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NATALE DI ROMA

 

 

 

N A T A L E  D I  R O M A

 

 

21 APRILE – PARILIA  La festa delle nascite

 

 

 

     Per ricordare il Natale di Roma, MMDCCLXXIII a. U. c., abbiamo scelto il racconto della fondazione riportato da Ovidio alla fine del IV libro dei FASTI, precisamente i versi da 827 a 858. Scelta che ci evita di andar giù nel biblicismo e d’imbatterci nel famigerato episodio del fratricidio con il lungo strascico dei pettegolezzi mai sopiti sul cainismo e l’abelismo dai tempi indeterminabili e sciagurati del loro padre Adamo, sposo infelicitato da una matta sposa, Eva la sua costola, che, tra l’altro, s’era lasciata sedurre dal serpente sotto l’albero del bene e del male. L’albero del bene e del male? Sì, sì! Proprio lì sotto iniziò un putiferio che d’allora non è mai cessato, e, inoltre, lo scatenamento di pandemoni a non finire con tutti a prender sul serio queste demenziali dispute, questi assordanti latrati, per franare alla fine e dissolversi nelle allucinazioni pandemiche di questi ultimi giorni. Lasciamoli lì, sotto quell’albero, che continuino le loro dispute, che continuino a sputar profezie, da abacuc a marx e il tumultuoso stuolo dei loro discepoli; sono sfiniti ormai, disfatti, discutono a vanvera, hanno falcidiato i loro cervelli, per sostituirli ricorreranno alla cibernetica, ai loro beneamati robot. Penseranno di sfruttare i servomeccanismi e questi diventeranno i loro veri padroni. Lasciamoli sotto quell’albero avvelenato, rinsecchito, lasciamoli alla loro mentecattaggine . . . allontaniamoci da queste menzogne putrefatte!

   Una rancida, logora falsità, una fake news dell’epoca, fu indubbiamente introdotta dagli aruspici nel racconto (storico? mitico?) romuleo in quella terra di Tuscia e diffusa dai cantastorie di quel popolo che fu tenacemente ostile a Roma. L’Etruria, la nazione fatidica, inquieta, costretta dalla “necessità” (l’ineluttabile, ciò che non cessa) a subire il succedersi degli eventi, a muoversi solo sul decretato dal fato, sui responsi aruspicini; un popolo quindi in balia del fato, cui sottostava persino Tinia, la somma loro divinità; questa nazione fatidica covò subito, e poi per secoli, un odio feroce contro Roma, contro la volitiva, risoluta, combattiva romanità, contro l’olimpicità capitolina. Provenivano dal medio oriente e avevano continuato nei loro rapporti con quei luoghi e le genti semite, essendo essi esperti navigatori e astuti mercanti dediti al lusso. Dovevano aver assimilato molto della cultura di quelle genti e anche possederla nel loro patrimonio culturale e genetico, è lì che attinsero per insinuare il falso racconto del fratricidio, combinandolo biblicamente a modo loro.

    Intendiamo qui, oggi, dare spazio alla fioritura d’aprile, alla festa delle nascite, al nostro Natale di Roma; prepareremo focacce di farina di miglio e latte, addolcite col miele, mangeremo uova d’oca; oggi festeggeremo, perciò dell’argomento etrusco tratteremo in altro scritto. Ci preme però avvertire i nostri lettori di non lasciarsi suggestionare da idee false e bugiarde che trasmettono la confusa convinzione de “gli Etruschi e Roma come sintesi, ripresa e slancio, benedetta da Giano padre che a Roma consegnò il passato splendore ecc.”, come leggiamo in un opuscoletto ove Giano viene scambiato per un parroco di campagna. Sufficiente riflettere che, anche prima di Roma, gli etruschi militarizzati avevano spadroneggiato tra le genti italiche diffondendo il loro fatalismo orientaleggiante e un duro, cupo particolarismo, che purtroppo andò poi a scontrarsi ottusamente con le legioni di Roma.

   Torniamo al racconto della fondazione nella visione di Ovidio. Pressappoco la si ritrova anche nel “ROMOLO” di Plutarco, pur se dubitante: “alcuni dicono lo stesso Romolo, altri Celere, uno dei suoi compagni, lo colpì mentre scavalcava il fossato e dicono che egli cadesse morto lì.” Floro nella sua “EPITOME”, invece, racconta che Remo “venne ucciso, non si sa se per ordine del fratello; sicuramente fu la prima vittima, e consacrò con il suo sangue la fortificazione della nuova città.” Livio, lo storicissimo, ci lascia due versioni; nella prima, poiché entrambi i fratelli erano stati proclamati re, ci fu una mischia nella quale Remo cadde morto; l’altra è quella del fratricidio, la disobbedienza di Remo e la furia del re, suo fratello. La storia! e gli storici! Chi si fida? Meglio addentrarsi nel mito. Il mito è super-storia, quindi contiene storia veritiera; la storia, quella scritta dagli uomini (vanità, odi, sopraffazione, invidie, meschinità, dicerie, calunnie e via dicendo), è spesso ripetutamente menzognera.

   Torniamo quindi al nostro racconto mitico nei versi di Ovidio. Mettiamo a frutto la nostra sete di verità e facciamolo con oculatezza e misura.

