L'inizio - ai PATRES
INDICE
AI PATRES – ALLA CONCORDIA – IMPELLERE SIMLEX – IL FIORE DEGLI INIZI – VERITÀ E MENZOGNA – PER UN RISORGIMENTO: RICUPERARE IL PERDUTO – L’ERCOLE DI VULCA – CLAVA-CLAVIS – CONSIGLI A CIRNO – CONCENTO D’AMICIZIA E DI PAROLA E CANTO – SOLARE VIRTÙ – IL SEME – COME IL FIORE – IL TEMPIO


ai P A T R E S
La Patria oggi non è che
un accampamento nel deserto.
E’ Patria la parola,
fulgido suono, dono
cui non rinuncio
onde non vada perso
dei Padri il supremo retaggio.
Dal politico gergo sbandeggiata,
ai codardi sgradita
ed oggi invisa ai più,
vibra, così redenta,
solo nel cuor valente.
E via, annunciamola ancora!
Qual supremo richiamo
spiegato nell’azzurra vastità,
semplice, solenne suggello
di mistiche sillabe,
della prima fatal pronuncia
serba la singolare risonanza.
Con abusate fronde
han teso a contraffarla:
patriottismi, nazionalismi…
Smodata mania degl’ismi,
a dogli e a dogli sparsi nella storia!
Te la ridico, e senza lacci:
riviva dono primigenio
in te! Giovin cuore, accoglila!
Te la porgono labbra
umilmente vaticinanti,
non assuefatte ma serrate
alle travolgenti euforie.
Ascolta! Ne giunge a te il suono,
viene dagli augusti primordi,
sarà il fonema del nostro
giovine canto!
Emule dei più vividi astri
splendono le note sublimi:
Patria! Parola sancita dagli avi
nell’età eroiche, verbo
echeggiante mitici canti!
Noi non falseremo quei canti.
Non suggerirmi, Musa,
frasi altisonanti, cariche
d’estenuante retorica;
sì, Patria è la parola
prodigiosa, epica parola,
che voglio raccontare
con il mio canto!
Sia felice il ritorno,
lume del Mito, ai sacri riti
dell’aurea terra avita,
all’alma Patria antica!
Volgo il cammino a te,
primo fra i Padri, o Giano,
progenitor divino.

IL SEME DELLA CONCORDIA
Cessato il tempo della rappresaglia,
i luttuosi giorni dell’odio,
l’albero antico
rinverdirà le fronde?
Il tempo nell’indugio sfibra
l’oltraggiato tronco!
Progenie trascorre rissosa,
indiscreta e corrotta,
piegata al benessere,
allo spreco. O anni folli
e voi, folle inquiete,
dove correte?…Andare in fretta
non è andare avanti;
inseguire vaghi miraggi,
un inoltrarsi in desolate lande!
Là, nella sabbia seminate,
sconsigliati mortali,
la contesa ad ogn’istante agitando
sulle zolle nutrici,
che stentano qui a fiorire
nelle oramai disperse primavere.
Ma vuole la sorte
che da sempre gl’Immortali
custodiscano l’aureo
seme della concordia!
Un tempo la divina Concordia
rinvigorì la pianta antica
ed essa venne su fronzuta.
Da quel seme tornerà a fiorire.


ALLA CONCORDIA
Anime belle, e di virtute amiche
terranno il mondo…
F. Petrarca
Voi, cuori generosi,
siate i benvenuti!
Voi, mani sincere,
siete bene accolte.
Mai discordate voi, cuori leali,
e voi, mani devote.
Ed è splendida, sacra,
l’opera della Concordia!
Lontano dai tumulti
e da stranie insidie,
l’unanime operare
appaghi l’Alma Madre,
mai ne turbi il dominio!
Nel suo ferace grembo
nutra il frutice e il fiore,
dell’etere sereno
munifico respiro!
Cuori frugali,
battete all’unisono il ritmo
del vermiglio sangue
e delle verdi linfe
nell’imperio dell’Aurea Luce!
Ah, diamanti tenaci!
Operose mani, unitevi,
profondetevi virtuose,
onde rigoglio rieda
e s'affermi Concordia!
Senza punta di vanto,
al concento degl'itali carmi
conduca ariose imprese.
Risolta la disputa,
del ramo sempreverde adorna,
d’apollinee virtù Tu largitrice,
tra le genti discenda
prodiga dall’invitto soglio,
sulle acque e sulle terre,
l’opera tua feconda!

I M P E L L E R E S I M P L E X
Indugiai a lungo sulle soglie,
in attesa!
Albe e tramonti,
cieli stellati e giorni nubilosi
trascorsero…
Tutto quel che apprendevo
con l’ansia dell’erudimento,
éh, le nozioni e i rami del sapere,
il racconto dell'umana vicenda
e l'arca immane delle tronfie scienze
(tutto ribatte la fuggevole ora)
precipitavano, inutili attrezzi,
come sassi nel vuoto!
Al fine, ciò ch’oggi m’è cognito
l’appresi con l’aiuto degli Gnomi.
I boschivi sapienti,
conoscitori dei tesori nascosti,
m’insegnarono le intelligenze
che svelano all'Uomo il vero sapere;
m’indicarono i luoghi
delle Ondine, delle Silfidi,
delle Salamandre…
Riconosco in quest’oggi,
nel germogliare di albe
incredibilmente fiorite,
l’inizio!
E so il canto improvviso,
il luminoso stupore
della primeva Aurora.

