 

   Tali note ci riporta ancora il puntuale cronista. Ovidio, nonostante venga considerato moderno, il più vicino a questi nostri tempi, pone sul caso a se stesso angosciose domande:

 

quaerere multa libet, sed me sonus aeris acuti

terret et horrendo lotos adunca sono.

 

   Stridore di bronzi, suono orrendo di adunchi flauti; di ciò si compiace l’asiatica dea, la dea giunta dalla Berecynthia nella figura di una sacra pietra nera nell’anno 549 di Roma. Me…terret…mi sgomenta, annota il cronista, e la sensibilità del poeta suscita in lui un’inquietudine, una serie di domande: “pandite, mandati memores, Heliconis alumnae,/gaudeat assiduo cur dea Magna sono.” Perché si compiace la dea d’un continuo strepito? La risposta, desunta dal mito mediorientale, con l’assimilazione dei Coribanti-Galli ai Cureti, sacerdoti cretesi, non convince, ed una serie di interrogativi si susseguono: perché i fieri leoni si lasciano aggiogare dalla dea? Perché la sua testa è turrita? “unde venit” dixi “sua membra secandi/impetus?”; segue l’asiatica favola di Attis: a! pereant partes, quae nocuere mihi!/a! pereant’ dicebat adhuc, onus inguinis aufert,/nullaque sunt subito signa relicta viri./Venit in exemplum furor hic, mollesque ministri/caedunt iactatis vilia membra comis.” Sanguinosa favola devitalizzante, svigorente, svirilizzante: d’un tratto alcun segno di virilità rimase sul suo corpo! Da dove evocata la dea venne? Unde petita venerit?

 

Post, ut Roma potens opibus iam saecula quinque

vidit et edomito sustulit orbe caput…

 

   Roma è al culmine della sua potenza, dice il poeta, e un sacerdote (un etrusco?) consulta i libri sibillini; questi, attraverso di lui, impongono di cercare la Madre assente,

 

obscurae sortis patres ambagibus errant…

 

   I Senatori al messaggio ambiguo restano attoniti, si smarriscono. Si consulta l’oracolo di Apollo a Delfi: “Chiamate la Madre degli dei. Cercatela sui gioghi dell’Ida”. Attalo, il re della Frigia, si oppone ai richiedenti: la terra trema, la dea parla dal sacrario: “ipsa peti volui, nec sit mora, mitte volentem./Dignus Roma locus, quo deus omnis eat”. Cosa accadde? Il primo dei “miracoli mariani” nella storia di Roma! Roma locus, quo deus omnis eat”, così la penserà anche Paolo di Tarso; sbarcato a Pozzuoli, via Capua, si recherà a Roma con un altro dio ancora…

   Segue in Ovidio il racconto dell’arrivo della pietra nera a Roma, delle difficoltà per lo sbarco e il secondo “miracolo mariano”, miracolo che assolve dalla colpa di adulterio la matrona romana Claudia Quinta, suscitando l’entusiasmo della plebe in trionfo che portò la Magna Mater entro le mura della Città.

   Ancora domande: perché la dea chiede offerte di spiccioli, durante la sua processione? Risposta: perché il popolo tutto raccolse il denaro per costruire il suo tempio. Perché si fa così gran festa e i ludi Megalensi si fanno per primi? Risposta:

 

“illa deos” inquit “peperit. Cessere parenti,

principiumque data Mater honoris habet.”

 

   La dea d’oriente in un primo tempo ospitata sul Palatino, nel Tempio della Vittoria, avrà poi definitamente il suo culto pubblico in un Santuario, il Phrygianum, sul Colle Vaticano; una sua statua fu posta sul trono e come sacra protettrice della Città. L’Urbe venne affidata alla “Provvidenza” d’una dea straniera.

   Qui occorre far notare come nella cultura ufficiale, compresa quella storico-archeologica, regni gran confusione, anche sull’antichità dei luoghi del culto metroaco. Quindi occorre seguire il consiglio di chi suggerisce di lasciare il lato esteriore ed empirico, al quale soltanto si applicano i pregiudizi che la cultura moderna ha formato in proposito (J.Evola). E molte cose, aggiungiamo, sono state volutamente travisate, nascoste e confuse; ciò non solo nella prassi, ma anche deviando i criteri della cosiddetta applicazione scientifica.

   Onus inguinis aufert. Tributo all’asiatica dea la virilità mutilata e la dilacerazione della Virtus. Tale atto simbolico miticizzato e riconfermato con il sangue dei suoi sacerdoti e dei suoi fedeli invasati ebbe l’intento, l’occulto fine, di indebolire nel tempo il valore romano e lo stesso Principio della virilità olimpica. Cessere parenti: Marte Padre e l’Alma Venere, genitrice di eroi! Il buon Claudio, tenterà nel corso del suo principato di porvi rimedio, impedendo che cittadini romani giungessero a tal punto d’invilimento e ponendo limiti all’orgia coribantica dei Galli. Ma, per tutto il periodo della Roma imperiale tale culto continuò:  quel mito perverso e quell’atto simbolico di sangue si perpetuarono attraverso strania latria nei secoli e così ancora ad oggi ne perdura l’effetto svigorente.

 

   Due signori di circa trentasette anni passeggiavano per Roma; un aprile del ’74, il 5 o il 6, un giorno afoso di primavera; folla per le strade, disordine e traffico assordante. Il più alto dei due ebbe a dire: “Senti? s’avverte un’atmosfera pesantemente mediorientale!”; l’altro: “Siamo nei pressi del Mammellone, la cupola più famosa del mondo! La montagna sacra alla Magna dea, l’Ecclesia Cybeleia; guarda là, le fauci della fiera, raffigurate nel famoso colonnato!…” “Sì” - la risposta- “e proprio in questi giorni ricorrevano allora i ludi Megalensi…”.

