L'ANNO DURO
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L’ ANNO DURO
Non posse bene geri republicam
multorum imperiis (C. Nepote)
Sarà un anno tormentato, dolente, amaro? Probabilmente, un anno decisivo. Un momento forse basilare per le genti della terra, per il loro governo e per le loro sorti. Un anno duro, perché se il timone non sarà messo nella retta mano della saggezza, potrebbe risultare un anno fatale. L’anno, infatti, è iniziato sotto un cattivo auspicio. All’alba dello scorso 3 gennaio in territorio iracheno, nell’aeroporto internazionale di Baghdad, è stato assassinato il comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, generale Qassem Soleimani considerato un valoroso combattente contro i terroristi del Daesh, unitamente al vice capo iracheno delle milizie sciite, Abu Mahdi, entrambi per attacco d’un drone statunitense. Il presidente USA, fatto sconcertante e preoccupante, ha rivendicato il temerario duplice assassinio. L’ingiusto fatto di sangue ha richiamato l’evento del 28 giugno 1914 che scatenò gl’orrori della I Grande guerra mondiale, l’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria e di sua moglie, per mano d’un terrorista bosniaco. Per tanto, anche questo 2020, un anno malaugurato. Nonostante ciò, e tralasciando che tra i due accadimenti è intercorso oltre un secolo, volendoci affidare a una interpretazione numerologica, emerge che questo anno difficile, arduo e rischioso, è d’altro canto l’anno della quadratura del cerchio.
“2020” – ossia, 20+20 = 40, 4+0 = 4
a.U.c. "2773" – ossia, 2+7+7+3 = 19, 1+9 = 10, 1+0 = 1
4+1 = 5
Il numero 4 simboleggia la perfezione e lo si associa al quadrato che simboleggia la terra e quindi anche un luogo benaugurato, un recinto sacro, mentre il cerchio simboleggia il cielo. Questa connessione tra cerchio (l’attivo, l’operoso) e quadrato (il passivo, quel che sopporta o sostiene l’azione) evoca soprattutto l’unione tra il cielo e la terra. E ci siamo dianzi valsi non a caso del verbo evocare che vuol dire precisamente “chiamar fuori”, perché in primo luogo trattasi d’una congiunzione, meglio connubio, che s’invera in interiore homine (da humus/terrestre) o in modo conciso, ma più essenziale e distintivo, in viro (da virtus, quella forza nobilitante che agisce verticalmente rettificando dall’alto il mentale e, in basso, sublimando la sfera istintuale). Maturare nella giusta misura tal forza ed evocarla, quindi, per renderla operante nella realtà e, nel tempo propizio, feconda per le genti, era il generoso modus operandi, more maiorum, dei Patrizi che sedevano nel Senato romano, dei Quiriti che ricoprivano cariche statuali. Il nosce te ipsum era infatti rivolto soprattutto ai reggitori di uomini, ai governanti le società umane; enormi sono infatti le responsabilità dei governanti. Il vero governante, paterno decoroso severo, non deve essere imperito ma esperto statista, mai sopraffatto dall’ambizione, dalla vanità, dagli egoismi e il suo agire virtuoso sempre e pro salute populi. Per quadratura del cerchio, infatti, si è inteso alludere, metaforicamente parlando, allo sforzo dell’Uomo per raggiungere la compiutezza, la perfezione, mediante una costante vigilanza sul moto circolare, onde prevenire o saper far fronte alla disfrenata mutabilità, evitare la provvisorietà, e pervenire infine, con solida quadratura, al permanente, alla stabilità. Una operosa società di uomini deve difatti sentirsi solida e sicura, deve volere che la sua civiltà volga al bello e al meglio, sempre in avanzamento, e manifestamente avvertita in una realtà circolare, armonica e duratura. Valore e fortezza della concordia!