   Il re, Romolo, formula e pronuncia un’altissima, vibrante e pia preghiera alle somme divinità, Iuppiter Mavors Vesta, e le invita a presenziare alla fondazione dell’urbe, invoca la protezione divina su di sé e sull’opera che va compiendo. Chiede che si rendano manifesti e chiari auspici: l’augurio divino sul Magnum Opus che si compie in quel giorno sull’alma solare terra del Lazio e sotto lo sguardo attento del cielo. Giungono e confermati gli auspici, allietano il popolo e l’opera ferve. Il re dà ordini perentori: Celere si prenda cura dell’opera e innanzitutto che nessuno osi valicare il limen, la fossa scavata dal vomere, pena la morte. Quest’ordine non può essere trasgredito, garantirà l’inespugnabilità del limen romano nei secoli avvenire. Nemmeno Annibale, il più ostinato nemico di Roma, molti secoli dopo oserà tentare. Come si può immaginare che Romolo, il re, dopo aver operato tanta sacralità, e con pia religiosità, poi con un gesto sventato agisse contro la propria sacertà e la sua virtù quirite di figlio di Marte e della dea Vesta, dea anche del domestico focolare, uccidendo nella furia il proprio fratello?

   Celere è ciò che si muove con solenne, cioè grave e sostenuta sveltezza e destrezza, celere e solenne è il corso dell’astro, il sole, che è la mente del mondo, il veloce intelletto. Plutarco annota: “Celere . . . da lui i Romani chiamarono ‘celeri’ quanti sono veloci e spediti.” Ecco la virtù di cui Romolo si fida e a cui s’affida, la saggia solerzia, la prontezza nel riconoscere l’egocentricità ostile, l’individualismo che vuole tutto per sé, l’ignoranza, l’insufficiente consapevolezza, la mancanza di nobiltà, la viltà . . . quel nemico esterno, che spesso è anche il nemico interno; e allora devi essere davvero severo e deciso a sopprimere quel tuo gemello e come Celere devi essere obbediente all’ordine dato, quell’ordine perentorio che, se non obbedito, ti trascina alla schiavitù, ti spinge alla rovina. Celere possiede il segreto affinché l’0pera sia bene adempiuta, l’edificazione salda, sicuro il limen, e la guerra vittoriosa. Tutto il resto è umano che venga compiuto sino all’ultimo ‘vale’, e secondo il costume e i cerimoniali traditi.

 

  Ci siamo accinti a una nostra traduzione dei versi di Ovidio; se la trovate modesta, sappiate però che li abbiamo tenuti indenni dal lavacro battesimale del clero intellettualistico tuttora vigente.

 

 

     IL RACCONTO DI OVIDIO

 

     vox fuit haec regis: “condenti, Iuppiter, urbem

et genitor Mavors Vestaque mater, ades;

quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti.

auspicibus vobis hoc mihi surgat opus.

longa sit huic aetas domitaeque potentia terrae,

sitque sub hac oriens occiduusque dies.”

Ille precabatur, tonitru dedit omina laevo

Iuppiter, et laevo fulmina missa polo.

augurio laeti iaciunt fundamina cives,

et novus exiquo tempore murus erat.

hoc Celer urget opus, quem Romulus ipse vocarat,

“sint,” que “Celer, curae” dixerat “ista tuae,

neve quis aut muros aut factam vomere fossam

transeat: audentem talia dede neci.”

 Remus ignorans humiles contemnere muros

coepit et “is populus” dicere “tutus erit?”

nec mora, transiluit. rutro Celer occupat ausum;

ille premit duram sanguinulentus humum.

haec ubi rex didicit, lacrimas introrsus obortas

devorat et clausum pectore volnus habet.

flere palam non volt exemplaque fortia servat,

“sic” que “meos muros transeat hostis” ait.

dat tamen exsequias nec iam suspendere fletum

sustinet, et pietas dissimulata patet;

osculaque applicuit posito suprema feretro

atque ait “invito frater adempte, vale!”

arsurosque artus unxit. fecere, quod ille,

Faustulus et maestas Acca soluta comas.

tum iuvenem nondum facti flevere Quirites;

ultima plorato subdita flamma rogo est.

urbs oritur (quis tunc hoc ulli credere posset?)

victorem terris impositura pedem.

 

    LA NOSTRA TRADUZIONE                           

 

   E il re parlò: “Presenzia, Iuppiter, la fondante

urbe, e tu Mavors padre e tu Vesta madre;

da che pio è convitar gli dei, date tutti ascolto.

S’erga innanzi a me l’opera con i vostri auspici.

Lunga la sua età e potestà sulla domita terra

e vi risieda la luce d’oriente e d’occidente”.

Chiedeva; e da sinistra Iuppiter diede con il tuono

l’augurio, e folgori vennero dalla sinistra del cielo.

Lieti del segno i cittadini gettan le fondamenta,

e in poco tempo c’era un muro nuovo.

Celere esortava all’opera, di far ciò Romolo

l’aveva incaricato: “Sia a tua cura!” gli disse

“Nessuno valichi il muro né il limite tracciato

dal vomere; dai la morte a chi tenta tal cosa.”

Ciò Remo ignorando e spregiando l’umili mura,

prese a dire: “Qual sicurtà mai offriremo al popolo?”

E immantinente le scavalcò. Con la marra Celere

abbatté tanto osare. Or nel sangue ei preme il duro suolo.

Giunto al re l’annuncio, contiene le lacrime

e nel petto la ferita, non vuol dar pubblico

sfogo al pianto sull’esempio dei forti; sostiene:

“Ugual sorte al nemico che osa violar le mie mura!”

Rende gli onori estremi, il pianto gli sgorga,

disvela così la taciuta pietas; sul feretro

imprime baci d’addio e dice: “Vale, o fratello,

inaspettatamente rapito!” E unse gli arti presti

a esser arsi, e Faustolo del pari ciò fece e Acca,

che sciolse mesta le chiome. Quel dì rimpiansero

il giovine quanti non erano ancor Quiriti

e arse il rogo che fu lungamente pianto.

L’urbe nacque (e sarebbe stato ciò mai creduto?)

ch’avrebbe sull’orbe posto vittorioso il piede.