
NELL'ANNUALE
DELLA FONDAZIONE DI ROMA
Te redimito di fior purpurei
april te vide su 'l colle emergere
da 'l solco di Romolo torva
riguardante su i selvaggi piani:
te dopo tanta forza di secoli
aprile irraggia, sublime, massima,
e il sole e l'Italia saluta
te, Flora di nostra gente, o Roma.
Se al Campidoglio non più la vergine
tacita sale dietro il pontefice
né più per Via Sacra il trionfo
piega i quattro candidi cavalli,
questa del Fòro tua solitudine
ogni rumore vince, ogni gloria;
e tutto che al mondo è civile,
grande, augusto, egli è romano ancora.
Salve, dea Roma! Chi disconósceti
cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
e a lui nel reo cuore germoglia
torpida la selva di barbarie.
Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
del Fòro, io seguo con dolci lacrime
e adoro i tuoi sparsi vestigi,
patria, diva, santa genitrice.
Son cittadino per te d'Italia,
per te poeta, madre de i popoli,
che desti il tuo spirito al mondo,
che Italia improntasti di tua gloria.
Ecco, a te questa, che tu di libere
genti facesti nome uno, Italia,
ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
affisa nè tuoi d'aquila occhi.
E tu dal colle fatal pe 'l tacito
Fòro le braccia porgi marmoree,
a la figlia liberatrice
additando le colonne e gli archi:
gli archi che nuovi trionfi aspettano
non più di regi, non più di cesari,
e non di catene attorcenti
braccia umane su gli eburnei carri;
ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
su l'età nera, su l'età barbara,
su i mostri onde tu con serena
giustizia farai franche le genti.
O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
di gloria, di gloria, di gloria
correran per l'infinito azzurro.
Con questa mirabile ode Giosue Carducci celebrava la ricorrenza della fondazione di Roma nell’aprile dell’anno postunitario 1877. La festività del Dies Romana fu vivamente sentita dagli uomini del risorgimento e anche recepita dal governo fascista come solennità nazionale. Abolita nell’anno 1945 dopo la dura sconfitta subita dall’ Italia nell’ultima guerra, i regimi che da allora si sono susseguiti hanno rifiutato questo rito unitario per esaltare la discordia, alimentando un persistente conflitto civile.
Gli Italiani di buona volontà, che non hanno il senno cerchiato di fredda tenebra, vogliano far ritorno al patrio lido per ascoltarvi l’auspicio del Vate, onde il sole che l’Italia saluta respinga le tenebre dell’odierna torpida barbarie e la gloria di Roma ancora rifulga sull’avversa Cartagine.

LA FONDAZIONE
CHE PROMANA DAL CIELO
I DODICI AVVOLTOI, LA FOLGORE, IL TUONO
Cum igitur inter se Romulus ac Remus de condenda urbe tractarent, in qua ipsi pariter regnarent, Romulusque locum qui sibi idoneus videretur in monte Palatino designaret Romamque appellari vellet, contraque item Remus in alio colle qui aberat a Palatio milibus quinque eundemque locum ex suo nomine Remuriam appellaret, neque ea inter eos finiretur contentio, avo Numitore arbitro ascito, placuit disceptatores eius controversiae immortales deos sumere ita ut utri eorum priori secunda auspicia obvenissent, urbem conderet eamque ex suo nomine nuncuparet atque in ea regni summam teneret.
Cumque auspicaretur Romulus in Palatio, Remus in Aventino, sex vulturios pariter volantes a sinistra Remo prius visos, tumque ab eo missos qui Romulo nuntiarent sibi iam data auspicia quibus condere urbem iuberetur. Itaque maturaret ad se venire.
Cumque ad eum Romulus venisset, quaesissetque quaenam illa auspicia fuissent dixissetque ille sibi auspicanti sex vulturios simul apparuisse, «At ego» inquit Romulus «iam tibi duodecim demonstrabo». Ac repente duodecim vultures apparuisse, subsecuto caeli fulgore pariter tonitruque.
