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A U G U S T A L I

                                             

 

 

 

A U G U S T A L I

 racconti agostani

 

 

 

 … caput Orion excelso immersus Olimpo …

 

Subsequitur rapido contenta Canicula cursu,

qua nullum terris violentius advenit astrum

nec gravius cedit.

                                          Manilio -Astronomica

 

 

   Populus Romanus a rege Romulo in Caesarem Augustum, septingentos per annos, tantum operum pace belloque gessit, ut si quis magnitudinem imperii cum annis conferat, aetatem ultra putet. Ita late per orbe terrarum arma circumtulit, ut qui res eius legunt, non unius populi, sed generis humani facta discant. Nam tot laboribus periculisque iactatus est, ut ad costituendum eius imperium, contendisse Virtus et Fortuna videantur.  Il popolo romano dal re Romolo a Cesare Augusto per settecento anni compì tante imprese in pace e in guerra, che se qualcuno raffrontasse il numero degli anni con la grandezza dell’impero, crederebbe trascorsa una più lunga età. Portò così lontano le armi per l’Orbe, che leggendo le sue gesta par non d’un unico popolo si apprenda la storia, ma dell’umano genere. Difatti dovette sostenere tante fatiche e perigli, che per costituire il suo impero sembra siano stati in gara Virtù e Fortuna”.

 

   Così inizia l’Epitome di storia romana composta da L. Anneo Floro, contemporaneo dell’imperatore Adriano, il cui stile semplice ma commosso lascia nell’animo del lettore una immagine indelebile del Popolo che ebbe a esercitare sulle genti un imperio civile rimasto sino ad oggi insuperato, imperio di giustizia e di costumatezza, imperio di Verità; modello secolare, che in questi tempi ultimi, bui e pervertiti, si tenta di falsificare e di ridurre all’oblio, ma permane e durerà orma indelebile nelle coscienze oneste e nelle menti deste. Potrà capitare ai lettori di leggere che “la prosa di Floro è una esaltazione retorica ed enfatica del valore di tutto il popolo romano”, et cetera; trattasi di quelli che dicono bene e celebrano servilmente l’imperialismo mercantile atlantista, soprattutto quello di marca yankee, cioè una oligocrazia di pistoleri atomici esportatori di democracy, l’ideologia calappio, epperò apostoli essi stessi d’artifici e lusinghe. Democratizzare! Atomic bomb, bomb, bomb . . . okay, okay! Per render il mondo più democratico, more democratic, all right! E non manchi l’assiduo cannoneggiamento tivvudico e in più un’intensa bacterial-virological fucileria per rendere il mondo sempre più democratico. All right! Costoro han perso la ragione, che accanimento! Sarà difficile farli rinsavire.  Imperturbabili, quindi, proseguiamo per la nostra strada!

 

   Torniamo alle gesta dei romani. Sottrattisi alla tirannide e alla deleteria influenza etrusca, così Floro: “Liber iam populus Romanus, prima adversus exteros arma pro libertate corripuit; mox pro finibus, deinde pro sociis, tum gloria, et imperio, lacessentibus assidue usquequaque finitimis . . . Il popolo Romano ormai libero per prima cosa prese le armi in difesa della sua libertà dagli estranei, poi per custodire i propri confini, quindi per sostenere gli alleati, inoltre per prestigio onde accrescere la propria influenza, mentre i vicini con ostinazione e dappertutto non cessavano le provocazioni. . .”.  Con un lessico semplice ma essenziale l’autore ci fornisce significativi dati sul popolo Romano, in quel tempo.  Si evidenzia la facoltà d’un velle determinato ad un intento civilizzatore, la scelta di conseguire la propria maniera d’essere, anche sul piano storico, attraverso il nobile compito di incivilire e dirozzare le genti, di sottrarre gli uomini e i popoli ancora in grado di esprimere la “buona volontà”, cioè un loro libero carattere, all’irreparabile regresso e imbarbarimento in cui il mondo precipitava; eran tempi quelli non dissimili dal presente tempo triste e buio. Adversus exteros arma pro libertate corripuit; mox pro finibus: quella suprema volontà e quel primato civilizzatore, manifestazione di alta consapevolezza e di un’intima realizzata libertà, richiedeva saggiamente il sostegno d’una difesa armata di tali imprescindibili beni dello Spirito, tutela da condividere lealmente con i propri alleati. Difesa dalle insidie delle extimae gentes, quelle più estreme, più remote dalla umana magnanimità, turbe superstiziose, atee, smodate, distanti dal divino, le genti non libere, asservite al disordine. E contro gli externa l’uomo integro ha sempre da combattere per salvaguardare l’interna giusta volontà, sostegno d’olimpia consapevolezza, libertà vera, contro l’assalto della materialità e i suoi mondani vantaggi, viciname ostinato che mai cessa le provocazioni; ininterrotta vigilanza dunque contro l’affronto del materialismo e dell’edonismo, del libertinaggio e la licenziosità del vicino etrusco; nel tempo d’oggi il cosiddetto “libero pensiero”, ma in sostanza sempre dispotico, oggi come ieri. Tale fu la via romana all’affrancamento dagli egoismi e dai vizi, per conseguire le uraniche virtù e il romuleo valore; tale la disciplina del popolo quirite.  I figli di Liber pater, i liberi, non potevano né indietreggiare né ritirarsi, ma solo andare avanti, perché il Padre Libero fu sempre considerato il primus auctor triumphi.