Per rivestire una carica statuale occorre possedere, a dir poco, il senso civico e di essere pur anche all’altezza di far fronte all’impegno preso nella rigorosa maniera dianzi esposta. Intendete bene! si tratta d’un compito eminente. Da quello scranno, volendolo o osandolo, un vero Pater Patriae, può realizzare la giusta quadratura, cioè l’ordinata configurazione e la sicura struttura di gruppi umani, famiglie, società intere et cetera. Pervenire a tal fine senz’altro necessita, ma non si può prescindere da un piano sicuro, tangibile, che muova da intenzioni certe, cioè serie e credibili, fuor d’ogni chimera. Questa quadratura, raffigurazione d’ogni giusto avvio, inizio che vuol essere fondante e unificante, evoca la perfettibilità, quella compiutezza dell’agire umano che nel mondo della manifestazione inaugura e realizza, o ripropone e rinnova, stabilità civile e tranquillità sociale e, soprattutto, sviluppo culturale e progresso spirituale; in sostanza, una solare patria civiltà. Ciò non può prescindere, però, da quella forza centrale, nobilitante, di cui abbiam sopra detto: idea forza, vista sapiente. Oh, la luminosa, vigile saggezza! La provvida saggezza che promana, vivificando l’animo alle genti e fortificandone il carattere, dall’unità dell’essere reale, quell’UNO sempre a sé stesso presente nell’imperituro operare del cielo, significato dal cerchio.

Nel linguaggio politico e anche familiare è spesso usata l’espressione “trovare la quadra”; anch’essa metaforica, questa espressione è l’abbreviazione dell’altra sopra enunciata e viene usata quando si vuol dare ad intendere che si ritiene facilmente risolvibile un problema che appare complicato; si sente anche ripetere, “è sufficiente una semplice quadratura”, quando si vuol far credere che trattasi di una circostanza politica o sociale da potersi gestire con facilità. E a dire dei professoroni e dei professorini, dei giornaloni e dei giornaletti, del fastidioso clero tivvudico, degli agitatori di massa e dei propagandisti di partito, in democrazia tutto, anche l’infinitamente ignobile, ogni giorno quadra, tutto torna, tutto soddisfa. Nonostante questa infinità di squadre e compassi nelle mani di tanti, cioè statisti e statiste del mondo intero e rispettivi deep state, servizi segreti e non, lobby finanziarie, poteri tecnocratici, congreghe clericali, conventicole filantropiche e sette umanitarie, consorterie politico-militari, logge, loggette e matronei femministi, circoli pacifisti e il club atomico et cetera et cetera, la gente non è serena; pari a un contagio si diffondono depressione e sconforto, e il globo intero, o forse meglio quest’artefatta globalizzazione, sembra l’enorme cratere d’un vulcano sul punto d’esplodere. Studiosi di geopolitica e di relazioni internazionali prevedono persino, prima o poi, un grosso conflitto mondiale con conseguenze distruttive di vaste proporzioni per l’uso di armi strategiche, i missili a lunga gittata e a testata nucleare. A livello subliminale nelle folle è tuttora operante il terrore atomico ingenerato, e intenzionalmente, dagli scheletri delle città giapponesi emerse dai funghi atomici dell’agosto 1945, ancora apposta alimentato poi, nella seconda metà di quel trascorso secolo, da un sempre incombente terrorismo nucleare per il lungo periodo della cosiddetta guerra fredda.
Non è facile farli smettere; per la loro inclinazione al mostruoso e al raccapricciante è difficile portarli sulla via del buono e del bello per la quale gli umani dovrebbero incamminarsi; pertanto son divenuti i soprastanti del terrore e seminatori d’odio e discordia. Hanno pervicacemente asservito così ai loro oscuri propositi torme di seguaci; e poi vi s’aggiunge la moltitudine dei pavidi. Progettano forze capaci di deformare la natura e con essa il volto dell’uomo e il pensiero dell’uomo dopo averlo reso uniforme, monotono, ripetitivo. Ridurre gli umani al silenzio, in un muto deserto!