Tum Romulus: «Quid» inquit «Reme, affirmas priora cum praesentia intuearis?». Remus,postquam intellexit sese regno fraudatum: «Multa» inquit «in hac urbe temere sperata atque praesumpta felicissime proventura sunt».
Anonimo

IL 21 DI APRILE
(La Fondazione terrestre:
l’aratro, il toro, l’Orator;
l’assenso dell’aquila e del picchio.)
L'aratro è fermo: il toro, d'arar sazio,
leva il fumido muso ad una branca
d'olmo; la vacca mugge a lungo, stanca,
e n'echeggia il frondifero Palazio.
Una mano sull'asta, una sull'anca
del toro, l'arator guarda lo spazio:
sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio;
là, sul monte, una lunga breccia bianca.
E' Alba. Passa l'Albula tranquilla,
sì che ognun ode un picchio che percuote
nell'Argileto l'acero sonoro.
Sopra il Tarpeo un bosco al sole brilla
come un incendio. Scende a larghe ruote
l'aquila nera in un polverio d'oro.
Giovanni Pascoli

FONDAZIONE DI ROMA
(Fatale, ab origine, quindi nel luogo naturale)
Quelli? Ma quelli, amico, ereno gente
Che prima de fa' un passo ce pensaveno.
Dunque, si er posto nun era eccellente,
Che te credi che ce la fabbricaveno?
A queli tempi lì nun c'era gnente;
Dunque, me capirai, la cominciaveno:
Qualunque posto j'era indiferente,
La poteveno fa' dovunque annaveno.
La poteveno fa' pure a Milano,
O in qualunqu'antro sito de lì intorno,
Magara più vicino o più lontano.
Poteveno; ma intanto la morale
Fu che Roma, si te la fabbricorno,
La fabbricorno qui. Ma è naturale.
Cesare Pascarella

R O M A
Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:
accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.
Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?
Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella
mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?
e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,
ragno attirante in vano, dentro le reti sue?
Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:
raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.
Ei benedice al fósco Vaticano, al bel Quirinale,
al vecchio Capitolio santo fra le ruine;
e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.
Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
e tu Soratte grigio, testimone in eterno!
Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;
Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;
mentr’io dal Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,
nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo.
O nave che attingi con la poppa l’alto infinito
varca a’ misterïosi lidi l’anima mia.
Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
tranquillamente lunghi su la Flaminia via,
l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;
passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni
de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.
Giosue Carducci

QUANTO IL ROMANO VALORE VALGA PIU’ DELLA MORTE
Spezzate i dardi con l’impeto dei vostri petti, rintuzzate il ferro con la gola! Urla il centurione cesariano Sceva ai suoi legionari, scarsi di numero e in attesa di rinforzi, di fronte all’improvviso ed impetuoso assalto dell’esercito pompeiano. Egli, per primo e da solo, a salvaguardia della vittoria di Cesare, oppone il baluardo di un indomito coraggio al soverchiante avversario. Frattanto riceve colpi su colpi: “nam sanguine fuso vires pugna dabat” (infatti pur dissanguato il combattimento ti forniva di nuove forze). E i legionari lo seguono, avidi di sapere se il valore, sorpreso dal numero e su un terreno insicuro, valga più della morte. Lucano così commenderà la morte gloriosa di Sceva: la Fortuna vide quel giorno un insolito fatto, scontrarsi un esercito e un uomo.
Il 26 gennaio 1887, in Africa orientale sulle alture di Dogali, un pugno di italiani e il loro comandante, sopraffatti da numerosissima orda barbarica mostrarono indomito coraggio, avidi di sapere se il valore, sorpreso dal numero e su un terreno sfavorevole, valga più della morte.
Presentate le armi!
SCAEVA VIRO NOMEN
Iam Pompeianae celsi super ardua valli
exierant aquilae, iam mundi iura patebant:
quem non mille simul turmis nec Caesare toto
auferret Fortuna locum, victoribus unus
eripuit vetuitque capi seque arma tenente
ac nondum strato Magnum vicisse negavit.