 

   Del tutto comprensibile è quindi, riandando alla vibrante notazione di Floro, che il mese di agosto, il mese del sole dalla fulva giubba leonina, è un mese di feste a gran partecipazione di popolo e che proprio l’inizio del mese, le calende, sia segnato dai festeggiamenti a divinità della Vittoria. Victoria e Victoria Virgo i cui templi erano sul Palatino, e Spes il cui tempio nel Foro Olitorio fu votato durante la prima guerra punica, e ancora la dedica di un tempio a Mars Ultor, Marte Punitore, il dio che fa Giustizia, voluto da Augusto dopo la battaglia di Filippi. Giorno festivo anche perché si celebrava la caduta di Alessandria e la vittoria sull’ambiziosa Cleopatra, colei che aveva attratto l’infelice Marco Antonio nel suo sogno calamitoso di fare dello Stato romano, RES UNIVERSA, una monarchia orientale a cultura afroditica.

 

*

 

   Risaputa è l’invettiva dantesca, “Via costà con li altri cani!”, che il poeta nella barca sul fiume Stige fa pronunciare da Virgilio, il romano vate, contro un iracondo ivi dannato; ancora più nota è la raffigurazione dipinta o a mosaico d’un cane alla catena con la scritta “cave canem”; famosa quella posta su un mosaico all’ingresso d’una casa negli scavi archeologici di Pompei. Indizi codesti del dispregio in cui i latini avevano il cane; canis immundus precisa Orazio nell’epistola a Lollio, libro I, e obscenaeque canes insiste Virgilio nel I libro delle Georgiche; ma animale sgradito anche per il patente tralignamento dal suo antenato il lupo. A Roma, inoltre, proprio in agosto, il tre del mese, avevan luogo i supplicia canum: “De anserum honore, quem meruere Gallorum in Capitolium ascensus deprehenso, diximus. Eadem de causa supplicia annua canes pendunt, inter aedem Iuventatis et Summani vivi in furca sabucea armo fixi”. Narra Plinio il Vecchio che sul tributo di stima che le oche meritarono per aver sventato l’assalto dei Galli al Campidoglio, egli ha detto in precedenza; aggiunge che, per lo stesso motivo, i cani espiano supplizi annuali, fra il tempio di Iuventa e di Summano appesi vivi sulla forca a un ramo di sambuco.

 