IL FIORE DEGLI INIZI
a chi vuole e sa bene intendere
Ormai sta tramontando
la stagione della menzogna;
siate pronti, già s’avvicina
l’alba della verità!
Gonfia il vento le vele
del prezioso battello,
non sia da meno il vostro remo!
Nasce sotto fulgida stella
chi scorge quell’alba e vedrà!
Ma chi aduso a mentire,
campasse pur cent’anni,
edotto di sé mai sarà.
Chiudete l’astioso libro
delle doppie verità,
in voi stessi il vero affermate!
Custodi d’un raro gioiello,
sicuro sui volti il sorriso,
lì, nell’intimo mondo
destate l’antico rigoglio!
Ed è lo sboccio d’un fiore!
Alto riecheggia il canto,
viril canto non mente.
Gonfia il vento le vele,
non sia da meno il vostro remo!
* * *
Accorrete, o fanciulle,
fanciulle dell’alba accorrete!
Presto muta degli uomini il fato,
il vecchio mondo muore.
Accorrete, o fanciulle!
Al canto delle Camene
la luminosa alba s’avvera,
la lunga alba, l’alba primeva;
là rifulge ab initio il fiore,
il fior dalla tonda corolla!
Accorrete, o fanciulle,
nella sacra veste accorrete!

VERITÀ E MENZOGNA
chi è veritiero ha contro uomini perfidi
Eraclito
Il riconoscimento dell’errore non significa mutar d’opinione, essere versipelli, ma è superamento di uno stato d’ignoranza, di dubbio, cioè d’ogni doppiezza e ambiguità; una vittoria su se stessi, un passo ardito verso la verità.
Menzogna è ignoranza: incapacità di operare giusto e di ben impiegare il tempo dato all’uomo per accostarsi al permanente, al sovra temporale.
L’uomo di mente inattiva e sonnambula (l’uomo del pigro benessere) inclina a mentire con straordinaria facilità, vivendo nella menzogna e di menzogna. Raggiungere la verità è per lui un compito arduo, che esige grande sforzo: un risveglio! E oggi più che mai.
Sempiterna è la verità, alterazione non soffre nel tempo! Realizzandola in sé, l’uomo s’avvicina al permanente, al duraturo. Infatti, chi non diverge da essa ha cuore e mente saldi e tutto riduce all’unità; così, semplificando se stesso, vive raccolto nella sua interiorità. Le società di questo tempo ultimo, il mondo moderno, trafficano e si dissipano in mille inutili faccende spinte da indegne e nefaste tendenze: slealtà, ipocrisia, disonestà, frode. Una macroscopica menzogna tutto sconvolge e coinvolge, altera, corrompe. A tal punto, il genere umano, non seguendo i dettami della retta ragione, degenera e si perde nell’effimero, nell’illusorio.
La verità è il respiro dell’universo.
* * *
Verba ad veritatem reducere, dicevano i padri latini; ebbene, molte parole oggi vengono (ab)usate in modo mendace e travisate; per liberarle dalla corruzione dobbiamo ridurle al loro significato (valore) originario. Opera necessaria e urgente, per ritrovare l’armonia.
Simplex aqua chiamano i latini l’acqua pura; con l’espressione recta et simplicia distingueva Cicerone gli atti semplici e onesti. Per gli antichi simplicitas era, dunque, la sostanza semplice e, in senso figurato, con riferimento alla persona umana non volgare, simplicitas era dirittura, franchezza, lealtà, schiettezza, nobiltà; il contrario di calliditas, cioè di malizia. L’antico verbo simplo aveva il significato di ricondurre all’unità; con il sostantivo simplum si riferivano al semplice, all’unità appunto, in netta opposizione al duplum, a ciò ch’è doppio.
Il complicato, l’ingarbugliato, l’involuto veniva qualificato con gli aggettivi contortus, perplexus e ancora, il che è significante, con multiplex. Quando ci si allontana dal simplum, dall’unità, moltiplicando aumentando accrescendo, ci s’invischia nella complicazione (oggidì farragine legislativa, burocratica etc.). Multiplex implicava anche variabilità, mutevolezza, instabilità, ambiguità (oggidì labilità legislativa, confusione burocratica etc.). Il carattere doppio (falso finto infido) veniva bollato come ingenium multiplex.
Il simplum era quindi l’unito, cioè il saldo, l’indivisibile: ciò che non si può disunire, disgregare, frammentare. In questo “essere unità” venivano riconosciuti i caratteri affermativi della franchezza, della lealtà. Nel tumulto della multiplicatio (regno della quantità), s’intoppa invece nella complicanza, nel contrasto e, alla fine, incombe lo spettro della domus multiplex: il cupo labirinto, il luogo dove ci si perde, ci si smarrisce.
Non è un caso che l’uomo moderno, perso nella molteplicità, si esponga a malanni come la dissociazione mentale o quella della personalità a tendenza schizoide, ai tumori maligni caratterizzati da una rapida, selvaggia proliferazione delle cellule neoplastiche che, invadendo i tessuti circostanti, si diffondono in tutto l’organismo. Non è un caso neppure il proliferare dell’inversione sessuale, con il fenomeno sempre più diffuso del transessuale.
Abbiamo accennato al labirinto, ebbene, si rifletta sull’espansione informe e abnorme (tipica dei sintomi tumorali) delle megalopoli moderne, ma che guasta persino le piccole e un tempo graziose cittadine.
Disunione, disgregazione: una mortis cupido pervade l’animo delle masse. Mors, la dea, era figlia di Erebus, il dio dell’oscurità, e di Nox, la notte, quella tenebrosa, illune e senza chiarore di stelle. Sintomatico è che l’uomo dei tempi ultimi sprechi tutte le sue energie in un diem consumare, nello sciupare il giorno. Bramoso di vita notturna, irresponsabilmente tende, senza avvedersene, alla dissolutio naturae, così di tutte le leggi, di ogni regola e norma. Gli sarà difficile, perciò, eludere la domus multiplex e trovare una via d’uscita dall’infernale labirinto.
Risucchiato dall’oscurità, precipita nell’Erebo, come gli antichi chiamavano l’Averno, la regione dei morti, rappresentata dal luogo sinistro delle ombre innumerabili, la folla tumultuante, la moltitudine impossibile da numerare e quindi da governare; luogo dal quale non c’è ritorno.
Per concludere, torniamo al nostro argomento. Simplicitas: dirittura lealtà franchezza schiettezza; la sostanza semplice: simplex aqua.
Non si può mettere in dubbio, quindi, che la sede della verità è nella semplicità. Il simplum, l’unità appunto, l’opposto del duplum, della doppiezza. Universale è ciò che si rende semplice e dirige all’Uno. Il vero rimedio è un semplice. Nel complicato, nel macchinoso, nell’astruso, detto in una parola nell’involuto, nel multiplex, alligna insidiosa la menzogna ed ogni sorta di magagna.
Delle sue magagne, della cupa menzogna, l’uomo moderno non vuol fare ammenda, ecco perché somiglia sempre di meno ad una figura umana e sempre di più a un’ anonima, grottesca calca tumultuante.
Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Queste parole scritte al sommo della porta del loco dannato negano salvezza a “le genti dolorose / c’hanno perduto il ben dell’intelletto”. Il Poeta, attraversato il loco maledetto, ne esce con la guida sapiente di Virgilio.
Dante è l’Uomo che tende alle stelle, alla luce.
La folla degli involuti mai potrà evitare la domus multiplex, gl’inferni senza ritorno, perché essa è la moltitudine di coloro che rinunciarono alla guida del Veltro, l’INTEGRO, la sola guida in grado di ricondurli al SIMPLUM, ove la VERITÀ ha la sua sede.