E, poi, hanno un’altra arma formidabile: la democrazia. La democrazia! La democrazia, promettono, vi renderà liberi, ma aggiungono che la libertà dovete conquistarvela, e sarà vostra il giorno in cui sarete tutti uguali, cioè perfettamente equabili ad un unico programmato modello collettivo e beneficerete, ad uno ad uno e quindi tutti insieme, della gaudiosa libertà per tal singolare modello predisposta, ma forse . . . inutili sarete allora gli uni agli altri.
Prima però vi faranno sperimentare tutte le forme costituzionali di democrazia che vi saranno proposte: quella parlamentare, quella presidenziale e la più lusinghevole di tutte per quanto inarrivabile . . . la democrazia diretta! Frattanto mentre voi, incricrilliti o insardinescati et cetera, vi dilettate a far piazzate e altre scemenze, LORO, i Padroni del globo, dirigono la giostra dall’unica cabina elettorale che conta davvero, la sofisticatissima cabina massmediale . . . mentre i grilletti canterellano alle sbiadite stelle, e i cuochi manchi friggono le sardine.
“Auff! auff . . . che noia! Qui tutti capeggiano e nessuno governa.” – In molti deprecano indispettiti, e intanto cedono a ogni sorta di raggiro.
Oddio! Perché, di colpo, abbiam tirato in ballo fatti di casa nostra? Chi ci ha tirato per la manica? Cosa ci ha sollecitati? Ci accorgiamo infatti che il nostro scritto ha subito una improvvisa contrazione, uno strappo discorsivo; perché questa discontinuità nella narrazione? Stavamo esaminando dal nostro punto di vista l’attuale contesto del mondo e come questo, a dire di molti, corre il rischio di catastrofiche eventualità; uno strattone, e l’interesse s’è ristretto agli accadimenti della nostra terra. Qualcosa ci ha emotivamente coinvolti, oppure trattasi d’una preoccupazione, d’un cruccio o d’un particolare interesse? Eppoi, quel curioso cenno a grilletti e sardine; già, che hanno a che fare con quel di cui si discuteva insetti e pesciolini?
La contrada Italia è un onfalo, cioè una zona centrale della Terra; quel che avviene su questo suolo assume una particolare significazione, i fatti che vi si manifestano, le simbologie qui ispirate o enunciate, assumono una risonanza generale, qualunque figura retorica, traslato, metafora vi riceve verifica; la cultura, il diritto, la civiltà che in questo luogo hanno origine si estendono a tutte le genti.
E se, immaginiamo, su questo suolo si commettessero atti d’una ferocia inaudita, si esasperassero avversioni, rancori, vi mettesse radici l’odio, vi si operasse contro natura deformandone lo stato e la sua fruttuosa condizione, vi si affermasse e si diffondesse un che di avverso, d’oscuramente ostile, di inumano? In breve, vi si insediassero “potenze infere”?
Nell’eventualità vi capitasse d’intravedere per le strade delle vostre città una sfuggente figura indaffarata, in sé ombrosa e torva, esternante un rigido e glaciale estraniamento, vigili, sull’istante rientrate in voi stessi; eccolo! quello è l’avversario. Non vi lasciate sorprendere; nessun timore, né vi colga inquietudine. Avete avuto la gran fortuna di vedere, e in modo palese, quel che la maggior parte degli uomini, folle e nazioni, non scorgerà mai perché già in tutto e per tutto è adusa a quel sembiante, anzi a tal punto avvezza, presa e immischiata, che dentro di sé, come per un sortilegio, ne ha fatto propria tutta l’infera potenzialità. Quello è l’avversario dunque e potrebbe anche esser dentro di voi, perciò dovete esser vigili attenti, combattivi e immuni da ogni sorta di fascino.