   È d’uopo ricollegarsi a Tito Livio e al suo Ab Urbe Condita, capitolo 47° del V libro; ivi lo storico racconta del grave pericolo corso da Roma durante l’assedio dei Galli, che avendo scoperto come scalare la rupe del Campidoglio, s’accinsero all’impresa con il favore della notte e il grande silenzio; e stavano per passare inosservati, “ut non custodes solum fallerent, sed ne canes quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris Iunonis in summa inopia cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit, namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante consul fuerat, vir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens vadit . . . che non solo elusero le sentinelle, ma non scossero dal sonno neppure i cani, animali guardinghi ai rumori notturni. Non evitarono però le oche, le quali, sacre a Giunone, ci s’asteneva dal toccare, pur nell’estrema scarsezza di viveri. E da qui venne la salvezza; infatti, risvegliato dal clangore delle oche e dallo strepitio delle loro ali M. Manlio, che tre anni prima era stato console, uomo in guerra valente, mentre afferrava le armi, andava chiamando alla pugna i restanti . . .”.  E così furono respinte le temerarie torme dei Galli, che saranno poi sconfitte e distrutte dall’esercito Romano, al comando del dittatore M. F. Camillo. Alcuni storici moderni, intransigenti scientisti, suppongono che trattasi di leggenda; non vogliamo toglier nulla al fascino del leggendario, tuttavia siamo con Livio che ritiene l’intervento delle oche un fatto storico, d’altronde il nostro scrittore non ha peli sulla lingua quando sospetta l’immaginario.  All’incirca nove secoli dopo il retore bizantino Giovanni Lydus nel suo De mensibus, del 550 e. v. o poco più, riguardo alla giornata del tre agosto ricorda che i cani venivano puniti a Roma in quel giorno, perché “lasciandosi prendere dal sonno avevano tradito il Campidoglio, intanto che le oche, vegliando, lo avevano salvato”. Ma se vogliamo considerare il fatto con più sottile minuzia, lo strano, ovvero la singolarità non è tanto nell’allarme dato dalle oche, trattasi di uccelli molto vigili, ma nel sonno della sentinella e dei cani, soprattutto dei cani. Ci si può lecitamente chiedere perché l’istinto di quegli animali, così attenti nella notte a percepire i rumori sospetti, e il subconscio del milite, tenuto al dovere di sorveglianza, abbiano obbedito all’intento del nemico. Non è da escludere che sciamani o stregoni al seguito dell’esercito dei Galli ebbero ad operare malefici o cerimonie incantatorie druidiche, al che rispose l’istinto di chi era propenso al tradimento. La sentinella infedele fu immediatamente giustiziata, e fu stabilito di punire i cani con l’annuale supplicium del tre agosto. In quel giorno le oche invece ricevevano il meritato tributo di stima, come ricorda Plinio il Vecchio e come tramanda anche Servio, Ad Aeneidum, VIII, “tutte adornate di oro e di porpora venivano portate in processione”.  Una processione gioiosa e marziale al contempo, che procedeva a passo d’oca e al suono delle tube che emulavano il clangor anserum.

 

   Il clangor anserum in versione tubarum ben interveniva con eco superna nel tumulto della battaglia che si svolgeva sotto i vessilli dell’aquila legionaria, l’aquila romana con la folgore tra gli artigli. Infero, tartareo, spesse volte doveva risonare il latratus canum tra le torme barbare sulle cui insegne mai svettava l’aquila, l’uccello di Iuppiter, il Cielo padre. Quei barbari dal morso e dall’urlo lacerante, cagnesco!

Al tempo dei fatti testé narrati i Romani chiamavano anser quell’uccello sacro a Iuno, aura del Cielo, l’Aere; uccello che più tardi, nel linguaggio basso latino sarà auca, precisamente da avica e cioè dal latino classico avis=uccello, e da auca nel latino d’oggi oca; quindi auca-oca, l’uccello per eccellenza.  Nessun tempo può, potrà togliere ad essa il merito del Campidoglio.

Con il Marte romano non si scherza, la miglior nobil parte della Storia di Roma è vicina ai suoi Misteri e chi ha buona volontà e mente sveglia di combattente può apprender tanto anche dall’evento guerresco che coinvolse gli anseres e i canes del Campidoglio.

  

   Ed ora affidata la vigilante auca e le sue linde piume al memore fluire delle acque e le anserine grida al desto aere mattinale, diamo alla nostra scolta interiore la ferma consegna di mai disattendere, in tanto tenebrore, nell’osceno chiasso, nel rovinio di quest’infida età, il consiglio aulico dei Padri che in antico risuonò fulgente nel bosco sacro: “Qui è luce: intangibile, numinoso è il silenzio. Apprezza, ama, onora il silenzio, vivrai nella luce!”  E con versi concisi così esplicitava Orazio ai tempi del buon Augusto, Epistole, libro I, 6: “[. . .] Vis recte vivere, quis non? / Si virtus hoc una potest dare, fortis omissis/hoc age deliciis. Virtutem verba putas et /lucum ligna. . .”  Se coltiviamo dentro di noi una stretta familiarità con il silenzio, se di esso facciamo il nostro contubernale, facile ci sarà rinvenire la voce antica, il carme che celebra i Saturnia Regna; schietto e puro giungerà al cuore, vivo alla mente il richiamo della Patria antica, ch’è anche la Patria nuova, di oggi, e insieme ai compagni di tenda porremo mano all’opera della concordia e della ricostruzione; purché non venga nemmeno ignorato il monito che ci giunge dall’età augustea attraverso i versi di Flacco: “Vuoi viver bene, nella giustizia? È tempo di darti alla virtù e, vinti i vizi e l’egoismo, opera! ché la virtù non è soltanto una parola, come un bosco sacro non è legna da ardere.”

 

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   “Ogni anno, il cinque di agosto, si effettuava sul Colle Quirinale un solenne rito in onore di Salus, la Salus Publica Populi Romani”. Così termina il nostro scritto intitolato ‘SALUS’, su questo sito alla pagina ‘L’INAUDITO PLAUSIBILE - Continuat iter’, di esso suggeriamo la lettura ai cortesi lettori, vi troveranno la narrazione di fatti, avvenuti nella Roma antica, per niente dissimili dagli eventi che si attraversano oggi in quest’anno duro e pestifero. A quei tempi, nei tempi di Roma, quando saliva al Campidoglio il Pontifex Maximus seguito dalla Vestale e sul Quirinale s’ergeva il tempio a Salus Semonia, e quindi era garantito all’Urbe l’augurium salutis, sacerdoti esperti e accorti governanti, scoperto che il morbo era annidato nel culto orgiastico e corrotto di mode straniere, oltre che nella perfida disposizione d’animi corrotti  e asserviti ad un’aggregazione nociva, e che si attentava al mos maiorum, senza indugi con l’adhibitae religionis auctoritas, cioè con l’assenso del Cielo Padre e là dov’era stata infranta applicando il rigore della legge, ristabilirono l’ordine nella natura rerum e nell’intera civitas. Vinto il nemico interno, fu la salvezza; difatti Salus andava a congiungersi con Spes e Victoria celebrate alle calende come sopra detto. Racconta Livio che il Tempio di Salus fu votato dal console Gaio Giunio Bubulco durante la guerra sannitica nell’anno 311 e che poi lo stesso nell’anno 302, al tempo della sua censura ne appaltò la costruzione. Lo stesso Gaio Giunio, nominato dittatore per fronteggiare l’insurrezione degli Equi e avendo riportato la vittoria al primo scontro rientrato a Roma in trionfo, inaugurò il tempio alla Salute. Il Tempio fu inaugurato sulla parte del colle che già veniva chiamata collis Salutaris e dove verosimilmente veniva celebrata Salus con il nome di Semonia, colei che custodisce la salute del seme, ch’ è la salute stessa del seme, di ogni seme, umano, animale, vegetale, minerale. Se guasto e corrotto è il seme, compromesso è il frutto. E se ne può anche fare un uso traslato; una ideologia, per esempio, che semina discordia, diffusa oggi dovunque tra gli uomini. Era, perciò, ufficio degli augures a Roma augurare la salus del popolo per assicurare ad esso l’azione benefica della divinità. Cicerone, de legibus, libro II, c. VIII, § 21: “i sacerdoti facciano pronostici per i vigneti, le vincaie e la salute del popolo, quelli che si occupano di contese o deliberazioni per il popolo, consultino gli auspici e li osservino; [. . .] tengano purificati e consacrati le città, le campagne, i templi. Tutto ciò che l’augure avrà dichiarato iniquo, nefasto, irrituale, di cattivo augurio, sia privo di effetto e come non fatto”. Tanta cura vigeva a Roma, da parte dei Patres e del loro governo nella mansione religiosa e civile, a presidio e tutela del Popolo quirite! Quel popolo che tantum operum pace belloque gessit, come scrisse Floro.

 

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             Liber pater idem ac Sol,

  Mars vero idem ac Liber pater.

 

 

   Apollo, salito sul carro, spinse il volo dei cigni alla volta degli Iperborei. Gli abitatori di Delfi appena ciò appresero, subito composto e messo in note un peana, eseguite danze di giovani intorno al tripode, invocarono il dio onde facesse ritorno dagli Iperborei. E lui, dopo aver proferito responsi per un intiero anno tra gli uomini di quei luoghi, allorché stimò giusto il tempo di dar voce anche ai tripodi di Delfi esortò i cigni a volare indietro dagli Iperborei. Ebbene era l’estate, giusto la mezza estate, quando Apollo s’ allontanò a dir d’Alceo dagli Iperborei… (Alceo, fr.142 – lyrica gr.sel.)

 

 

Cessata in Sicilia la guerra contro Sesto Pompeo, valorosamente condotta da M.V.Agrippa e per cui  questo duce meritò la corona navale della quale mai alcuno era stato prima insignito, racconta Velleio Patercolo: “Victor deinde Caesar reversus in Urbem, contractas emptionibus complures domos per procuratores, quo laxior fieret ipsius, publicis se usibus destinare professus est, templumque Apollinis et circa porticus facturum promisit, quod ab eo singulari extructum munificentia est. Tornato quindi vincitore a l’Urbe, Cesare fece sapere, dopo aver acquistato tramite procuratori molte case per ampliare la propria, che le destinava al pubblico uso, e promise che avrebbe edificato un tempio ad Apollo tutto attorniato da portici, tempio da lui innalzato con straordinaria munificenza”.

   Quindi sul Palatino, dopo il triplice trionfo augusteo, che aveva posto fine alla sciagura delle guerre civili e ai pericoli che minacciavano la romanità dalle fatalistiche sponde del neghittoso Oriente, venivano spalancati gli aurei portici di Febo dal grande Cesare; con solare operato Ottaviano Augusto aveva procurato a Roma la salvezza e donato salute e pace al popolo romano. Tale il significato del tempio augusteo, difatti Apollo è il sole e il padre Libero è lo stesso che Apollo, nulla ex his dubitatio sit Solem ac Liberum patrem eiusdem numinis habendum (Macrobio).  Ancora in “I Saturnali”, Macrobio riporta che anticamente i padri chiamarono “Apollo la facoltà divinatrice e il potere curativo del Sole, mentre quella proprietà che presiede al linguaggio, sermonis auctor, ebbe il nome di Mercurio”. Orbene lo stesso dio è a un tempo anche il promotore e “il garante della salute pubblica, poiché il Sole la dispensa agli esseri viventi con giusta proporzione e regolarità del clima”. Compiuta corrispondenza dunque tra il Palatino e il collis Salutaris, il Quirinale: salute del corpo e dell’animo, mens sana in corpore sano, vis vitalis e salute intellettiva; e soprattutto, con parole di Cicerone, animi magnitudo ac robur; vis Solis, la potenza del Sole: VIS ET AMOR.

 

    S. P. Q. R. –  Il senato e il popolo romano dei Quiriti – in UNO – il concorso delle volontà, il consensus omnium, una comune coscienza giuridica e quindi la unità degli intenti nella continuità; con espressione tacitiana, nec tam vocis quam virtutis concentus, non vane o false chiacchiere ma un concento di virtù e valore, la concordia S A L U S.

 La SALUS PUBLICA POPULI ROMANI.

 

    Phoebe silvarumque potens Diana, l’inizio del Carmen saeculare, del carme del Palatino! “Alme SOL, curru nitido” del Palatium, et SOL Indiges del collis Salutaris con il corteggio dei Semoni e della divinità benefica di Ilizia, Lucina o Genitale, la Semonia Salusla custode del seme vivente, che aveva il suo tempio accanto a quello antichissimo d’un antichissimo Dius Fidius, il cui daimòn Semo-Sancus era il sovrumano custode e garante della Fides di quelle antiche genti; invero la fides non può fare a meno della salus  salus privarsi di fides. Sono sani, saldi e salvi, quei popoli che coltivano la fides dalle loro radici, che traggono linfa vitale dalla ferma fiducia che nutrono in sé, non smarrendo le loro scaturigini, ma custodendo di generazione in generazione il proprio daimòn, il principio dell’essere, il proprio dio.