PER UN RISORGIMENTO: RICUPERARE IL PERDUTO
Proponiamo qui uno scritto del Leopardi che conferma la nostra opinione sugli antichi e sulla modernità. Acuto pensatore, il Leopardi prediligeva il mondo antico in confronto ai moderni, i quali ultimi fanno ogni cosa per il momento mentre i primi ogni cosa facevano “sempre mirando alla prosperità ed alla eternità, e cercando in ogni loro opera la perpetuità, e procurando sempre l’immortalità loro e delle opere loro”. Basta dare intorno uno sguardo disinvolto e ci s’accorgerà subito che Leopardi aveva ragione a disprezzare questa modernità. Tutto in essa è precario, effimero, se non addirittura insignificante, futile, vuoto.
Sotto l’imperante consumismo il futile celebra persino i suoi fasti; ma enormi sono i disastri che s’addensano all’orizzonte.
E quel che più inquieta non sono tanto le preoccupanti armi nucleari, o le devastazioni dello spazio vitale ma l’intolleranza al dolore, la ricerca continua di stimoli nuovi, peraltro sollecitata, la mancanza “dell’ostacolo naturale superando il quale l’uomo si tempra” (Lorenz), il rammollimento generale, l’estinguersi dei sentimenti, il ciclo vizioso della competizione economica, il diffuso infantilismo e la scomparsa del senso di responsabilità e dei valori; in breve, il deterioramento del patrimonio genetico denunciato dal Lorenz: “non vi è dubbio che il decadimento del comportamento sociale di origine genetica faccia incombere su di noi un’apocalisse particolarmente atroce”.
E’ venuta meno la “trasmissione delle qualità acquisite” e un baratro divide i giovani dagli anziani. Il Lorenz ha propriamente parlato di tradizione demolita. Alla ricerca continua di stimoli nuovi, le generazioni presenti non hanno occhio che per il modernismo, per il futuribile. Ma giustamente ancora il Leopardi: “il vero progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto”. E quel ricuperare va bene inteso come un riconquistare. Dobbiamo riconquistare la nostra autentica e salutare immaginazione; incontaminata, l’antica genialità.
*
GLI ANTICHI E I MODERNI
“Considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell’antichità. Cominciando dagli uomini di Omero, e dalle piramidi d’Egitto, discendete alle imprese nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità delle loro costruzioni fatte per l’eternità, alla profondissima impronta delle monete, all’eroismo e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i romani. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come l’uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finché giunge a questo ultimo grado di piccolezza generale e individuale e d’impotenza, in cui lo vediamo oggidì. In maniera che l’eterna fonte del grande, come del bello, sono gli scrittori, le opere d’ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de’ nostri tempi. Che segno è questo? La ragione ingrandisce o impiccolisce? La natura era grande o piccola?
… … …
“La forza creatrice dell’animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi.
… … …
“L’immaginazione e le grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l’amor della gloria che in loro bolliva, li facea sempre mirare alla posterità ed all’eternità, e cercare in ogni loro opera la perpetuità, e procurar sempre l’immortalità loro e delle opere loro. Volendo onorare un defunto innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d’anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell’esequie si disfa, e non ne resta vestigio.
… … ….
“Fu proprio carattere delle antiche opere manuali la durevolezza e la solidità, delle moderne la caducità e brevità. Ed è ben naturale in un’età egoista. Ell’è egoista perché disingannata. Ora il disinganno, come fa che l’uomo non pensi se non a sé, così fa che non pensi se non quasi al presente; di quello poi che sarà dopo di lui, non si curi punto né poco. Oltre che l’egoista è vile, sì per l’egoismo, sì per altre parti e cagioni. E l’età moderna ch’è quella del despotismo tranquillo, incruento e perfezionato, come può non essere abbiettissima? Ora un animo basso non si sa levar alto, né proporsi de’ fini nobili, né cape l’idea dell’eternità in menti così anguste, né l’uomo abbietto può riporre la sua felicità nel conseguimento d’obbietti sublimi.
GIACOMO LEOPARDI
*
LA TRADIZIONE DEMOLITA
Konrad Lorenz esamina nel suo libro, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), “otto processi distinti, tra loro collegati da un rapporto di causa-effetto, i quali minacciano di annientare, non soltanto la nostra attuale civiltà, ma addirittura l’umanità in quanto specie.
1. La sovrappopolazione della Terra che costringe ciascuno di noi a proteggersi in maniera ‘disumana’ dall’eccesso di contatto col prossimo, e che inoltre, a causa dell’ammucchiarsi di molti individui in poco spazio, favorisce direttamente l’aggressività.
2. La devastazione dello spazio vitale naturale, che distrugge non soltanto l’ambiente esterno nel quale viviamo ma anche, nell’intimo dell’uomo, ogni rispetto per la bellezza e per la grandezza della creazione che lo sovrasta.