*
In quel tempo, son trascorsi molti anni, la nostra città, un campestre paesone, all’inizio della primavera accoglieva tra le sue mura il teatrino dei pupi. Il burattinaio, che noi chiamavamo il puparo senza punto sapere se venisse davvero su dalle trinacrie sponde, allora l’indeterminato lasciava largo spazio alla fantasia dei ragazzi, rizzava il suo tendone nella grande piazza, all’ingresso c’era l’insegna e di lato l’orario degli spettacoli; sull’ingresso una minuscola biglietteria ove sedeva una cortese e sorridente donnina, la moglie del puparo. Erano in tre, il burattinaio, sua moglie e un ragazzotto più o meno della nostra età di ginnasiali, e lui, felice lui, apprendista burattinaio. Di suo padre ricordo il sorriso che era insieme burbero e benevolo e soprattutto la voce a volte tenorile, a volte baritonale e sovente grave, da basso. E noi, intimamente felici, non mancavamo l’ora dello spettacolo, plaudenti alle gloriose vicende dei paladini, a quello scintillio di corazzine, gambali, elmi, spaducce, sciabolini e scimitarre. Indimenticabile il momento in cui tutta la platea andava in visibilio, e noi giocosamente di rincalzo, allorché la voce stentorea del puparo raggiungendo il culmine retorico, cioè di maggiore efficacia della sua teatralità fantasticamente burattinesca, dopo una maestosa celebrazione dell’eroico Orlando pronunciava la condanna e l’etterno (sic) svergognamento di Gano di Maganza, il traditore di Roncisvalle.
Poi dilagò la televisione e il puparo con il suo eroico teatrino scomparve travolto dal “progresso”!
Ma uno tra quegli studenti dalla innocua rappresentazione scenica ne usciva pensieroso. L’attenzione posta avrebbe voluto penetrare nel fondo della leggenda; la sua puerizia era stata fortemente scossa da una guerra tremenda che aveva coinvolto il mondo intero e in cui fazioni ideologiche avverse si erano ferocemente affrontate senza risparmio di sangue. Qual racconto avrebbe offerto ai posteri l’ascoso puparo d’un evento siffattamente rovinoso, eppoi cosa ancora preparato per i posteri? Queste presso a poco le sue riflessioni. La maggior parte di quelle storie di fantocci portavano per l’appunto sulla scena due fazioni in aspra contesa tra di loro, da una parte si celebravano i fedeli dall’altra gl’infedeli, i Mori contro i Franchi, saraceni contro cristiani, Agramante re dei Mori contro il paladino Orlando, Ruggero contro Rodomonte; individui, fedi religiose, nazioni, eserciti avversi che si battevano l’uno contro l’altro, e questo gran tumulto, questo finimondo era al postutto mosso dalle mani d’un unico burattinaio, lassù, nascosto al pubblico; parimenti le voci in contrasto dei burattini che si affrontavano sulla scena erano la voce, unica voce, del burattinaio e così i loro gesti e i loro brandi erano mossi soltanto dalle sue abili mani.
Il canuto signore che ci racconta questa storia soggiunge pure che il ragazzo crescendo maturava il suo pensiero e soleva dire che tutto quel contesto, preso nel suo insieme, esprimeva allegoricamente la caduta dell’uomo che subisce passivamente l’azione del destino. Il destino! l’astuto burattinaio che profitta dell’apatia, dell’indolenza, della pigrizia umana e dell’uomo ne fa un fantoccio. Il destino che non è una divinità, ma l’uomo a rovescio in un mondo alla rovescia. Il puparo poi, quello che all’inizio della primavera veniva a montare il tendone nella piazza grande del paese, quel buonuomo, restava nondimeno per lui un mistero. Aveva davvero coscienza dei suoi racconti, aveva la chiave lui, modesto teatrista, dell’elusoria leggenda? Colui, aggiungiamo noi, che iniziò il gioco, quegli di certo sì.
*
Dicevamo che questa artefatta globalizzazione sembra l’enorme cratere d’un vulcano sul punto d’esplodere e di certo oggi su questo pianeta non si respira un’atmosfera di festa. Una latente infera potenzialità va accumulandosi, sempre più minacciosa, tra l’altro nel nostro Mediterraneo, con grosso rischio di coinvolgimento della nostra penisola. Occorrerebbe in questo momento massima attenzione e vigilanza da parte dei più combattivi spiriti italici, un discorso univoco e quindi concordia d’intenti per la tutela dei valori della nostra civiltà, alla cui urgente difesa dovrebbe partecipare sua sponte tutta l’Europa. Sarà pure duro, difficile e impegnativo, epperò la volontà, la spinta, l’incitamento devono partire dal nostro suolo.