 

    Toh! ci siamo scordati del vate, proprio di colui che scrisse il Carmen voluto da Augusto e recitato sul Palatium durante i ludi saeculares! Ci siamo dimenticati di Orazio che nella sua ode, XXXI del L. I°, dedicata ad Apollo per l’occasione dell’inaugurazione del tempio, si domanda: “Cosa mai potrà chiedere un vate al tempio or consacrato? Cosa, mentre sull’altare versa dalla coppa il vino nuovo?”  Ed afferma che non chiederà ricche messi, non mandrie o armenti, non avori o l’oro dell’India, non campi o vigneti; né berrà dolce vino in auree tazze come il ricco mercante che sfida le onde dell’Atlantico. Lui, Orazio, si nutre d’olive, di cicoria e di malve leggere. Chiede perciò ad Apollo di poter usufruire sol di quei frutti, e prega sia così con lucida mente, onde non avvenga che una sconcia vecchiaia gl’involi la cetra, nec turpem senectam/degere nec cithara carentem.  Il poeta romano non brama beni materiali né diletti, bastante un parco desinare; ma aspira ad una dignitosa vecchiaia, integra cum mente, perché mai gli possa mancare il suono della cetra, mai accada, cioè, che in lui venga meno la sapienza apollinea; di questa buona salute implora il dio.

 

    E non vogliamo neppure trascurare i nostri gentili lettori, gli amici e conoscenti ai quali preme la sorte dei loro cani; nulla da rincrescersi e nulla da compiacersi, insomma nulla da dire se non trattateli bene, ma senza dimenticare il bastone o la catena, se necessario, e senza maltrattamento. A ristoro dei nostri lettori, conoscenti e amici cinofili, e per farci da loro perdonare quanto da noi raccontato in questo scritto (avverso il cane?), diremo subito che da parte nostra abbiam sempre trattato bene una femmina di cane lupo che la sorte ci aveva affidato e che quando essa, ormai vecchiotta, è scomparsa andando a morire lontano, le abbiamo dedicato financo un poetico necrologio. Per quanto attiene alle usanze romane di punire il can-traditore, siamo pienamente d’accordo con il Quirite a non ritenere il cane un animale simpatico al padre Marte, che preferiva esser celebrato con il clangor anserinus delle tube e non con il latratus canum. Ma c’è di più; gli amici cinofili saranno contenti di sapere che, fuor dal Campo Marzio, anche i Romani manifestarono un cospicuo interessamento per alcune razze di cani. Orbene, affinché ancor più s’infittisca il mistero, e senza minimamente pretendere di riempir di stupore la mente di amici e lettori, appressiamoci a leggere alcune righe del ‘Res Rustica’ di Lucio Giunio Columella, scrittore latino di culture agrarie, appena decenne quando nell’agosto del 14 e.v. Ottaviano Augusto moriva, e precisamente al § 12 del VII capitolo leggiamo: “Nunc ut exordio priore sum pollicitus, de mutis custodibus loquar, quamquam falso canis dicitur mutus custos. Nam quis hominum clarius aut tanta vociferatione bestiam vel furem praedicat quam iste latratu, quis famulus amantior domini, quis fidelior comes, quis custos incorruptior, quis excubitor inveniri potest vigilantior, quis denique ultor aut vindex constantior? Quare vel in primis hoc animal mercari tuerique debet agricola, quod et villam et fructus familiamque et pecora custodit. Adesso, come ho promesso nel precedente trattato, parlerò dei muti custodi, sebbene sia un errore definire il cane muto custode. Qual uomo denuncia così distintamente e con tanta risonanza, come con il latrato fa costui, l’intrusione d’un animale selvatico o d’un ladro? Qual servitore è più affettuoso con il padrone, chi amico più fedele, più integro custode, in chi trovare più vigilante sentinella, più deciso vendicatore e punitore? Giusto questo è l’animale che l’agricoltore deve anzitutto comprare ed allevare, perché gli custodisca la villa e i frutti, i servi e il bestiame”.

 

    Se vi rende tali utili servigi, abbiate cura del vostro cane e dategli da mangiare, il cane non è un animale libero, è per soddisfare la fame che sopporta il servaggio e la catena. Detto questo, non trascuriamo il monito antico “cave canem”, attenti al cane! Teniamo d’occhio il cane, vigiliamo sul cane!

 

     E a tutti, buon fin d'estate.

 

. . . Orione il capo immerso nell’eccelso cielo . . .

 

Gli è alle calcagna il Cane teso in travolgente corsa,

di lui più furente nessun astro sopraggiunge alla terra

né più gravoso ripiega.

(originale in epigrafe)   

 

        

saturdì, XXIX di agosto dell'anno duro