SARDELLE

S A R D E L L E
i Molti non sono
(Zenone di Elea)
Oggi non troviamo più, noi scriventi queste righe, gusto alle fritture, preferiamo pietanze saporite sì, ma al naturale. D’altro canto, in tempi di teste d’uovo, tra un gran frittatone e una gran frittatona, ci conviene, segnatamente per scaramanzia, evitare ogni frittume. E tanto, per giocolare un po' con parolette allusive!
Quel cartoccio dal forte odore posato là, sul tavolo di marmo della cucina, con quel mucchietto di sardelle ammassate, non suggeriva nulla ai sensi e alla fantasia di quei vispi ragazzetti, ma aveva fino al parossismo stuzzicato le penetranti narici del gatto di casa che andava su e giù dal terrazzo alla cucina, miagolando prepotentemente; miau miao miao . . . voleva con quel incessante miagolo far capire alla padrona, una signora dal piglio deciso, ma con la quale lui aveva gran confidenza, che di quel pesce gli spettava una parte, che quelle sardelle, allo stato, crude e sanguinolenti, erano roba sua, erano il cibo adatto a saziare la sua fame felina, ché lui i topi non li mangiava ma il suo dovere lo faceva e infatti glieli lasciava strangolati sulla soglia della cucina; e la padrona, comprensiva, prendeva con prontezza due tre grosse manciate di quei pescetti e le mollava al gatto che ringraziava con enfatiche fusa e strusciandosi ai suoi piedi; poi, una volta sazio, se ne andava in un angoletto e iniziava una interminabile leccata di baffi.
Un tempo eravamo anche noi dei vispi ragazzetti in crescita e un po’ golosini, soprattutto della invidiabile e appetitosa friggitoria materna. Quella mattinata era ormai trascorsa e giunta l’ora del pranzo. La tipa dal piglio deciso e dai polsi svelti e spicciativi s’era data da fare su quel tavolo di marmo; e s’era poi sentito un lungo, denso friggio . . . quei pescetti erano finiti in padella!
Da tempo non gustiamo più le sardelle panate, indorate e fritte, oggi preferiamo mangiarle, sempre cotte e spinate, ma in bianco con una spruzzatina d’aceto. Il gatto, non più quello con il muso nero, caro alla signora dal piglio deciso, il gatto d’oggi che ha il muso bianco e roseo, il nostro gatto, non ha cambiato gusto e le preferisce sempre crude ed intere.
Il nome scientifico di questa specie di pesci dei mari temperati è la “sarda”, con un suo derivato più popolare la sardina, mentre sardella ne è il diminutivo. Trattasi di una specie gregaria che procede in nugoli densi, di giorno nelle acque profonde e di notte spostandosi in superficie. Tali ammassi composti di migliaia e migliaia di sardine si nutrono di plancton, un insieme di microrganismi acquatici che s’adunano a galla e vagabondano in balia delle sole correnti marine “non essendo dotati di nuoto attivo”; un cibo facile, scevro di rischi, alla portata delle loro boccatine, un pasto che non richiede alcuna abilità predatoria e neppure l’istinto predatorio.
Predatori voraci sono invece gli squali che possono divorarle in grandi quantità, come anche i delfini e le balenottere che ne consumano banchi interi. Le pescano pure i branchi d’otarie che le inghiottono all’istante e i pinguini con leste beccate. E soprattutto gli uomini con grosse reti, le cosiddette sardare. Le sardine, infatti, non sono un pesce da prendere all’amo, fatto per il diletto del pescatore solitario, anzi essa sovente fa da esca e per il pescatore esperto, tra le tante, è addirittura l’esca regina; trattasi d’un timido pesce che, per la sua minutezza, affronta il rischio muovendosi, ricordiamolo, in densi grossi nugoli; privo del tutto d’istinto predatorio si nutre esclusivamente, e sempre in branco, d’inerte plancton. Non per un intelligente istinto di sopravvivenza dunque la sardina è un pesce che non abbocca all’amo; né un intelligente istinto di sopravvivenza agisce e si mostra nei grossi banchi che invece finiscono puntualmente nelle reti allestite dai pescatori, non a caso denominate sardare, e a bella posta o sbadatamente (?) nelle fauci dei pescecani e via dicendo.
Queste nozioncelle le apprendemmo di poi sui banchi del liceo, giovanetti ormai, dall’insegnante di scienze naturali, molto erudito in ittiologia e appassionato di pesca, una persona già attempata, paterna e di modi schietti che s’intratteneva in lunghe dettagliate dissertazioni con il fine di stimolare l’interesse degli studenti e di affinarne nel contempo l’immaginativa.