Innanzitutto necessita darsi da fare per risanare e affrancare il popolo da un intimo dissidio che si è profondamente radicato e ne rende estremamente vulnerabile il tessuto culturale e sociale. Una scissura che insiste da molti decenni e risalente alle lotte tra conservatori e massimalisti, moderati ed estremisti, sfociate poi in una guerra di annientamento tra opposte ideologie, vissute dalle parti in lotta come veri e propri credo totalizzanti. Si trattò di una guerra civile che fu di portata continentale e sprofondò nell’odio e nell’impietoso.
Le nazioni, le genti non si purificarono del sangue versato, l’uomo imbestialito, perduto il lume della giustizia, perseverò nel suo inveterato rancore; dell’odio fece il suo sentimento più profondo e tenace, e poi un risentimento da alimentare e accrescere di continuo. E la contaminazione si è trasmessa ai figli e ha raggiunto i nipoti. Una guerra degli animi che non si placa, che non ha fine, una guerra che ancora oggi produce rovine morali e culturali. Senza la pace, senza la pace vera, quella che alberga nel cuore degli uomini, non si sana discordia. A una eredità marcia si aggiunge una faziosità artatamente alimentata per sostenere una continua, permanente tensione a danno delle nazioni e delle genti e a vantaggio dei grossi profittatori, predatori che da alcuni secoli ormai hanno imposto il loro egemonismo con le guerre acuendo senza tregua le discordie che affliggono i popoli, snaturati e asserviti. Una fazione contro un’altra armata, astiosi sarcasmi, avversi slogan e il “nequitoso puparo” a tirare i fili che muovono i fantocci alla rissa; ineludibile la voce padronale (stampa, radio, tivvù ecc.) lesta a cambiar registro secondo le circostanze e l’alternanze dei provvisori, sovente ridicoli, governanti, sue prescelte marionette al soldo.
Un ambiente umano che va sempre più estenuandosi e deteriorandosi non potrà, prima o poi, fronteggiare alcun male; né un male interno né una minaccia esterna, finirà per essere travolto e proprio a cagione della sua viltà. Nuoce a un popolo svilirsi, immeschinire, smarrire il suo cammino. Ogni nazione, gente, popolo, ha fin dalle origini, così come anche ogni individuo umano, stabilito in sé un proprio distintivo tragitto, un (connaturale? congeniale?) itinerario del suo viaggio nella storia, qui sulla terra. Così ogni popolo, e persino ogni paese ha una propria mentalità, forma mentis, che ne impronta e caratterizza i costumi, le virtuosità e i difetti, le usanze e le leggi, la vocazione religiosa e culturale, ne ispira la creatività, l’arte, la visione del mondo. Sopravvengono catastrofi e sciagure, intorno cumuli di rovine? Immediata la giustificazione: era scritto così! La fatalità, l’inesorabilità della sorte! Fantocci, dunque, del fatidico puparo, quello che predestina alla buona o alla mala ventura? Non è così, è come abbiam narrato sopra. Uno solo il responsabile, l’uomo e il suo pensare, il suo agire. Occorre piuttosto chiedersi dov’è lo sbaglio, a cosa non si è badato o non è stata posta la necessaria, tempestiva attenzione; qual viltà ha impedito che vi si ponesse, in tempo, mente consapevole e giusta cura? Dunque, venuta meno è la coscienza della gravità del momento, della insidiosa circostanza sopravvenuta, o addirittura si è disattesa una favorevole congiuntura? La viltà, che è anche inettitudine e di sovente presunzione e insolenza, sempre ottunde la consapevolezza. La mancanza di consapevolezza, che è ancor più nell’incertezza, nella “perplessità crepuscolare”, non può che determinare svantaggi, cagionar nocumento; come agl’individui così ai popoli. Per non far danno occorre sempre aver piena contezza di sé e della realtà che sta tutt’intorno; accortezza, senno ed equilibrio; saper dare la risposta giusta all’occorrenza vuol dire accettazione di civile responsabilità, rende manifesto il bene operare per sé stessi e per gli altri. Tale il comportamento precipuo d’un autentico gentiluomo, d’un politico incorrotto, l’onesto carattere d’un uomo di Stato.