3. La competizione tra gli uomini, che promuove, a nostra rovina, un sempre più rapido sviluppo della tecnologia, rende l’uomo cieco di fronte a tutti i valori reali e lo priva del tempo necessario per darsi a quella attività veramente umana che è la riflessione.
4. La scomparsa di ogni sentimento ed emozione forti, a causa di un generale rammollimento. Il progresso tecnologico e farmacologico favorisce una crescente intolleranza verso tutto ciò che provoca dolore. Scompare così nell’uomo la capacità di procurarsi quel tipo di gioia che si ottiene soltanto superando ostacoli a prezzo di dure fatiche. L’alternarsi deciso di gioia e dolore, voluto dalla natura, si riduce a oscillazioni appena percettibili che sono fonte di una noia senza fine.
5. Il deterioramento del patrimonio genetico. Nella civiltà moderna, se escludiamo il ‘senso naturale della giustizia’ e quel che resta del diritto tradizionale, non esiste alcun fattore che agisca in modo selettivo sull’evoluzione e la conservazione delle norme del comportamento sociale; e ciò sebbene se ne senta sempre di più il bisogno a causa del continuo ampliamento della società. Non è da escludere che molti infantilismi, che fanno di buona parte dell’attuale gioventù contestatrice dei parassiti sociali, siano di origine genetica.
6. La tradizione demolita. Questo fenomeno è dovuto al fatto che si è giunti a un punto critico in cui la generazione dei giovani non riesce più a intendersi culturalmente con quella dei più anziani, né tanto meno a identificarsi con essa. I giovani trattano quindi i più anziani come un gruppo etnico estraneo verso il quale manifestano un odio di tipo nazionalistico. I motivi di questa mancata identificazione sono da ricercarsi soprattutto nella scarsità di contatti tra genitori e figli, che produce conseguenze patologiche fin dalla prima infanzia.
7. La maggior disponibilità degli uomini all’indottrinamento. L’aumento del numero di individui uniti in un unico gruppo culturale, insieme col perfezionamento dei mezzi tecnici di persuasione dell’opinione pubblica, provoca una uniformità di idee quale non si era mai vista in nessun’ altra epoca della storia. Inoltre, la capacità di suggestione esercitata da una dottrina ritenuta assolutamente vera cresce col numero dei suoi seguaci, forse addirittura in proporzione geometrica. Già oggi un individuo che si sottrare deliberatamente all’azione dei mass-media, per esempio della televisione, è considerato in molti luoghi un caso patologico. Tutti quelli che vogliono manipolare le grandi masse vedono di buon occhio questi effetti riduttivi della personalità. I sondaggi di opinione, la tecnica pubblicitaria e la moda abilmente orientata servono ai grandi industriali del mondo globalizzato per conquistare lo stesso tipo di potere sulle masse.
8. Il riarmo atomico comporta per l’umanità dei pericoli che sono più facilmente evitabili di quelli rappresentati dai sette minacciosi processi sopra elencati. La progressiva ‘disumanizzazione’ legata ai fenomeni suddetti, è favorita dalla dottrina pseudo-democratica, la quale afferma che il comportamento sociale e morale dell’uomo è determinato dal ‘condizionamento’ cui l’uomo viene sottoposto dal proprio ambiente culturale nel corso delle generazioni.”
KONRAD LORENZ
*
AD FRUGEM SE RECIPERE
Il pensatore di Recanati e l’etologo viennese al termine delle loro riflessioni giungono alla stessa conclusione: occorre “recuperare il passato”. Il poeta del secolo XIX e lo scienziato del Novecento concordano.
Tocca ora al lettore non radicato nella superstizione progressista, in grado di reagire alla propaganda dei disparati megafoni, che tendenzialmente convergono, riflettere e approfondire l’avvincente argomento con opportune letture.
Non siamo, noi, laudatores temporis acti, reputiamo anzi un morbo devastante la nostalgia; verifichiamo il presente, gli eventi siccome si manifestano, e se sconcia reputiamo la società odierna e per nulla salutare la contemporaneità, bene, questo sia il nostro campo di battaglia! Ci si misuri, qui e ora, senza risparmio alcuno!
Conseguentemente non ci si prefiguri meta alcuna, né scopo, se non di raddrizzare il nostro presente. A dirla con l’Alighieri: operando sulla diritta via. Per tal ragione non ci prodighiamo in smanie progressiste, e avvedutamente, perché non cerchiamo scuse e pretesti e perché passatisti non siamo.
Riteniamo dunque, e fermamente, di non dover smarrire il passato avito (anche quello più remoto), giacché in esso si cela la nostra origine, da esso scaturisce il nostro esserci, e quindi il fondamento del presente. Dobbiamo trarre profitto dal tempo che ci è dato per emendare noi stessi, al fin di condurre una vita virtuosa. Ad bonam frugem se recipere!
Solo questa la via! Si ritorni con volontà e coraggio all’antica saggezza e genialità italica. Operiamo affinché non si dica di noi un giorno: l’uomo di quel secolo visse meschinamente per sé stesso e per il proprio utile; si dica, invece, si adoprò per un bene che tuttora prospera oltre i confini della sua vita e i limiti del suo breve tempo. SERIT ARBORES, QUAE ALTERI SAECULO PROSIENT. Piantò un albero che visse anche dopo di lui.