Frattanto era mutato il repertorio gastronomico della solerte signora dallo sguardo asciutto e sbrigativo, le sardine e le alici venivano marinate e s’alternavano sulla mensa alle triglie in guazzetto, al baccalà in umido con patate, agli spiedini di seppie e gamberi alla griglia, ai tranci di salmone al forno. Sapori più forti per quei ragazzotti, avanzata ormai d’un passo l’età! Così aveva deciso l’animosa signora cigliata di bruno. Al gatto, invece, non mancava mai la sua porzione di sardine o alicette crude ed intere; a monsieur le chat piacevano tanto; oh, miau miau! quelle lunghe, lunghissime leccate di baffi!
Di quei tempi ancora emerge un ricordo. La buona signora era una provetta ricamatrice e suo marito un disegnatore bravo dal tratto spigliato, per cui a quel segno di matita netto e sicuro s’andava a sovrapporre, precisamente combaciando, il ricco punto decorativo espresso dall’abile mano muliebre. Il premuroso consorte con il lapis improvvisava sulla tela un disegno, schizzava una figura, delineava un immaginario quadretto e la signora vi eseguiva con gran cura una puntuale ricamatura. Quel giorno, al centro della tela spiccava un argenteo guizzante delfino nel cui grande occhio splendeva un’aurea pupilla, intorno, ai quattro canti variopinte conchiglie, mentre il delfino nuotava in un glauco cerchio marino di leggiadre ondine. Impertinenti, noi le chiedemmo dove aveva nascosto le sardelle, e la ricamatrice ci rispose che le sardelle le aveva mangiate l’uomo del mare, e ci indicò il vistoso delfino, quello che lei aveva chiamato l’uomo del mare. “Come voi, come il gatto, anche lui mangia le sardelle!” Ciò disse in tono secco e ripose il ricamo. Il più grande dei ragazzi rimase pensoso sulla sorte dell’uomo del mare, ché nel mare c’è pure l’insidiosa minaccia degli squali. Espresse il suo dubbio e la signora placidamente rispose: “Il delfino conosce il bel canto e con il suo canto misterioso tiene a bada gli squali; ma se trascura il bel canto e perde l’incanto della voce, rischia il brutto incontro ed è minacciato dai mostri del mare.” Poi, lentamente aggiunse: “Questo può accadere all’uomo del mare, ed anche all’uomo che sta sulla terra.”

“Sorbole!”, si diceva una volta per esprimer meraviglia. L’espressione tratta dal frutto del sorbo è forse un po’ maliziosetta e proprio per questo ragionata, quindi comprensibilissima; è affidabile, basta inserirla al momento giusto.
“Fantastico, piazze stracolme! To’ le sardine!”, è un’espressione che recentemente abbiamo ascoltato, e spesso in questi ultimi giorni. Vuole essere un’espressione ammirativa e di grandissimo stupore, strappata ai mari, alle sardare dei pescatori e piovuta dal cielo. Mah! . . . A volerla lessicalizzare, da quanto abbiamo appreso su tal specie di pesci dal nostro professore liceale e persino dalle abitudini del nostro gatto, non par se ne ricavi alcun effetto, cioè un risultato lessicalmente efficace. “Qual moltitudine, corbezzoli!”, quest’ altra espressione noi la troviamo corretta, infatti, “corbezzoli!”, è un modo di dire derivato dall’alberello che in pieno inverno produce la corbezzola, una bacca globosa e scarlatta che spicca sul verde vivo del fogliame, il che induce senz’altro a meraviglia. Ma, se invece udite esclamare, “che folla in piazza, le sardine!”, avvertite subito la stonatura, anzi un innaturale esclamare!
Ci raccontano che i grossi conduttori tv e le accattivanti conduttrici sono grandemente ammirati dal fenomeno delle “sardine” e lo esaltano nei loro servizi; trovano stupefacente la presunta spontaneità del fatto, esaltante l’evento di piazze stracolme arringate da capetti di giovanissima età immuni da ogni contagio del potere politico, ne vantano i benefici, solo supposti, che ne deriveranno al paese da questa ventata di ribellione democratica e così via.