Del buon governante abbiam già sopra detto abbastanza; abbiamo anche parlato dei popoli e dei loro governanti politicamente e culturalmente asserviti ai potentati stranieri e delle folle condizionate dai mass media e in potere del terrore atomico. Abbiamo accennato al democratismo mondialista e ai regimi da esso derivati, in gran parte deludenti, pessimamente governati e sottomessi ideologicamente a un materialismo meccanicistico con pretese dommatiche, e socialmente a un determinismo economico mercantilistico, schiacciati da un soffocante progressismo, senza neanche un barlume di trascendimento e di slancio verso il mistero dell’essere. Democratismo cosmopolita omologante, ove le società sono massificate, culturalmente imbarbarite, avvezzate al consumismo; rimossi i simboli patri, indebolito il nome stesso di padre, involgarito il femminino, snaturata la famiglia, falsata l’educazione, devastata la cultura classica, deformata la scuola con l’abuso del pensiero unico. Appiattito l’insegnamento e ridotto a mera erudizione, con gli stili di vita e gli usi culturali inculcati dall’americanismo dilagante, quindi posti in non cale la misura e il valore della classicità, il democratismo cosmopolita respinge il bello, minaccia pur anco la naturale armonia. Questo ormai innegabile marasma, questo declino proviene, per esprimerci con una precisa frase del Leopardi, da “la comune viltà dei pensieri e l’ignavia dei costumi”; il distacco dal sommo pensiero classico, l’abbandono dei patri costumi e delle patrie fedi, in Italia e in Europa, denotano la tradigione (ad arte usiamo il vocabolo antiquo) posta in essere dalla ipocrita morale del democratismo e dal suo infido clero; ma, soprattutto, è più che palese la viltà di questi tempi ultimi.
Dante trattando della viltà la intende come quella aberrazione, stortura, che offende l’anima dell’uomo ingombrandogli la mente di pensieri ignobili così da distoglierlo da ogni onorata impresa: “sì che d’onrata impresa lo rivolve”. Il termine “vile” è antitetico, cioè in contrasto inconciliabile, con il qualificativo “nobile”, due orientazioni, due propensioni diverse: la prima tende in basso ed è viltà, l’altra tende in alto ed è nobiltà. Se vogliamo esaminare i due termini dal punto di vista etimologico e aggiungiamo anche paretimologico ma qui non meno fondato, il vile, accostabile al venale, comprende tutto ciò che può esser messo in vendita, quindi comprato e perciò soggetto a estimazione; pertanto nel senso traslato, sul piano dei grandi valori, quelli inestimabili, spirituali ed etici, per esempio, va a raffigurare propriamente l’ignobile, cioè il non nobile. Nobilitas, secondo alcuni studiosi, deriverebbe da non vilitas; sta bene, comunque altri la riferiscono alla radice GNA con derivazione dal latino noscere, cognoscere, dal greco gnòsco, conoscere, sapere. Nulla osta però che le due interpretazioni possano ben combinarsi e stare insieme. Il nobile, ovviamente non l’arricchito, è colui che emerge, si distingue, si fa onore e perciò è conosciuto ed è anche colui ch’è fornito della conoscenza, del sapere, della giusta consapevolezza di sé e del proprio agire. Tutto sempre riconduce al dantesco sentiero della trascendenza: “Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza”.