Al momento di toccare il suolo
l’ Antenato era dunque pronto per la sua opera civilizzatrice.
Ogotemmeli (cacciatore e sapiente Dogon)
Se sorgesse in noi l’intenzione, o nascesse l’ambizione, di divulgare uno slogan, un messaggio propagandistico, eviteremmo soprattutto quelli di carattere politico e commerciale-finanziario (oggi tra l’altro assimilabili). Un solo slogan vorremmo lanciare, auspicandogli ampia risonanza:
SIGNORI E SIGNORE, SENIORES E JUNIORES, RECUPERATE IL VOSTRO PASSATO!
E con ciò intendendo tutto il patrimonio avito (l’ancestrale cultura), così quello patrio, così quello familiare. E se, in quel passato, doveste trovar tracce malefiche, nocive, funeste, sgradite, o anche ingiustizie, ignavie, soprusi, per questo non rifiutatelo; ad esso siete congiunti dall’ereditarietà (non limitatamente biologica), dal vostro animismo, dallo spirito della vostra civiltà. Con diligenza rettificate in voi, e oggi, quelle tracce. Sono tracce della vostra storia, se lo volete, da poter rimettere nel giusto, persino delebili; tutto si può risanare! Ma indelebile è il fondamento, l’essenza dell’iniziale opera civilizzatrice, ed è affidato all’operosità dell’UOMO e alla sua opportuna sapienza rigenerare.
Rendetevi puri, e fieri del vostro passato, non inteso solo quale storicità, procedete sicuri!
Ricuperata l'opera ancestrale, dedicatevi all'opera germinale dell'oggi.
Bronzetto di Ercole. Databile fra la fine del V e la prima metà del IV sec. a.c.
Museo Civico Archeologico di Bologna
L’ERCOLE DI VULCA
L’origine ama nascondersi
(Eraclito, fr.)
Vulca, non appena scolpisti
la statua di Ercole,
che tanto fu onorata in Roma,
certo a te familiare balzò
agli occhi la figura dell’Eroe,
già antico! Nelle membra operose,
nel nobile volto vedevi
rigenerarsi un dio,
mentre con l’arte e gli smalti d’Etruria
fregiavi di olimpica aura
il figlio di Giove e di Alcmena.
Mai tu, Vulca, avresti pensato
che dal ceppo dei bruti
derivasse le membra
l’indomito Eroe; mai
di trovar tra i quadrumani
il modello che, avvincendo l’estro,
ti mostrasse la fonte
dell’umana ventura.
E così, Vulca, l’uomo
simile a un dio scolpisti,
dacché l’aurea virtù
dagli eccelsi discende.
E l’Urbe accolse quell’effigie
dedicandole un’ara.
Di tanti artefici etruschi
solo il tuo nome resta,
Vulca, né altro di te sappiamo.
Della fama di Darwin
e della sua scimmia disputa
la scienza di questa età,
che all’umana ascendenza vanta
ignobili fossili emersi
da non umani avelli.
È trascurabil caso
se, al culto ancestrale
dei lari e dei penati,
un mondo involgarito
disumani avi preferì?
L’origine ama nascondersi,
s’apprende dal savio di Efeso.
Questa, sì, un’audace sfida!
Elevarsi al divino
meta è d’incorrotto volere;
ma, se ai bruti incline,
la recondita fonte
mai l’uomo rinverrà.
Così la favolosa effigie
tra i lontani astri si cela.
Ben odo, artefice, espandersi
nel villaggio antico
un rigoroso accordo
d’arcane cadenze.
Il monito del tuo scalpello
io non trascuro.