Scaeva viro nomen; castrorum in plebe merebat
ante feras Rhodani gentes; ibi sanguine multo
promotus Latiam longo gerit ordine vitem;
pronus ad omne nefas et qui nesciret, in armis
quam magnum virtus crimen civilibus esset.
Hic ubi quaerentis socios iam Marte relicto
tuta fugae cernit: "Quo vos pavor" inquit "adegit
impius et cunctis ignotus Caesaris armis?
O famuli turpes, servum pecus, absque cruore
terga datis morti? Cumulo vos desse virorum
non pudet et bustis interque cadavera quaeri?
non ira saltem, iuvenes, pietate remota
stabitis? E cunctis, per quos erumperet hostis,
nos sumus electi. non parvo sanguine Magni
iste dies ierit. Peterem felicior umbras
Caesaris in vultu; testem hunc Fortuna negavit:
Pompeio laudante cadam. Confringite tela
pectoris impulsu iugulisque retundite ferrum.
Iam longinqua petit pulvis sonitusque ruinae,
securasque fragor concussit Caesaris aures.
Vicimus, o socii; veniet qui vindicet arces,
dum morimur." Movit tantum vox illa furorem
quantum non primo succendunt classica cantu,
mirantesque virum atque avidi spectare sequuntur
scituri iuvenes, numero deprehensa locoque
an plus quam mortem virtus daret. Ille ruenti
aggere consistit primumque cadavera plenis
turribus evolvit subeuntisque obruit hostis
corporibus; totaeque viro dant tela ruinae
roboraque et moles, hosti seque ipse minatur.
Nunc sude, nunc duro contraria pectora conto
detrudit muris et valli summa tenentis
amputat ense manus; caput obterit ossaque saxo
ac male defensum fragili compage cerebrum
dissipat; alterius flamma crinesque genasque
succendit; strident oculis ardentibus ignes.
Ut primum cumulo crescente cadavera murum
admovere solo, non segnior extulit illum
saltus et in medias iecit super arma catervas,
quam per summa rapit celerem venabula pardum.
Tunc densos inter cuneos compressus et omni
vallatus bello vincit, quem respicit, hostem.
Iamque hebes et crasso non asper sanguine mucro;
percussum Scaevae frangit, non vulnerat hostem
perdidit ensis opus, frangit sine vulnere membra.
Illum tota premit moles, illum omnia tela.
Nulla fuit non certa manus, non lancea felix,
parque novum Fortuna videt concurrere, bellum
atque virum. Fortis crebris sonat ictibus umbo,
et galeae fragmenta cavae conpressa perurunt
tempora, nec quidquam nudis vitalibus obstat
iam praeter stantis in summis ossibus hastas.
Quid nunc, vaesani, iaculis levibusve sagittis
perditis haesuros numquam vitalibus ictus?
Hunc aut tortilibus vibrata phalarica nervis
obruat aut vasti muralia pondera saxi;
hunc aries ferro ballistaque limite torta
promoveat. Stat non fragilis pro Caesare murus
Pompeiumque tenet; iam pectora non tegit armis,
ac veritus credi clipeo laevaque vacasse
aut culpa vixisse sua, tot vulnera belli
solus obit densamque ferens in pectore silvam
iam gradibus fessis, in quem cadat, eligit hostem.
Par pelagi monstris, Libycae sic belua terrae
Sic Libycus densis elephans obpressus ab armis
omne repercussum squalenti missile tergo
frangit et haerentis mota cute discutit hastas;
viscera tuta latent penitus, citraque cruorem
confixae stant tela ferae; tot facta sagittis,
tot iaculis unam non explent vulnera mortem.
Dictaea procul ecce manu Gortynis harundo
tenditur in Scaevam, quae voto certior omni
in caput atque oculi laevum descendit in orbem.
Ille moras ferri nervorum et vincula rumpit
adfixam vellens oculo pendente sagittam
intrepidus telumque suo cum lumine calcat.