E voi quaggiù, in fondo a queste piazze, fottio di gente inetta, briaca del nulla, manco in un degno bestiario (eran questi quei trattati medievali in cui gli animali e i fatti della natura venivano considerati simboli di realtà profonde) ricercate le vostre simbologie, ma fiaccamente competete con piscicoli e insettucoli e vi fregiate, compiacenti gli intelletti imbelli, di nomarvi così vergognosamente al cospetto del mondo; i nomignoli che vi appiccicate corrispondono appieno ad una non portentosa conformazione psichica, a uno scarso quoziente intellettivo, a indubbiamente bassi livelli culturali; al minimo infatti dei grilletti e delle sardelle. Bravura del vostro suggeritore, giù dalla buca! Or dunque? Sì, Signori! La subcoscienza by night al grado più basso e figurata in maniera caricatamente caricaturale dall’insetto occhialuto che si rintana sotterra al comparire del sole; l’incapacità a vivere la vita dell’individuo umano e la spinta, o la gnagnera forse, a lasciarsi assorbire nel collettivo, acquoreo persino: la società liquida, incerta, fluida, instabile, raffigurata dal pesciolino che si rifugia nel fitto banco errabondo.
*
Sì, era proprio lui! Per qualche istante abbiamo intravisto il suo ghigno sporgersi fra le quinte. . . Lui continua indefesso il suo lavoraccio, presentare alla gente l’avarizia in maschera di altruismo, l’egoista nella veste del filantropo, il millantatore e il falsatore con i caratteri dell’uomo semplice e veritiero, l’ingannevole e l’ingiusto come fosse il reale, il corretto, il giusto, e così via. . . ma le nazioni giù, a picco. . .
Di certo occorre un rimedio tempestivo, il rimedio risolutore più vicino, più intimo, più prossimo, anche se celato, nascosto in segrete profondità. Dunque un’inflessibile azione per fermare il degradamento e annientare la protervia del fomentatore di nequizie. Occorre debellare il male, sconfiggere la viltà.
Amiconi, d’Italia, beneamati amici! Come, non sapete dove andare? Dove andare a sbattere il naso? A destra o a manca? Girate al largo dagli uni e dagl’altri? Non convincono né questi né quelli? Dite che il loro olio sa di rancido, tutti vecchi slogan, che i loro negozi o sono atelier radical-chic o botteghe dell’usato . . . Ormai diffidenti, dubitate della buona fede di costoro, li sentite stranei, sempre più stranei . . . Bene, bene! È nell’aria, bene! ecco alla fine delle persone in grado di sottrarsi alle grinfie del sinistro Puparo, di quel malintenzionato che scora le nazioni, che disanima l’universo mondo. Ecco degli uomini alla ricerca di qualcosa, d’un bene perduto forse? Già è lodevole che non si lascino illudere. Una breccia, dunque, un’apertura! Il nequitoso millantatore, il megalomane perverso con le sue masse di stranei, non ha più pieno potere sulle menti. Si fa avanti un gruppo di ingenui e liberi designati dal patrio nume: spirituale interno volere d’una schiera eletta. È il principio del risveglio. Fa d’uopo, e reca beneficio, ricordarsi del proprio passato ed approfondire nell’intimo l’intelligenza delle origini. Dagli eletti questo ricordo dev’essere ritrasmesso all’intero popolo. Premuratevi, è l’ora, brava gente! Si radunino gli erranti; serenamente in cammino! “Le radici profonde non gelano/dalle ceneri rinascerà un fuoco,/l’ombra sprigionerà una scintilla” (Tolkien). All’opera, dunque con dedizione e coraggio, qui e ora! Bene operando, il meritevole guadagnerà il tempo perso. Abbiate fiducia nel vostro Sé profondo da tempo immemorabile vegliato dai Padri nostri. Da voi novellamente evocata, la Patria, la Patria immortale vi rimeriterà. Il buon combattente, come il vero vate, sa che la foglia dell’allor non langue; entrambi hanno nella mente e nel cuore la Terra solare dei Padri.
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Quest’anno duro sia l’anno del coraggio, della possanza, della virtù ideativa, della fecondità: l'anno dell’Arbor Felix.
L’anno del ritorno alla saggezza, il generoso frutto della Terra genito dal Cielo.
L’anno del ritorno a Liber pater che è Marspiter che è il Sole.
SOL MUNDI MENS EST