Nam maximus ultor
Alcides aderat . . .
Hanc aram luco statuit, quae maxuma semper
Dicetur nobis et erit quae maxuma semper.
Quare agite, o iuvenes, tantarum in munere laudum
Cingite fronde comas et pocula porgite dextris,
Communemque vocate deum et date vina volentes.
Virgilio, Eneide, VIII

CLAVA - CLAVIS
Imperiture vestigia,
non ruderi, non
di sasso infranti idoli,
ma segni certi, viventi
han sede nella mente,
nell’ancestrale memoria
degli uomini e delle stirpi.
Inaccessa miniera
in sé serra e asconde
Quel che si mostra e appare
solo come corporea misura?
Volendo gli antichi saggi tornare
all’originaria Immagine
disotterrarono la Clava,
l’arma del più antico degli Eroi
e non del troglodita il rozzo bronco,
per avviarsi all’impresa,
osar le leggendarie fatiche.
O duratura, ermetica orma!
* * *
Una dubbiosa, irresoluta mano
bussa al palazzo del Ricordo,
ma il massiccio portone
non disserra i battenti.
L’austera possente voce del tuono
bussa a sua volta,
e il severo palazzo
nel nudo fulgor del fulmine
mostra il fasto dell’erta scala.
La misteriosa voce
è il monito
dell’Inesprimibile.
Solo il cuore impavido ricorda.

!