Ci è capitato di visionare uno dei tanti servizi televisivi sulle “sardine”. Il conduttore, faccia seria ed attenta, l’atteggiamento di chi intervista e segue l’interlocutore con il massimo interesse ed approfondimento dell’argomento; il tentativo di suscitare un clima austero, inconfutabile. Tutto falso, sommamente buffo, ridicolo! Quelle facce degli intervistati, tre “sardine”, son davvero facce da pesci, nel senso che non dicono nulla, la vera disgrazia è che non son mute come davvero san ben fare i pesci. Coteste facce tentano di parlare, pensano di vivere un’ora grandiosa perché ricevono l’applauso del pubblico presente istupidito dal frasario imbonitore del conduttore; d’un tratto schiudono quelle ittiche bocche tentando larvali, stereotipi sorrisi che appaiono esser subito risucchiati da pallidi abissi marini . . . Avete capito di che si tratta? Dietro tutta questa finzione c’è un grande illusionista, un esperto prestidigitatore . . . Ma, poi che tre sardine non fanno una triglia, lasciamo che si dissolva nel nulla da cui è sorta questa aberrante sceneggiatura.

Caspita, quante sardine in piazza! – Oh, ancora! Questa esclamazione di gran meraviglia, che farebbe scompisciare dalle risa persino i ciucchi, l’abbiamo sentita direttamente prorompere dal petto di più persone e con un accento serioso e volutamente sorpreso; evidente la compiacenza se non addirittura la condiscendenza. Ed erano quelle persone all’apparenza sopra l’ordinario! Orbene noi vogliamo qui lasciar da parte qualsivoglia discussione che possa inopportunamente trascinarci sul terreno proprio dei politicanti, dei gabba-popolo, cioè di quel genere di individui riprovevoli per lo sterile egoismo, la sconcia ambizione e una mal dissimulata alterigia. Non vogliamo controbattere alcuno, né confutare ciò ch’ è da per sé confutabile, semplicemente, e per conto nostro, intendevamo, scrivendo queste righe, farci una ragione di siffatta meraviglia, di tanta sorpresa e massiccia stupefazione. Insomma di capacitarci anche del nostro curiosare nella vita delle sardine, dalle sardine fritte o marinate a questo bizzarro caso delle sardine umanate, la cui commestibilità è affare comune e peculiare ai pescicani, termine questo con cui il popolo intende allegoricamente definire gli influenti, avidi affaristi e i cinici profittatori.
Sardine umanate, al posto di impanate, se non un lapsus denota solo una mera caricatura lessicale, una risibile ridondanza ed è comprensibile l’umorismo che, anche se stravagante e contro il senso comune, muove il riso; ma triste e intollerabile è quando si rinuncia al proprio originale modello, al congenito segno, al carattere distintivo, quindi ci si priva del proprio rango e si fuoriesce così dalla custodia che protegge il succo dell’umano senno, dal centrale presidio della sapienza, e si scivola nell’ elementarità zoologica.
Quando l’uomo decade perdono in lui valore i modelli ideali, gli atti virtuosi, i meriti del coraggio, e svigorendosi d’animo e di mente cede al dominio della svilente meschinità e della volgare grettezza; dalla magnanimità alla slealtà, alla viltà e sino all’abiezione. Dall’impavido al pusillanime, un rovinoso sprofondare verso il basso, l’omicciolo che si rintana nella piccolezza e finisce col perdersi nei greggi, nei nugoli, e infine in una delle tante maree trascinanti le moltitudini confuse, la massa informe.
Nel momento in cui si assume o si accetta un simbolo e lo si fa proprio e lo si promuove, anche col divulgarlo e propagandarlo apertamente, è da ritenersi che quel simbolo sia stato scelto apposta al fine di sostenere la riuscita di ben meditati e radicati propositi. Occorre però essere consapevoli del fatto che i simboli non si tirano fuori o si adottano impunemente. Se si vuole di un simbolo fare il segno che prontamente, in un lampo, evochi quella idea o situazione o proposito che si vuol portare a conoscenza di un pubblico numeroso o di un intero popolo è opportuno che esso ben rappresenti l’essenza di quei contenuti siccome definiti dalla volontà agente e che questa volontà vada ad incontrare il pubblico favore, avendo il simbolo agito da efficace tramite. Se il simbolo non vien ben ideato e non è adeguato al caso, peggio poi se falsato, ribaltato o comunque erroneo, l’agente che ne abusa non se la caverà senza danno.
Durante le sommosse o le insurrezioni popolari in modo spontaneo e immediato vengono fuori parole d’ordine, insegne e simbologie varie, il lancio ne viene effettuato per lo più da demagoghi e agitatori incitati da sobillatori, in specie rigidi dottrinari nascosti se non incogniti; impulsi, passioni, istinti elementari offuscano la reale visione degli eventi, impediscono un’indagine razionale, la meditata valutazione dei possibili rimedi; non si è in grado di affermare i giusti e salutari principi. Incombe l’ansia di ottenere un consenso totalitario: la elementarità omologante delle folle zoomorficamente modificate.
Gli impulsi passionali e gli istinti elementari che insorgono “spontanei”, meglio dire “dall’ inconscio” e dunque automatici, sono stimoli che sfuggono alla ponderazione e al controllo della mente, attivati piuttosto da spinte subliminali indotte dall’esterno. L’intendimento, il proposito, che dovrebbero essere deliberati da una volontà consapevole, vengono sopraffatti da una attività psichica, abilmente e fortemente condizionata, di cui l’individuo, segnatamente se sperso nella folla indifferenziata, non può avere piena e diretta coscienza. Subentra difatti, per influenza esogena, un perturbamento emotivo che muove il subconscio, e questo, per la cagionata instabilità e il conseguente intorbidamento, viene assorbito nell’inconscio collettivo, nella mente elementare, primitiva della massa, offuscamento; poi quel che ne viene si tende a farlo accreditare come d’interesse generale. Nella eventualità si verificassero fatti calamitosi o catastrofici si ricorre, da parte dell’oscuro manipolatore dei veleni, il fraudum machinator, alla esecrazione del cosiddetto capro espiatorio e “si chiude il libro”.
E nell’eventualità si trattasse di non simboli? Oppure d’un oggetto, animale o altro di non accertata reputazione simbolica? Insomma d’un qualcosa che si vuol forzatamente far valere come simbolo o gli si attribuisce una erronea o inattendibile distinzione allusiva, figurata? Accade ciò quando le due tessere del segno non si incontrano, non aderiscono; quando si propone, in sostanza, una raffigurazione allusiva che non risulta essere evocativa del senso che in essa si è inteso riporre, in quanto quel traslato, il significato metaforico, non tiene, mancando similarità e connessione. Orbene, pur volendo tener conto di tutto ciò e giungendo, su tal base, a non riconoscere valenza simbolica a certe divulgazioni iconiche che non di meno toccano le folle richiamandone l’attenzione, riteniamo che sia bene considerare onde quell’immagine o figura che si vuole simbolica muova e ha tratto origine. Non fermarsi alla superficie, ma scandagliare nell’intimo. Con impensata sorpresa quel segno, insignificante per come lo si era volutamente o inconsapevolmente contrabbandato (quale emblema di ribellione politica, per esempio), vien dissuggellato e mostra la sua autentica, cioè non contraffatta, valenza simbolica.
Da tempo siamo stati privati delle nostre figure simboliche, e in primo luogo è da deplorare la perdita della figura paterna, il simbolo solare del Liber pater, e con essa di tutta la nostra valente simbologia ancestrale, con l’oblio funesto del ricordo, ingenito un tempo, dell’institutum patrium, il tradito mos. Con il patrimonio genetico si era fieri di ereditare quello spirituale, eminente e irrinunciabile, e il pregevole patrimonio culturale e civile. A quei tempi gli uomini avevano ancora una patria e amavano la loro patria.
Chi oggi s’inventa, escogita simboli, ambigui e subdoli, e li suscita nelle folle al fine di stimolare emozioni che le inducano all’accettazione passiva di credenze, speranze, posizioni, scopi, convinzioni ed altro? Son quelli che vogliono imporre la loro immagine rovesciata del mondo e tener le società assoggettate ai loro concetti dispotici, ai loro modelli snaturati, alle loro maniacali “virtù”. Son coloro che vogliono influenzare, condizionare, indebolire le volontà, limitare la libertà d’azione, sopprimere le opinioni, i giudizi, le idee diverse; tutto il pensamento, sebben lealmente e correttamente vagliato ed espresso, di chi gli sta di fronte. Coloro che la pensano diversamente, infatti, sono soltanto un abbozzo di fronte al Grande Emendatore. Lo chiamano, con una terminologia scrupolosamente democratica, il politically correct!
È così che vi ritrovate, per esempio, una piazza e un’altra e un’altra ancora stracolme di “sardine(!)”. Se siete accoliti o adulatori del Grande Emendatore, o suoi emendati, il fenomeno vi lascerà sbalorditi. To’ le sardine! E, nelle piazze sardine a tonnellate; ve le scaricano in tv, dappertutto; ve le incartano nelle prime pagine dei giornali, vi ammollano cartocciate e cartocciate di sardine. Che bella ittiofauna! E finalmente un linguaggio sciolto nella salsedine, nelle onde, barbaramente furfantesco . . . e poi, che fresca flottante gioventù! Una mescidanza di meno-andropausa di tardone e tardoni, ma se volete mutare la t in s fatelo pure, intorno ai sessanta e più che s’acconcia a trentenne e vi guarda con piglio sardonico, come fosse il santo protettore delle sardine. Vi sentite tutti sant’Antonio di Padova? Certo, proprio così: “… ecco, mi rivolgo ai pesci …”, e dappertutto inizia la predica del politic… etc. Bravo! Bravo, l’Emendatore!
. . .ecco, anch’io mi rivolgo ai pesci . . . Ma io non sono un emendato e quelli, muti, proprio muti come pesci, mi vengono cortesemente in aiuto e, silenti nella loro feconda beva, l’acqua nella quale si trovano, mi rammentano quanto segue. . .
Il nome pesce vien dal latino PISCIS, is, e se cambiamo la p in f avremo in inglese FISH e in tedesco FISCH, infatti la rad. indo-europea del vocabolo è PI; quest’ultima è anche la radice dei vocaboli greci πίνω -bere e πιπίσκω -dar da bere; il pesce dunque è l’animale che sta nell’acqua e che beve di continuo. I pesci che vivono in fitti banchi si trovano solo nelle acque del mare, che è simbolo della nascita, infatti la vita viene dall’acqua, per cui l’acqua assume un significato materno. Il mare, le acque, simboleggiano altresì l’inconscio, cioè tutta l’attività psichica che rimane sotto il livello della coscienza e quindi anche la stessa vita emotiva e in specie la femminilità lunare; l’emotività se sfugge al controllo può causare ansia, depressione, avvilimento, ma ci sono anche emozioni che apportano sollievo, che sollevano l’animo. Oggi l’emotività è sempre più manipolata e soprattutto quella impressionabile delle folle, che viene facilmente eterodiretta; per influenzare e richiamare le masse del tempo sono sufficienti grossolane suggestioni, simbologie puerili, addirittura banali.
Intendiamo a tal punto esser succinti, infatti ci pare d’aver già chiarito tutto e di esserci ben convinti che la democrazia mondiale e l’accozzaglia dei suoi esponenti è tutta servilmente piegata alla tirannia atomica e che il rapporto di subalternità della democrazia italiota a tal servaggio è fatto noto, servi dei servi i suoi gregari. Balanzone, Brighella, Arlecchino, Pulcinella? La commedia dell’arte con le sue maschere provocava il riso e presentava tanta gradevolezza, si dava uno spettacolo al pubblico che vi assisteva per svago; ma se ci si trova, e lo si pretende anche, a recitare una parte seria, autorevole, responsabile, statuale persino, e invece ci si rivela inetti, ridicoli e oggetto di ridevol motto? Per amor patrio, tacciamo!
E le piazze delle sardine? Quelle piazze significano, o se volete simboleggiano, proprio la immaturità comportamentale, la primitività ideologica, l’irresponsabilità e leggerezza con cui si tratta la cosa pubblica, il puerile egocentrismo con cui dipoi non si dà alcuna importanza ai danni procurati alle genti. Anche laureati, accademici, grossi tecnici, tutti bambinoni cresciuti, e in agguato . . . le vecchie volpi! Tra le vecchie volpi, poi, c’è quell’esperto, il furbacchione o il furfante del momento, che sa bene il fatto suo e conosce per filo e per segno in che condizioni sua eminenza l’Atomico, il padrone del mondo e suo padrone, ha ridotto i popoli e profitta appunto della immaturità in cui vivacchiano le folle umane continuamente parassitate. Con i mezzi a loro disposizione è facilissimo a pochi lestofanti indirizzare e sfruttare ai loro fini l’immaturità emotiva delle piazze. Be’, che altro dire? Le sardine sapete bene che non sono un pesce da taglio, di quei pesci che si vendono a fette, ma a cartocci e cioè un pesciolino; sapete pure che non è un pesce solitario, ma un pesce che si muove in fitti nugoli; non c’è la sardina “individuo”, ogni sardina eguaglia l’altra e tutte in massa formano un banco, due, tre, dieci, cento banchi di sardine.
Un pesciolino, dunque, in lat. pisciculus, che simboleggia il feto nella vita intrauterina, l’embrione umano nel ventre materno . . . un pesciolino che nuota nel liquido amniotico. E in questo Eden si sperimenterà il nuovo sistema pedagogico! Bambinoni dai sedici ai quaranta e passa, cioè ancor più stagionati, sprofondati in una edenica piacevolezza, nella impagabile spensieratezza dell’acquosa cavità; tutti, in un nugolo, svaniti nella globosità matriarcale . . .
Oh, quelle folle ridotte a banchi di sardine! nelle fonde, cave piazze . . . come nelle sardare . . . oppure . . .