Pannonis haud aliter post ictum saevior ursa,
cum iaculum parva Libys amentavit habena,
se rotat in vulnus telumque irata receptum
impetit et secum fugientem circumit hastam.
Perdiderat vultum rabies; stetit imbre cruento
informis facie. Laetus fragor aethera pulsat
victorum; maiora viris e sanguine parvo
gaudia non faceret conspectum in Caesare vulnus.
Ille tegens alta suppressum mente furorem
mitis et a vultu penitus virtute remota
"Parcite" ait "cives; procul hinc avertite ferrum,
collatura meae nil sunt iam vulnera morti:
non eget ingestis, sed vulsis pectore telis.
Tollite et in Magni viventem ponite castris;
hoc vestro praestate duci; sit Scaeva relicti
Caesaris exemplum potius quam mortis honestae."
Credidit infelix simulatis vocibus Aulus
nec vidit recto gladium mucrone trementem
membraque captivi pariter laturus et arma
fulmineum mediis excepit faucibus ensem.
Incalvit virtus atque una caede refectus
"Solvat" ait "poenas, Scaevam quicumque subactum
speravit; pacem gladio si quaerit ab isto
Magnus, adorato summittat Caesare signa.
An similem vestri segnemque ad fata putatis?
Pompei vobis minor est causaeque senatus
quam mihi mortis amor." Simul haec effatur, et altus
Caesareas pulvis testatur adesse cohortes.
Dedecus hic belli Magno crimenque remisit,
ne solum totae fugerent te, Scaeva, catervae.
Subducto qui Marte ruis: nam sanguine fuso
vires pugna dabat. Labentem turba suorum
excipit atque umeris defectum imponere gaudet.
Ac velut inclusum perfosso in pectore numen
et vivam magnae speciem Virtutis adorant
telaque confixis certant evellere membris
exornantque deos ac nudum pectore Martem
armis, Scaeva, tuis…
LUCANO, Farsaglia VI

D O G A L I
…tutti giacevano in ordine come fossero allineati.
Il 26 gennaio [1887] Ras Alula ha sorpreso la colonna De Cristoforis, spiccata da Monkullo per soccorrere il maggiore Boretti assediato in Saati, e l’ha distrutta sulle alture di Dogali.
[ … … … ]
Urrah! colonnello, fuoco.
Il drappello alto, allineato tuona; non è una battaglia, ma una tragedia. Gli eroi sono pallidi, bianchi come le statue e fermi del pari; il fumo della moschetteria che li avvolge sventola sulle loro teste come una immensa bandiera, attraverso la quale il sole accende capricciosamente le iridi di tutti i vessilli del mondo. I loro movimenti sono ritmici, giacché nella loro impassibilità l’orgoglio è succeduto alla speranza. Siccome non possono arrendersi, resistono con quel forte sentimento della morte che scoppia in ogni uomo, quando sente che la vita è già conchiusa e non difende più che la propria personalità.
E il fiotto nero dell’Africa si addensa, discende da tutti i colli, ondeggia e rugge. I cavalli vi nuotano furiosamente nitrendo, o vi scorrazzano invasati dinanzi come sulla ripa di un torrente che dilaghi. Un orribile tumulto ricopre il gemito supremo dei morenti e le strida dei feriti. Infatti, da tutti i suoi lembi si veggono uomini fuggire con altri uomini morti o moribondi sulle spalle, come naufraghi strappati ai suoi vortici, entro i quali terribili figure di donne infuriano confusamente fra il lampeggiamento delle armi e lo scintillio dei colori sventolanti su tutto quel nero. Non vi si distingue né ordine né forma: non è un esercito, non è un’orda, ma una moltitudine in una caccia, che l’agguato ha preparato e la strage deve compire. Hanno poche armi da fuoco e si avanzano carponi, balzando come le tigri, strisciando come i serpenti dietro ogni asperità del terreno, evitando il fuoco della moschetteria, che cade sovra di essi come una grandine regolare, ma sempre più rada. Colla destrezza meravigliosa dei selvaggi, senza guida di capitani hanno largamente circuito quel colle e attendono che l’eroico manipolo abbia finito le cartucce per slanciarsi all’assalto. Sarà come un soffio del simun, uno schianto d’uragano. La sicurezza della vittoria centuplica la ferocia della loro attesa, guardando quel drappello ancora allineato, bianco sul colle grigio, immobile sotto il sole davanti alla morte.