 

   Nell’anno 549 di Roma (204 degli storici d’oggi!) in quel fatale aprile in cui la pietra nera di Pessinunte giungeva ad Ostia e veniva consegnata a Scipione Nasica, ritenendosi ciò condizione indispensabile per raggiungere la vittoria sul nemico cartaginese, Annibale s’era confinato timoroso nell’estremo sud d’Italia, nel Bruzio. Il generale cartaginese si limitava a mantenere quella posizione, per il controllo dei porti di Locri e Crotone, sola via d’uscita e di fuga via mare. Annibale era oramai un vinto. Già con la battaglia del Metauro nel 207 e la distruzione dell’esercito cartaginese comandato dal fratello Asdrubale era fallito il tentativo di ottenere rinforzi; la battaglia del Metauro era stato un evento decisivo e Roma ne aveva beneficiato anche nei confronti di tutti gli alleati italici. Il prestigio militare cartaginese era completamente crollato. L’esercito punico non era più in grado di compiere azioni belliche di rilievo. Nel 206 Scipione aveva di nuovo imposto definitivamente il predominio romano nella penisola iberica e tutti i territori iberici, compresa Cadice, erano tornati nel predominio romano. Nel 206 l’impero punico in Spagna era stato distrutto. Nel Bruzio, per opera di Scipione che l’aveva riconquistata via mare, Annibale aveva perso anche la base di Locri; era braccato. Scipione, considerata la situazione ormai disperata del nemico, progettava e si preparava a portare le legioni romane in Africa, per dare il colpo mortale a Cartagine.

   Cosa era dunque avvenuto nella città di Roma in quel fatale anno 204? Livio suggerisce che: Un’improvvisa superstizione aveva invaso la città in quel tempo. Il substrato popolare pelasgico-etrusco probabilmente aveva preso il sopravvento, anche per il costituirsi di una nuova nobiltà patrizio-plebea; inoltre in quei lunghi anni di guerra le legioni romane avevano versato un grande tributo di sangue; il Senato non fu in grado di controllare l’intrusione di influenze avverse alla spiritualità ario-romana, soprattutto perché l’emergente ceto politico ormai si apriva alle “novità” che giungevano dalla Grecia asiatizzata. In tal situazione riuscirono a irrompere nel cuore della romanità quegli elementi demonici e materialisti che erano rimasti latenti nei substrati della popolazione. Questo spiega tutti i fenomeni paradossali, estranei allo spirito romano, che accompagnarono quell’evento e che ancora a distanza di tempo sorprendevano il poeta Ovidio suggerendogli domande su domande.

   Roma e l’Etruria, l’olimpica religiosità romano-italica e l’oscura tetra ctonica “magia” etrusca; un contrasto che accompagnerà tutta la storia di Roma.

 

 

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Evola commentando il Bachofen in Storia del matriarcato:

 

   Per il Bachofen, la civiltà etrusca presenta dei tratti anti-romani, egli chiama l’Etruria l’“Asia dell’Italia” e ritiene che il suo tramonto, la sua distruzione costituì “la condizione preliminare per una nuova fase della storia dello spirito”, che sarebbe stata appunto quella legata alla romanità uranico-virile.

(…) Ciò che il Bachofen chiama “asiatico” sarebbe però più corretto chiamarlo “pelasgico” (…) propaggine della civiltà atlantico-mediterranea nella sua fase ultima, crepuscolare, fase nella quale come sempre accade, vanno a prevalere gli elementi estranei ed inferiori.

(…) Nel punto in cui si affaccia nella storia a noi nota, l’Etruria sembra essere stata una civiltà che aveva esaurite le sue possibilità vitali, che si trovava sulla fine del suo ciclo, di ciò avendo una coscienza abbastanza precisa e recandone i segni nella palese involuzione tellurica di molti riti e simboli.

 

Ed ancora Evola:

 

   Per quanto molto si sia discusso sugli Etruschi e si ami sempre parlare di un “mistero etrusco”, pure noi crediamo che molti decenni di ricerche in proposito poco siano valsi a modificare le vedute geniali e precise sull’origine e lo spirito della civiltà Etrusca già esposti dal Bachofen verso il 1870: gli Etruschi appartengono essenzialmente al ciclo “pelasgico”, furono una popolazione non-aria o della decadenza aria. (J. Evola, La Tradizione di Roma)

Il Romano, pur temendolo, ebbe sempre diffidenza per l’aruspice, quasi come per un occulto nemico di Roma. Fra i molti, a tale riguardo è caratteristico l’episodio degli aruspici che, per odio a Roma, vogliono che la statua di Orazio Coclite venga sotterrata; posta invece nel luogo più elevato, seguono, contro l’auspicio, fausti eventi, per Roma e gli aruspici, accusati di tradimento e confessi, vengono giustiziati. Dallo sfondo dei popoli italici e dalle origini, così legate allo spirito delle antiche civiltà meridionali, Roma dunque si distacca manifestando una influenza nuova, ad esse poco riducibile. Ma questa influenza non ha modo di svilupparsi se non attraverso una lotta aspra, interna ed esterna, attraverso una serie di reazioni, di adattamenti e di trasformazioni. In Roma si incarna l’idea della virilità dominatrice (…) nel segno delle divinità olimpiche. (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno)