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VEXATA QUAESTIO

                                                      

 

 

 

VEXATA QUAESTIO  

 

                                                                                  

Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello!

                                                   V. Alfieri

 

 

   Ti scervelli, t’arrovelli il cervello, vuoi esaminare a fondo il problema, discuterne . . . Ma a furia di analizzare, esaminare e riesaminare, si finisce per dibattersi nel dubbio, e senza via d’uscita; per cui noi riteniamo e suggeriamo che meglio è attenersi ai fatti, sempre che si siano osservati gli accadimenti con occhio imparziale, intendiamo dire non partigiano, onde ravvisarne l’autenticità. Quando poi trattasi di fatti non vissuti o direttamente osservati, occorre che siano sottoposti ad attenta, obiettiva e serena verifica. Un dovere dell’uomo è mantenersi onesto e giusto nella sua ventura terrestre e anche in quel vedere e in quel sapere, cui si è dato il nome di indagine storica; insomma, deve mostrarsi veritiero ed essere in ogni caso sempre veridico. L’uomo saggio è anche un avveduto e sa, dai segni esterni e dalle tracce superstiti, discernere la veracità dei comportamenti umani pur se trascorsi i tempi. Le storiografie, infatti, sono infarcite di falsità, ma la storia, cioè i fatti che sono avvenuti, è sotto gli occhi di colui che sa e vede. La veridicità dei fatti vive ancora nei discendenti di coloro che li han compiuti; la più sofisticata delle falsificazioni, persino se divenuta un credo delle masse, non sfugge alla mente provetta del saggio, non inganna il vedente nella storia, perché, al di là della narrazione che se ne fa, permane la realtà dei fatti che furono compiuti; lo storicismo ha sempre un odore di cosa vecchia, risente di tardità, e sono un imbroglio le sue pretese innovative, inquietanti le sue interpretazioni con l’ingerenza del senno di poi. La storia non appartiene al genere letterario della favolistica o del leggendario; la storia è la lettura dei fatti realmente accaduti; una perdurante, autentica visione di essi fatti. Ma l’uomo, egocentrico, megalomane e vanitoso, immagina che tutto ruoti intorno a lui e al fine di celebrare sé stesso, qualunque sia il suo credo o la sua ideologia, falsifica i fatti non curandosi talvolta persino dei documenti che li comprovano. L’egocentrico ha solo una vaga, manchevole coscienza di sé, non vede più in là del proprio naso; e gli egocentrici sono miriadi! E la storia, in misere gramaglie, resta una sconosciuta; sopraffatta dalla menzogna, vien rimpiazzata da contrastanti narrazioni, da dispute inesauribili. Perciò il saggio fermamente si attiene ai fatti, in essi riesce a leggere con sapiente esattezza, e accertandone i caratteri salienti, confermativi, ad averne una visione veritiera, e tanto nel ben fatto quanto nel malfatto. La saggezza è sempre in grado di chiarire la natura delle cose e quindi di far luce sugli accadimenti e gl’intrighi umani; ma le moltitudini si alimentano di vane speranze e credenze, si lasciano asservire e condizionare, individuo su individuo, dalle più nocive propagande, si pascono di menzogna. A dispetto della libertà d’opinione, alla faccia di tutti i cosiddetti liberi pensatori, che complessivamente sommati fanno il popolo sovrano! A proposito di libera opinione, non fecero quei furiosi libertari una grande rivoluzione che scosse quasi tutta la terra? Volevano garantire a ogni testa libertà di pensiero, e ci s’immagina fiumi straripanti di pensamento inondare i viali e le piazze di Parigi!  E i balli e le carole sotto gli Alberi della Libertà? E nella grande Piazza della Rivoluzione immantinente par di scorgervi un grande, solenne monumento consacrato alla Libertà d’Opinione, e invece . . . è la ghigliottina! Una macchina celere a tagliar di fila le teste, cioè più che spicciativa a eliminare le opinioni opposte o malgradite. Un tempo accadeva che l’oppositore lasciasse sotto la mannaia la sua misera testa sul ceppo e tutto finiva lì, era quello un caso isolato, l’esecuzione d’un singolo; ma quando trattasi di correnti di opinioni, cioè di tante e tante teste pensanti? L’occorrenza allora richiede una macchina celere per assicurarsi prestamente il successo del proprio pensare e renderlo così largamente gradito e dargli, rimosso l’intralcio delle avverse opinioni, il più libero corso, farne cioè la indiscutibile “pubblica opinione”. Il passo successivo sta nell’assicurare tal successo nei secoli e nell’intuire, cosa questa davvero diabolica, che dalla ghigliottina alla bomba atomica il passo è breve; infatti, “La Libertà che illumina il mondo” viene dalla piazza della Rivoluzione di Parigi portata nella baia di Manhattan a New York, ove campeggia, colosso di 93 metri d’altezza compreso il basamento; statua simbolo della dea Ragione, donata agli USA dalla Francia rivoluzionaria, solleva al cielo il braccio destro impugnando la torcia del sapere (“massonico?”) liberal-democratico!

 

    Dal terrore guigliottinardo al terrore atomico, dallo spietato giacobinismo all’esportazione della democrazia con le bombe e i massicci nodi scorsoi; ghigliottina, atomica e capestro, insomma, per le opinioni erronee, e quindi per le esistenze sbagliate, quelle da mandare al diavolo nell’immolarle alla dea Ragione. E questi sono i fatti! Ma tu ancor ti maceri, t’arrovelli, e cerchi d’emendar questo e quello impartendo lezioni; ancor sostieni che tutto sta nel mettere apposto, nell’aggiustare le cose, migliorare i propositi, cioè indirizzare le volontà a ben fare, e così via. Il mondo torna alla “ragione”, tu dici, e madame la raison, la guillotine, è stata riposta in un andito buio del Museo della Rivoluzione. La Raison, la déesse séditieuse, è tutt’altro che la sagesse ovvero le jugement populaire, le bonsens, sì, il cosiddetto buonsenso della gente del popolo. E ti auguri che questo buonsenso popolareggiante sempre più s’estenda e riesca ad emendare gli stessi regimi democratici. Tu pensi tutto questo, e non t’avvedi che il buonsenso popolare ha perso la sua vitalità, dacché i popoli furono privati d’una patria e della potestas patria e ridotti a masse indistinte dal terrorismo atomico. Con la sediziosità alimentata di proposito i popoli perdono l’assennatezza ed è stato facile all’Età sovvertitrice estirpare il senno dal cervello delle masse incolte. Difficile è porre rimedi alla faziosità prodotta dalle sedizioni.  La sedizione, infatti, è conflitto, discordia, disaccordo insanabile, cioè, non dissenso argomentativo, ma una radicale divisione degli animi. Ahitè, SAGGEZZA! E ahinoi! O latino-italica Sapientia, non sei certo tu la guida luminosa dei rivoluzionarismi, questa sediziosa, continua, sotterranea insidia che va cagionando l’ulteriore declino della società già in avanzato stato crepuscolare; moti impossibili e insostenibili nel tempo, che non recano alle genti la visione prodigiosamente salutare e salvifica della rivoluzione del mondo in un rinnovato ordine universale, in un COSMO, del quale la civiltà umana sia l’ornamento. Un sommovimento disumanante che perfidamente non s’arresta; un gorgo, una spirale di dissennatezza. E una scia, una traccia di storie sanguinanti, un indelebile, dolente ricordo d’ignominie, di empi sacrilegi, come il frangersi e il venir meno nella coscienza dei popoli, nella loro anima e consapevolezza, di principi, simboli, norme, istituti tramandati da tempi antichi e profondamente sentiti perché connaturati, atavici, ancestrali. Quelle sono cicatrici che rimangono non sulla pelle, ma nel profondo dell’anima e anche nella cultura e mentalità dei popoli ove, forse, non rimargineranno presto. Avete voi riflettuto a come fu data la morte a decine e decine di migliaia di persone condannate alla ghigliottina in quegli anni orrendi? Condotti, i malcapitati, al patibolo su una carretta, stando ritti e con le mani legate dietro la schiena e i capelli rasati alla nuca, venivano dal boia fatti stendere su un tavolo a ventre e faccia in giù, a mo’ di vermi, terga al cielo e faccia alla terra; ivi, immobilizzati e sistemato il collo sul ceppo sotto la lama, venivano decapitati; il capo cadeva in un paniere dal quale il boia lo tirava fuori afferrandolo con i capelli o un orecchio e macabramente lo mostrava sanguinante al pubblico dileggio. Morirono così in quei mesi uomini e donne che non erano comuni criminali. La famosa Madame Roland, repubblicana ed entusiasta della rivoluzione, ma una moderata e perciò sospettata di cospirazione e condannata a morte, il mattino del 8 novembre1793 mentre veniva condotta al patibolo, nel passare sotto la statua della Libertà, pronunciò queste parole: “Libertà, quanti crimini vengono commessi in tuo nome!” In quel paniere sanguinoso, cinque giorni prima, era rotolata la testa di un’altra donna innocente, Olympe de Gouges, commediografa e scrittrice, repubblicana e femminista, che però si era opposta alla condanna a morte del Re, eseguita il precedente 21 gennaio. Con l’uccisione di quel Re innocente si determinò la fine dell’ultra-millenne Royaume de France che durava ininterrottamente dal 481, quando ne fu investito Clodoveo I appartenente alla dinastia Merovingia del popolo Franco; la monarchia sarà poi ristabilita per un breve periodo, dopo l’avventura napoleonica, dal 1814 al 1848.

 

    Per lo più, e ormai d’abitudine, gli storici di professione danno tutto per scontato, fanno rientrare tutto nell’ordinario. Il preconcetto, tutto democratico, d’una ovvietà degli eventi e dei fatti umani è, in questi tempi, da ascrivere all’idea di “civiltà” prevalsa tra i contemporanei e intesa come un progredire del genere umano da uno stato semi-bestiale ad una graduale, interminabile evoluzione. Costoro credono che il democratizzarsi dei popoli, che prese impulso dal rivoluzionarismo settecentesco, sia fase apicale di tal incivilimento. Cecità d’una ideologia totalmente materialista; i suoi ideologi, celebratori, organizzatori e protagonisti, neanche vagamente sospettano che il travolgente demonismo disfrenatosi consegue alla perdita di consapevolezza nella mente e nell’animo delle genti d’ogni giusto ideare e umano agire. Il riottoso rivoluzionarista idealeggia astrattamente la sedizione, nel suo concepire ribalta l’ordine universale; la sua narrazione è e resterà difforme dalla realtà. Si dibatterà, senza uscirne, nell’astrattezza inconcludente, con sullo sfondo le immagini d’un sinistro sogno patibolare. E simbolo sinistro è la decapitazione, sia guigliottarda sia tivvudica: falcidia il pensiero arioso, spegne la viva luce, tronca il contatto con il Cielo padre. Questi i fatti. Fatti di certo per niente insignificanti, che anzi contraddistinguono le aberrazioni insanabili del rivoluzionarismo. I rivoluzionaristi non hanno un concorde e saldo consiglio sui propositi, sugli intenti da portare a compimento, né un prefissato comune approdo, una finalità proficua all’umana conoscenza; deviante è anche l’illusoria pretesa all’universale, camuffamento d’un’insidiosa avidità degli egoismi, incurante di ciò che appartiene a tutti, che concerne il bene generale; tristemente aberrante è non volger mai l’attenzione all’unitarietà, disperdendo invece le energie nel particolare, nel settario, covando faziosità, intolleranza, partigianeria e suscitando, con  esacerbato individualismo, divisioni, disaccordo e conflitti. Di fatto, l’anno seguente a quella uccisione d’un Re e alla soppressione d’una regalità ultra-millenaria, simbolo ancestrale della potestà patria, quindi dell’unità familiare, delle genti e delle nazioni, seguirono l’esecuzione dei più eminenti protagonisti e propugnatori del verbo rivoluzionario; salirono il patibolo: Danton che accusò il tribunale rivoluzionario di essere “divenuto un flagello per il genere umano”, Desmoulins, Hébert, Couthon, Maximilien de Robespierre, che aveva favorito il culto della dea Ragione e promosso quello dell’Essere supremo, Saint-Just, ch’ebbe a scrivere: “Chi fa le rivoluzioni a metà si scava la tomba.” Lui, amico di Massimiliano, la rivoluzione non s’era risparmiato nel farla e a farla per intero, eppure a soli ventisette anni subì la ghigliottina. Louis Antoine de Saint-Just alla rivoluzione aveva dato la sua persona, la sua parola, la sua voce, la sua oratoria intransigente, spingendola con il supporto amicale di Maximilien sino all’inevitabile Terrore, da affrontare anche fisicamente, cioè con l’anima e il corpo; giustappunto questo fu il modo in cui Louis Antoine realizzò appieno il suo tristo demone. Beppe Grillo, tardo epigono, in burlesco, di quel rivoluzionarismo, esaltandone affascinato la figura storica, si chiede come fu possibile a quel giovane affrontare imperterrito, con cuore di ghiaccio, la propria decapitazione. Saint-Just da solo salì, con disinvoltura imperturbabile, come chi si reca ad un appuntamento richiesto ed indifferibile, le scale del patibolo. Eppure aveva trascorso la notte ad assistere l’amico sofferente, che s’era fracassato la mascella tentando il suicidio. Doveva andare proprio così quel 28 luglio 1794, l’urlo orrendo di Robespierre, cui il boia strappò per procedere alla decapitazione la benda che reggeva la mascella, dovette risuonare disumano, spaventoso, in quella piazza insanguinata, nell’enorme orecchio del popolo di Parigi. Come immancabile fu, nel precedente 24 di marzo, che quel colossale padiglione auricolare venisse tormentato dal penoso fatto che stiamo per raccontare. Jacques René Hébert, trentaseienne rivoluzionario e precursore della sboccataggine politichese, che in quel mattino fu condotto in Place de la Concorde sulla ghigliottina, aveva trascorso la intera notte fra il pianto e continui mancamenti; portato sul patibolo in stato semicosciente e sistemato il collo sul ceppo, la lama si bloccò; trascorsero alcuni minuti per il riattamento e Jacques René si riprese; di colpo, cosciente di ciò che gli stava per accadere, scoppiò in un pianto alto, dirotto e straziante  che risuonò in tutta la piazza. Come Saint-Just anche lui, il giornalista Hébert, il vaffista, aveva sostenuto con forza la condanna a morte del Re. Il terzo dei cosiddetti Triunviri del terrore, Georges Couthon fu anch’egli ghigliottinato il 28 di luglio ’94 con Saint-Just, Robespierre e i loro seguaci; aveva attivamente partecipato ai rivoltosi eventi su una sedia a rotelle, per la sua invalidità fu dagli aiutanti del boia portato in braccio al patibolo.

 

   E il deposto Re? Si racconta che Luigi XVI avesse vegliato, nella notte che precedé il suo supplizio; dal patibolo rivolse al popolo parole di perdono verso i suoi nemici, paternamente augurando che il suo sangue non ricadesse sulla Francia, ma fosse utile al popolo francese; fu anche riferito che lo si vide andare a morte tranquillo e sereno. Vittorio Alfieri, contemporaneo dei tristi avvenimenti e per l’anno 1789 testimone oculare, apostrofò come ‘semifilosofi’ gl’ispiratori e le guide di quei moti sanguinosi e nel rappresentare la natura e il comportamento umano del Re, con duro sdegno condanna il Reale supplizio con i seguenti versi:

 

 

   D’immensa piazza in mezzo, oimé, torreggia,

   sacro a morte e vendetta, un palco fero:

   intorno intorno atroce messe ondeggia

   d’aste ferrate, onde han Liberti impero.

   Di contro appunto alla già un dì sua Reggia

   ecco salirvi impavido, ed altero

   in sua innocenza un Re, che all’empia greggia

   de’ schiavi suo perdon concede intero.

   Universal, mortifero, tremendo,

   silenzio piomba entro le attonite alme . . .

   Deh, ch’io non vegga l’assassinio orrendo!

 

 

   Assassinio orrendo, anche perché significava la perversa, atea volontà, insita nel rivoluzionarismo, di annientare nella concezione dell’uomo moderno il principio originario e fondante d’ogni civile e virile società umana, su cui poggia la profonda struttura della propria patria, della comunità cui si appartiene, la patria potestas; di svellere quindi dalla radice la nozione della trascendente idea del Cielo Padre, dell’archetipo solare, impersonificato nel simbolo della regalità, modello tra l’altro universale.  Una volta assassinato il padre vien negato il ritorno alla propria origine, alla conoscenza di sé, non ci si può più unificare al proprio cielo, si resta coinvolti in un oscuro, rapinoso demonismo.  La persona non è più compos mentis né rationis, non è più padrone della sua mente e quindi capace di buona ragione, insomma non è più compos sui, non è più pienamente padrone di sé. È la vocazione e il destino malavventurato dei tiranni. E ciò può capitare agli individui come ai popoli. Non è da escludere che anche un popolo possa divenir tiranno, e soprattutto tiranneggiare sé stesso, come ancor ci dice l’Alfieri: “Servil gregge malnato, invan ti nome /Popol, sei plebe, e il sei più ria che avanti, /Da che in serto regal cinto hai tue chiome.” I ‘semifilosofi’ furono tutti tirannelli e gran parte del popolo, attraverso quelli, divenne un tirannaccio quando per sé ambì una corona e i ruffiani dell’opinione pubblica lo nomarono ‘sovrano’. Un popolo nella schiavitù della tirannide ‘rivoluzionaria’! I Popoli? In verità, con la scomparsa dei greci, dei romani, e tranne brevi periodi felici nel Medioevo o nel Rinascimento, di veri popoli non c’è traccia; vaghi confusi indizi di esistenza biologica, spinte nostalgiche, sì, ma invano troverete un popolo ancor vivente nel prestigio, nella nobiltà d’una sua propria POTENTIA, la sua vitalità culturale, il suo primato di civiltà, ed in grado di dispiegarne il civil fascino sull’Orbe.  Ciò si verificò fino a quando la Potentia popularis romana Quiritium s’accordò e s’integrò con la Gravitas senatoria, cioè dei Patres, o anche con la norma d’un legittimo regal scettro, allorquando di fatto s’espanse e s’accrebbe l’auctoritas della Patria Potestas, anche in seno allo stesso popolo. Introiezione nella mente e nell’animo umano della inalterabilità (perennitas) del Cielo Padre, sublime moto degli animi che si elevano alla serenità del trascendente.

 

   I popoli falcidiati e depredati dalle bande armate al servizio del dispotismo di turno, un tiranno beneamato e sostenuto dal proprio popolo! I popoli, che debbono essere educati alla democrazia da popoli altri e prepotenti che, strabordando di tal miracolosa merce, munifici la esportano con le bombe e agitando l’insegna d’un minaccioso, spettacolare nodo scorsoio! I popoli che da due millenni pressappoco vivono nell’oscurantismo del più fraternevole-fraternalismo, un dommatico e totalitario clericalismo, un’astuzia fratesca qual non s’era mai vista al mondo! Già, uno stratagemma sicuramente fenomenale, impareggiabile! Tutti buoni, tutti bravi fratelli in un affratellamento universale; fu il successo del giudeo-cristianesimo, onde tutti i popoli d’occidente si volgessero al cristianismo, al parlare, al pregar cristiano! Le tanto celebrate radici giudaico-cristiane sono dunque l’esito d’un rivolgimento, d’un brusco convertere il mondo olimpio, tradizionale, della classicità greco-romana, che fruiva di giustezza, equilibrio e armonia, il viver proprio dei popoli europei, volgendoli a un rivoluzionarismo violatore delle loro autentiche origini e calunniatore della loro propria stirpe, facendone così, con loro grave danno, degli sradicati in pigra attesa del riposo eterno nell’ incerto regno dei cieli. Fu quella, conversione religiosa? o il rivolgimento d’un ordine sublime contrassegnante d’essenza divina l’opera dell’uomo nel mondo? Fu un sacrilego stravolgimento del linguaggio sacro della Romanità, quel linguaggio che legava al trascendente, quindi al divino, l’agire virtuoso degli uomini, facendo di esso l’azione reale, l’opera incorruttibile, giusta.

 

   L’affratellamento universale, quel fraternevole-fraternalismo, era però soltanto un espediente utile al momento: raccogliere in massa, per procurare un ammassamento informe e interrarvi, schiacciare e appiattirvi tutte le forme, le fattezze, le strutture, le armoniche linee del passato. Ma non c’è limite alla doppiezza, al gesuitismo, e nel momento opportuno si conia la parola d’ordine: ‘divide et impera’; s’imbeccano i regnanti, i più bacchettoni, che nulla han di regale ma fan parte assidua del chiericato, si convocano gli affratellati ad una cerimonia di benedizione generale e poi li si avvia ben armati alla guerra di trincea. Son tutti cristiani, di qua e di là, anche se qualche mangia-prete c’è e gran bestemmiatore, ma tutti benedetti dal buon dio e pronti ad ammazzarsi a sua maggior gloria. Queste son cose accadute sulla faccia della terra, sono fatti, e non ce li siamo inventati noi. ‘Divide et impera’, un motto, una parola d’ordine tipicamente gesuitica. Oggidì l’affratellamento universale vien definito globalizzazione dei popoli, ed è globalizzazione dei commerci, dei capitali, delle tecnologie, delle vaccinoterapie obbligatorie ed anche delle guerre, siano esse nucleari, siano batteriologiche; la cosa stupefacente è che in questa totalizzante globalizzazione, ben celata, inavvertita, agisce indefessa, onnipresente, la gesuitica regola: ‘divide et impera’! Un esempio: l’Unione Europea! Trattasi d’una spregevole oligarchia affaristica di sottostanti gesuitici al servizio del Disgregatore dell’uman genere che i popoli trattiene in servitù, divisi: Marchons, marchons/Qu’un sang impur/Abreuve nos sillons . . . Et le voilà, ecco fatto! il sangue impuro . . . di quel bastardo . . . bastardo d’un fratello . . . d’un fratellastro europeo!                                                                                                                                                                          

   Ed eccoci tornati al palco fero di Piazza della Concordia a Parigi. Piazza della Concordia! ohi, che impudenza! Nei bui tristi giorni in cui i semifilosofi, non sapendo come proporre i loro progetti (anzi, intrighi) di cambiamento sociale e come metterli rettamente in atto per portarli in saggio modo a compimento, la misero in rivoluzione. Quella filosofaglia liberalesca produsse il grande evento, la Grosse Revolutionla révolte sanglante! La mauvaise chose, un riflusso di barbarie. Non intendiamo, pur con le nostre riflessioni, nemmeno risparmiarci il pieno biasimo, come l’Alfieri non risparmiò la sua disapprovazione e le sue dure critiche. Su quel patibolo abbiamo visto perire alcuni tra i più irriducibili capi rivoltosi comparsi sul palcoscenico della storia. Il 5 aprile 1794 fu la volta dei dantonisti. Tra questi, Camille Desmoulins, mentre era sul carretto che lo portava al patibolo, deplorò quel duro malanno compiangendo il popolo costretto a subirlo, al momento dell’esecuzione gridò forte il nome della moglie: sapeva che lei . . . Lucile! . . . lo avrebbe presto seguito nel triste destino. Danton, invece, quel giorno stesso aveva ben studiato come por rimedio alla propria decapitazione. Sdegnoso salì al patibolo e con piglio sicuro apostrofò il boia, intimandogli: “Non dimenticare di mostrare la mia testa al popolo: ne vale la pena.” Quella mostra, quella macabre ostentation di iattanza rivoluzionaristica, dovette sollecitare un irruento convulso brivido sulla schiena del boia che, d’una scossa, dovette trasmettersi nei nervi dorsali della gran massa di popolo impiantata là, nella grande piazza parigina, ad assistere e soprattutto a dar pietosamente forza alla faticosissima giornata di Charles-Henri Sanson.  Perì dunque in quel 5 germile con tanti suoi amici anche Jacques Danton; lui, vantando un’estrema iattanza, il miles gloriosus della Grosse Revolution! Sappiamo della sciagurata fine di Robespierre, della miserevole morte del paralitico Couthon, e non possiamo dimenticare la morte dell’altro giovanissimo triunviro del Terrore, Louis de Saint-Just. Su quel palco fero che torreggiava nell’immensa piazza parigina trascorse intera l’atroce storia della Rivoluzione francese. Così alla nostra attenzione pensosa! e non sfugge, di fronte al fatto storico, un precipuo raffronto, un riposto, sotterraneo rapporto, un comparabile raffronto    tra la morte del Re e quella del rivoluzionario Saint-Just, come avanti narrate. L’Ancien Règime (fu la rivoluzione a dare questo nome alla precedente società tradizionale) era fortemente in crisi se non al tracollo; svigorito, ormai andava svecchiato, rinnovellato; andava riportato alle origini, ai suoi albori. Spettava al Re intuire ciò che stava per accadere ed intervenire operando la salutare rivoluzione e al suo Consiglio e ai suoi ministri metter mano alle riforme, risollevando anche la vitalità e il benessere del popolo, facendone il garante dell’auctoritas (dal verbo lat. augere, attivarsi al fine augurale di accrescere lo stato del bene) che direttamente discende dalla patria potestas, espressione del Cielo Padre, orma, cammino del trascendente nelle umane culture. Ma il re fu assente. Luigi XVI lasciò calare su di sé l’ombra che incombeva, si lasciò trascinare nella fallacia rivoluzionaria dall’inconsistente discorso dei semifilosofi, foriero di tempesta e di lutti, per cui non poté evitare la fatalità d’un assassinio orrendo, l’assassinio del padre. Luigi de Saint-Just, in parallelo, fu lo sposo di quella sommossa sediziosa, andò alla morte come fosse giunto a nozze giurate per sempre e libò con il suo giovane sangue al demone della rivolta; ineluttabili, funeree nozze.  Abbiamo sopra detto che questo fu il modo in cui Louis Antoine realizzò il suo tristo demone. Ha lasciato, tra l’altro, scritto: “Disprezzo la polvere di cui sono fatto e che vi parla; si potrà perseguire e far morire questa polvere, ma sfido a strapparmi la libertà e la vita indipendente che mi sono dato nei secoli e nei cieli.” Vada pure! ma ci sono i secoli luminosi e anche i secoli bui, anni e anni avvolti nell’oscurità; e, soprattutto, ci sono i cieli superni, il supernum numen e gl’inferi “cieli”, i loca inferna de l’umbrarum rex. La libertà del rivoltoso? cioè licenza, arbitrio e . . . anche il sopruso. Eh? Già, il sopruso! e, in più, il terrore, il terrore che annienta! In fine, darsi una vita indipendente . . . e da cosa?  Da quel che è origine di vita, la sua causa, il suo fondamento? Dal principio reggente ogni vita, il Pater, al quale vita e libertà sono indissolubilmente legati; Liber Pater dei Romani che è pur anco Sol, il SOLE, l’almus dator. Ecco, di Louis Antoine alcune dannate invettive: “Non si può regnare senza colpa. Ogni re è un ribelle e un usurpatore . . . Luigi è uno straniero fra noi. È un barbaro, uno straniero prigioniero di guerra.” Una continua insistenza, pressione, perché venisse commesso il crimine, l’assassinio orrendo.  Esecrabile ostilità! Somma tristezza, somma pena!

   Una sera del giugno 1794, una giovanissima donna, Cécile Renault, figlia d’un mastro cartaio parigino, fu sorpresa sotto l’abitazione di Robespierre nell’atto d’introdursi nel palazzo, fu arrestata perché, come insinuato, in possesso d’un coltello; interrogata, la ragazza chiarì che si trovava lì, all’insaputa dei propri congiunti, “curiosa di vedere come era fatto un tiranno”; nel prosieguo dell’interrogatorio aggiunse che “era pronta al sacrificio pur d’avere un re.”  Fu arrestata tutta la famiglia, perché realisti, e il 17 giugno, con l’accusa del tentato assassinio di Maximilien Robespierre, la giovane donna, il padre, il fratello e la zia suora, che s’era presa cura dell’orfana di madre, furono costretti ad indossare il camice rosso dei parricidi e condotti alla ghigliottina. 

 

 

 

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   Haec fierent, si testiculi vena ulla paterni

  Viveret in nobis?   (PERSIO, sat. I)

 

   Parte da noi stessi un gran rabbuffo per queste troppo lunghe riflessioni, ma non accetteremo mai alcuna riprensione sulla inopportunità di rievocare eventi sui quali son trascorsi oltre due secoli e passa di altre storie non meno dolenti, sanguinose e indubbiamente più distruttive. Vero è che gli uomini sono ostinati macchinatori di grossi misfatti e che esperienza niuna ricavano dai passati disastri e che assassinii susseguono ad assassinii, rivoluzioni a rivoluzioni, guerre a guerre; vero è anche che gli ordigni di morte d’oggidì superano di gran lunga lo schioppo di fine settecento e le artiglierie napoleoniche; che le esecuzioni capitali di oggi, là dove sussistono, non sono meno affilate ed acerbe della louisette, la lama delle esecuzioni parigine. Ma è pur vero che in quel sommovimento di fine ‘700, nel cuore dell’Europa, ci fu come un riflusso di barbarie provocata da menti invasate da una sadica stregoneria; nasce il sospetto che tutti quei semifilosofi fossero individui usciti di mente, il cui senno fosse stato sostituito da un cabalare continuo, alieno; che le menti di quei sediziosi fossero proiezioni maligne di specie extraumane mosse da un’infera entità a prender possesso della terra.  E, se si fosse trattato di semplice demenza? Non miscelata di medianicità e spiritismi vari? Se si fosse trattato di semplice alterazione delle cellule cerebrali improvvisamente attaccate da un virus sitibondo di tumulti e di sangue? Se si fosse trattato d’un fenomeno covidiolesco ante litteram? Un virus! Ecco, sì, un virus, ma non c’entra per niente il covid-19; il covid-19 è un cosino quasi innocente, messo a forza nella mischia. E allora? E allora trattasi d’un virus molto virale, un virus che attacca il cervello! Il cervello dei buoi, degli asini, dei porci? Ma no! cervelli molto meno robusti e svegli, i cervelli delle masse umane e degli intellettuali che le guidano, i cervelli all’ammasso delle fedi democratiche. Iddio ce ne allontani: il virus della democrazia? Quel virus che si propagò con la rivoluzione francese e che della sua neonata democrazia fece all’istante una tirannide dissennata e sporca di sangue.  Di sangue legittimista e di sangue rivoluzionario, di sangue nobiliare e di sangue borghese e plebeo, del sangue dei girondini e del sangue giacobino, del sangue dei maschi e del sangue femminino, del sangue dei vandeani e dei parigini, del sangue del re, della sorella del re e della regina, insomma del sangue del popolo sovrano, e cioè democraticamente del sangue di tutti: égalité, fraternité! E la “liberté”? Quella vien dopo, con la purificazione, quando sarà versato tutto il sangue, le sang impur delle opinioni avverse! E il popolo, sovranamente prono davanti a mademoiselle louisette, vede cader nel sanguinoso paniere un giorno le opinioni legittimiste e trionfar sulle picche le insegne della sedizione, un altro giorno vede andar giù le teste dei rivoluzionari girondini e sollevarsi altezzose quelle dei giacobini, ma giunge anche il giorno in cui, in quel paniere, vengono soffocate nel sangue le repubblicane e democratiche opinioni dei maggiori capi giacobini, quelli per la cui gloria era stata decapitata, facendole indossare la veste dei parricidi, la giovane vergine Cécile in cerca del suo Re.

 

    Très bien! Ma la louisette è ormai une vieille chose, une curiosité, e la democrazia e la libertà per trionfare non han più bisogno di quel macabro attrezzo. La “liberté” oggi è maturata, è più particolarmente “liberty”, anglicizzata; anche ai fini, beninteso, dell’esportazione, “liberty, equality and fraternity” suona più dolce, non ha più quell’arrogante risonanza nasale. Eppoi, oggidì, la libertà d’opinione s’identifica con il globalmente accolto politically correct, ch’abbraccia le opinioni di tutti, giacché son passate e ripassate al setaccio tivvudico. La crivellatura tivvudica è eccellente, ineguagliabile . . . Ah, ah! ah! siam tutti eredi della rivoluzione francese, ma il progresso e i nuovi mezzi tecnici ci aiutano a correggerne i difetti . . . e il padiglione auricolare del popolo non è più solo quello di Piazza della Concordia a Parigi, ma è un padiglione ingigantito, immensurabile, è l’orecchio dell’intero globo terrestre, orecchio democratico per eccellenza; è il grande orecchio tivvudico!

 

   Vogliamo, gentili amici e lettori, per un istante e tutti noi insieme immaginare che il buon popolo d’Italia, tutti i nostri fratelli, stacchi il suo orecchio e distolga il suo occhio da quel demoniaco, perverso, insopportabile apparecchio? Oh, di colpo l’animo italico s’affrancherebbe dall’indolenza riacquistando l’avito vigore! Liber et vagus, ogni animo rifulgerebbe a un tratto nel solar raggio di Liber Pater, primus auctor triumphi; e la spettralità di tanto torbido rivoluzionarismo e gauchismo pervertitore si frangerebbe svanendo nel nulla delle sue infere ombre; parimenti nel nulla, quel riflusso di barbarie che tutti i democratismi e i regimi democratici hanno ereditato, e fino ad oggi, dal grave momento della crisi dell’Ancien Règime, crisi che disgraziatamente si materializzò, come descritto, in una dissennata sedizione.

 

    È altresì vero che il rivoluzionarismo nostrano si presenta ultimamente in forme caricaturali e di sovente grottesche, dai grillons de la gauche e russoiani smancerosi, ai tanti flatus vocis: marxiani, leninisti, trozkisti, castristi; dall’impegno bolscevizzante dei nepoti d’una partigianeria incartapecorita, alle piazzate sardellesche, è tutto da ridere, ma non meno insidioso e rischioso per l’animo della nostra cultura e per la nostra civiltà (che malgrado tanta rabbia distruttiva ancor resiste) di quel che fu il rivoluzionarismo francese di fine ‘700. Questo rivoluzionarismo italiota così straneo e inconcludente, mostruoso e innaturale, travia la gioventù, la sradica dalle sue radici, l’abbandona a bassi, ignobili istinti, ne stravolge la mente che asservisce al nullismo. E per quanto si presentino intelligenze vive, giudiziose e riflessive, non par che intravedano il vero giusto cammino, perdono il tempo in discussioni inutili, si proiettano del tutto all’esterno e catturati nel loro egoismo, rischiano il rammollimento democratico; non riuscendo a concentrarsi nella realtà d’una esperienza interiore, soccombono al materialismo, s’adagiano nel conformismo. Poi, sinistroidi in sinistrese o destroidi sinistrati, libretto rosso o rosarietto è un solo siparietto, e giulebbe e moine democratiche: effetto grillons de la gauche! E comici, ormai covidioleschi, battibecchi tivvudici. Olà, fermi tutti!

 

     Della Grosse Revolution non son riusciti a farne la grande epopea del popolo di Francia; fu un moto e un sollevamento, in effetti borghese e guidato da intellettuali sediziosi, che fallì del tutto nella realtà politico-sociale; ne profittò un geniale militare e su quel fallimento costruì la sua monarchia e il suo impero.  Ma la spettralità che ne discese e che fu nutrita di tanto sangue, anche di sangue innocente e d’un regale supplizio, affermata in più con il tetro allestimento cerimoniale d’una macabra spettacolarità di lunga durata, quella spettralità rabbiosa e inquieta di un dissennato rivoluzionarismo ancora s’aggira per il mondo, a cagion del culto che l’ideologia democratica e i regimi democratici, suoi epigoni, le riservano. Una vera e propria idolatria. Contro questa idolatria deve operare la nostra rivolta ideale. Operare, per il ritorno dei valori e dei modelli originari, nel raggio della verità, alla cui luce scompare la menzogna ch’è raggiro, calunnia della realtà, allontanamento dell’uomo e dei suoi culti dalla scienza delle cose divine ed umane.

 

   L’accusa di fiacchezza e di indolenza lanciata ai suoi tempi da Vittorio Alfieri è quanto mai oggi appropriata a questa democrazia che mal regge le sorti d’Italia (e quindi del mondo), al pecorume che vi s’adagia, al servitorume tutto genuflesso e supino al “vuolsi così” et cetera dell’american liberalism, ed in ossequio a “La Liberté-Liberty che illumina il mondo”. Non scordatevi, gentili lettori, di quel famoso viaggio, dalla Parigi rivoluzionaria alla baia di Manhattan, del colosso di pietra su basamento di granito: il tamas della falsa libertà.

 

    Anche a Cartagine si può immaginare, ma pare ci fosse davvero, un colosso di pietra in riva al mare, che con una torcia richiamava a sé le navi solcanti le incessanti rotte commerciali, quel lucroso potere che fondava il suo impero marittimo. Troppo sfidò, e corrosa dalla salsedine e dai marosi, spossata, scomparve poi nei rischiosi frangenti della storia. Ed ecco ritornare il monito dantesco, ritorna stavolta deciso e solenne: “Vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole . . .” E tu, grasso cupido barbaro mercante che, dispregiata la tua origine hai commesso l’assassinio orrendo, tu che non hai luminosa storia, non ti crucciare e non dimandare altro.

 

 

 mercoledì, XXII di luglio dell'anno duro

            sotto l’artiglio del leone