CONSIGLI A CIRNO
Orsù, beviamo questo vino!
Viene dai grati vitigni
che s’espandono prosperando
sotto le cime del Taigeto.
Il nostro Teotimo,
agli dei carissimo veglio,
irriga le viti con l’onda
del garrulo rivo che scorre
laggiù, tra i vasti platani.
Su, bevine! Allontanerà
crucci ed affanni,
un bere sobrio non fa male.
Ebbro, ti sentirai leggero…
E io ti darò consigli, o Cirno,
ch'ancor fanciullo appresi dagli onesti.
Buoni consigli io do agli amici.
Non inseguire gradi,
lucro o successi
con vergognose trame.
Non bazzicare con i vili,
accompagnati ai virtuosi,
con loro siedi degno a mensa.
Da chi è dabbene il bene imparerai,
ma mescolato ai vili
rettitudine e senno smarrirai.
Sii saggio, frequenta i buoni!
Apollo, mai io mi scordo del dio,
indirizza tu il nostro dire,
inclina le nostre menti
ad armoniosa intesa!
Intorno a noi risuoni
della cetra la sacra melodia
e dell’aulos il querulo suono.
Al dio libiamo sinceri!
Tra lieti conversari
quest’oggi sediamo a convito
senza temer la guerra dei Medi.
Fatti vicino, auleta!
Noi beviamo accanto a te che piangi;
ridiamo pur delle lacrime
e godiamo del tuo dolore uniti,
onde arricchisca d’esultanza i cuori.
E al mio cuor, poi dico, godi!
Presto altri prenderanno il nostro posto.
Morto sarò nera terra.
da Teognide di Megara
Questa libera traduzione, nonché adattamento al modo dei cucitori di canto, di una scelta di distici elegiaci del poeta greco Teognide di Megara, un probo e virtuoso áristos, avversario del governo democratico, la dedichiamo a tutti quei moderni soloni (d'ambo i sessi) che pur provetti nei loro uffici e professioni ed esperti nell’esercizio delle loro attività di docenti, precettori, sociologi, pedagoghi, scienziati, etc., deferenti ristanno nel gran fragore della scampanata infinita del parolone sagrado: DEMOCRAZIA. Mai, come in questo periodo storico se n’è fatto e se ne fa un uso così torrenziale, a diluvio; risuona nei telegiornali, nei talk-show, nelle interviste, sulle labbra dei politici, del journalist, a ogni ora del giorno!
Democrazia come traguardo ultimo, coronamento, dell’animale “politico” al culmine del suo processo evolutivo e del progresso sociale e tecnologico! Eppure, anche il liberalissimo filosofo Karl Popper avvertiva che “La democrazia non è il toccasana”. Invece, per i grilli parlanti del mondo, sì! Gatto ci cova? Purtroppo, noi rileviamo che in tutti i tempi e dovunque nelle democrazie (come anche nelle tirannidi, dittature, oligocrazie finanziarie e simili cose, anch’esse generate dall’ideologia democratica) allignano e dilagano inarrestabili la corruzione, le ingiustizie oltre ad ogni sorta di cattivo esempio e genere di arrovesciamento; mentre panzane, castelli in aria, miraggi, menzogne, sconfinate balle e scempiaggini vengono spacciati con una retorica continua, sempre maliziosamente impastata di umanitarismo e filantropia, e sempre più ipocrita, settaria e aggressiva (dittatura delle retoriche massmediali). Ma è davvero la democrazia il traguardo? Oppure si è già tragicamente consumata?
E’ davvero impossibile rifarsi a modelli superiori? Andare oltre? Come mai l’Uomo è finito in questa trappola? Non ha l’Uomo traguardi più alti da raggiungere? Si è davvero esaurita l’ingegnosità umana? Se così fosse, una bestialità totalitaria potrebbe invadere il pianeta Terra. Eppure, per scongiurarlo, basterebbe guardare al pensiero e all’azione di quegli uomini che hanno operato affinché civiltà luminose e giuste si affermassero; o, ancor più semplicemente, raccomandarsi al BUON CONSIGLIO.
Agli ambigui, saccenti soloni oggi dilaganti vogliamo perciò proporre gli opportuni, salutari consigli che l’aristocratico poeta megarese suggeriva al beneamato amico Cirno. Ma saranno in grado di andare oltre la lettera? O penseranno trattarsi, nella loro presunzione, di discorso troppo modesto e di paroline ormai vecchie e fuori moda? Abbiamo proposto i saggi consigli del poeta, ma a ragione non ci aspettiamo che vengano letti dai suddetti. Difatti, a noi pare che costoro si distinguano particolarmente per millanteria e boria.

CONCENTO D’AMICIZIA
E DI PAROLA E CANTO
L’alta potenza dell’Olimpo
incenerisca chissisia
con perfida lingua
raggiri l’amico leale.
Si copra d’onta chi,
spinto dall’invida calunnia,
rompe d’amicizia vincoli
fidi e sicuri.
Io mai ho tradito l’amico
né i sodalizi fidati,
non ho animo gretto.
Così il mio cuore s’allegra
ascoltando il suono puro dell’aulos;
bevo una tazza di buon vino
e con la guida dell’auleta canto,
oppur m’accosto alla soave
melodia della cetra
che accordo con abili dita.
Parimenti mi rapisce la voce
dell’uomo valente, cauto nell’arte
degli armoniosi conversari.
Solo dalla parola accorta,
dalla frase sapiente,
spiegante l’ampia vela all’aure
sane e caste della divina Igea,
mi lascio ammaestrare,
vigile l’orecchio in ascolto.
Possa, o dei, ogni volta tornarmene
dal simposio all’impeccabil dimora
colmo il cuor d’armonia.
Io curo il favore degl’Immortali,
o Cirno; altro non bramo.

Ancora un lavoro d’ago…Un cucito di distici elegiaci teognidei che ci siam premurati di disporre in un insieme per quanto possibile autentico e rispettoso dell’estro e del carattere del poeta, pur se tradotti liberamente per avvicinarli all’orecchio dell’oggi. Speriamo che il concorde lettore possa giovarsi della composta ᾀριστεία che il poeta con l’antico pàthos ancora ci trasmette, nonostante i trascorsi millenni. Emergeranno così, per realizzarsi dentro, momenti di distanza dalla demonìa collettiva, ingigantita dalla odierna babele globale, a giovamento della mente e dell’anima. Occorre infatti favorire una introiezione, cioè un far proprio il BUON CONSIGLIO, per l’innalzamento, nel personale sentire, della σωφροσύνη, bella parola dell’antica Grecia comprensiva delle voci: senno, prudenza, temperanza, costumatezza, tutte doti di una mente sana e pura.
La romana Virtus.

SOLARE VIRTU’
Presunzione-avidità-boria,
per i mortali sciagura;
non c’è di peggio, o Cirno!
Da esse ogni viltà, ogni abiezione.
Ma un pregio supremo gli dei
concessero ai mortali, l’intelletto.
E’ l’intelligenza che afferma
la sostanza delle cose
e sa ove disporre i limiti.
Con il senno devi misurarti,
o Cirno, e sempre a bada
tenere il vizio funesto.
Felice chi nel cuore
possiede l’intelletto,
perché ivi sta
il centro della comprensione.
* * *
Lavami! Lavami pure!
Vedrai cristallina scorrere l’acqua
dal mio capo e sempre il mio agire
potrai paragonare
all’oro puro che non teme
il duro saggio della pietra.
Non contamina la mia pelle
il verderame
né ruggine corrompe,
nel pregio pari al fiore.
Non c’è per l’uomo
bene alto più della ragione
e, o Cirno, peggior male
della dissennatezza.
da Teognide di Megara

A chi deride il gusto arcaico (arbitrariamente attribuitoci) e biasima la nostra “infatuazione” per Teognide, poeta a suo dire “già a quei tempi remoti superato nelle idee” ed estraneo “ad ogni evoluto moto di pensiero”, rispondiamo che da parte nostra non si nutrono passioni d’alcun genere, e meno che mai slanci estetizzanti; siamo imparziali e rivendichiamo, senza enfasi, il nostro equilibrio. Cerchiamo di preservarci dalla faziosità e dalla partigianeria e quindi dalle fascinazioni e dagli odi. E purtroppo questi nostri tempi sono saturi di rancore, di fascinazioni turpi, di falsa amicizia e di cupo nostalgismo partigiano. Non vi si riscontra il tanto vantato “alto, evoluto moto di pensiero”.
Ai tempi in cui visse Teognide il contesto sociale non era diverso (eccettuato il fanatismo tecnologico, la sacralizzazione della scienza, lo scatenato consumismo, i vari ecumenismi e la globalizzazione demo-finanziaria). E’ sufficiente leggere le sue elegie per appurarlo. Oggi si soffre degli stessi mali che denunciava Teognide. E come lui ne soffrì, noi ne soffriamo. Noi, suoi estimatori e celebratori della virtus che egli instancabilmente indicava al giovane amico Cirno. Ma soprattutto siamo suoi amici, sinceri e leali. Si! Un amico di oltre duemilacinquecento anni fa; e, infatti, anche noi non lasciamo mai, come lui soleva, l’amico vero per cercare altra compagnia, adescati dalle parole accattivanti di chissisia. Con Teognide, disdegniamo la meschinità.

IL SEME
Assorto in te, raccogli
il fervido pensiero,
mettilo in serbo,
ché trascorso l’autunno
sopravverrà l’algore!
Or anche il noce,
maturato il frutto,
ripose i teneri gherigli
in un solido guscio;
così terrà testa all’inverno.
Nel tegumento dal gelo
il seme si protegge;
in tal modo mantiene
saldo il vigore,
integro dura
e alla stagione sua
compare il frutto.
Con il rigore saggerai
se la custodia è
di buona tempra,
perché il senno avveduto,
se custodito bene,
è quel seme fecondo
che rigermoglia
al tocco del novello sole.

COME IL FIORE
E alla fine scontento
del secolo, appresi dai fiori,
diligente scolaro,
di là d’ogni frale memoria
al profumo attingendo dei calici,
l’oblioso ma fecondo
pulsare del ricordo…
E’ del fior nella essenza
una virtù costante:
mai discordar dalla natia fragranza.
Così, la rosa
sarà sempre la rosa.
Dalla giunchiglia
fiorirà la giunchiglia.



I L T E M P I O
Dedicata ai buontemponi
che si crogiolano
al Sol dell’Avvenire.
Del respiro eterno
l’istante è misura.
Vano il rimpianto.
Non vagheggiare, nostalgia,
il ritorno di ciò ch’è stato;
la rinuncia s’annida
nelle torpide pieghe
della tua veste notturna.
Dì, cosa tu ora cerchi
nel fossile? La traccia
delle svanite età?
Ecco a te detriti, ceneri!
In te, cuore, l’essenza
del passato, qui e ora,
ove tutto torna a fiorire.
In te è la virtù, il seme.
Germogli, soli, stelle
sfavillano: tu, cuore,
in un baleno l’evo
riduci al fulgido istante.
Del respiro eterno
è misura il baleno.
Invano si trastulla
con fallaci mire il cerebro!
Il futuro - sogna - gonfia le vele,
gagliardo è quel vento!
Utopia, estroso raggiro,
dove poggerà il tuo passo?
Sulle mobili arene
di qual deluse brame
o negate venture?
In te, cuore, l’inizio!
Precorri fatali esultanze,
non indugiar, divina!
Tu, di solar tripudio
presago, saggio d’eterno
in seno all’incipiente aurora!
A te questo presente,
vieni, Edificatore!
Squadra, livello e seste,
pianta oggi il palo,
solide le fondamenta!
Ed ecco il Tempio
risplende nel sole.
Pulsa, o cuore, misura
d’eterno respiro!
Ascolta! Ascoltati
nel ritmato battito
dell’istante luminoso!