Ma il fumo della moschetteria, giacché le mitragliatrici si sono infrante ai primi tiri, non è più che un velo leggero sulla loro fronte rotto qua e là e macchiato di sangue.
Il terribile momento passa entro tutte le anime come un freddo di un altro mondo: sono inermi. I pochi che bruciano ancora le ultime cartucce, sembrano con esse gettare un appello disperato ai compagni abbandonati come essi nei radi fortilizi di quel confine, o inerti a Massaua spiando sul mare il sorriso di una vela o di una bandiera italiana. Ma l’Italia è troppo lontana, oltre due mari, nell’incanto della sua eterna bellezza che le fa dimenticare persino soldati morenti per lei sul primo lembo del deserto africano.
- Italia, Italia! e la loro suprema invocazione fu il grido supremo di sfida, col quale risposero all’immenso ruggito abissino.
E disparvero.
Quel turbine nero li urtò aggravandosi sopra di loro come una nuvola, entro la quale non si distinse più nulla, ma nella quale l’ultimo gruppo che difendeva il colonnello crivellato di ferite, udì ancora il suo ultimo comando di salutare quelli che erano già morti:
- Presentate le armi!
Le presentarono e caddero con esse intorno a lui, che aveva trovato per tutti una di quelle parole, che traversano i secoli come una meteora lasciandovi una traccia inestinguibile.
Quando quella nuvola si dileguò, tutti giacevano in ordine come fossero allineati.
A. ORIANI, Fino a Dogali

*

A P R I L E 1 9 4 4 : " V i v a l ' I T A L I A "
M I L E S
"Erano giovani, giovanissimi
e andavano a morte, cantando…
(Dalla viva voce di donne di Sant’Angelo in Formis,
testimoni dei fatti nell'aprile '44) -1972
Chi più ricorda i tuoi diciott’anni
e le primavere sconvolte
dal rabbioso nemico?
Calmo il tuo cuore
ne traversava i vermigli giardini
vigilati da siepi di filo spinato,
tratto come spinalba
nei desolati rosai.
S’indossa con fierezza,
indumento d’asceta,
la divisa, quando occupa il cielo
il nembo livido della guerra.
Alla prova e senza odio,
fissando negli occhi il nemico!
Perciò, stamane, in fretta
t’hanno legato al palo.
Piantò il nemico un palo
in terra nostra per i supplizi;
contro quel palo ignuda
si schianta la tua giovinezza!
Nell’occhio limpido,
nel fiotto del sangue generoso
s’addensa l’ora.
L’ora del tuo ardimento
è la freccia che lanci alla posterità.
Oh, pur nei giorni vili
dalle genti d’Italia
nacquero nobili figli!
Piantò il nemico un palo
in terra nostra per i supplizi.
Ti è familiare quel palo
che da lontane stagioni
il vignaiolo nei campi infigge
per stendervi la vite.
Vertigine… la scarica
dei moschetti… e scivoli
giù, lungh’esso…
Nell’infinità, in alto,
quel volo d’eroica virtù!
L’albero di Minerva,
il mite ulivo, e il pampino
raccolgono insieme
l’indomito grido
e l’estremo respiro.
Recisa, la spiga mietuta
cede al grembo della terra il seme.
Ingiuriando il fato,
il barbaro calcagno
calpesta la fronte
dell’eletto milite,
spoglia inerme
nella rozza cassa.
Germinò quel legno
dalle foreste della tua terra,
anch’esso fu sradicato
dall’invasore, che alla svelta
sul taccuino sanguinoso
la data annota dell’esecuzione
e, alla sua lista, di pugno
della strage aggiunge il tuo nome
e l’ora, o legionario!
Presentate le armi !