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AESTAS - IL CANTO DE LA CANICOLA

                                                

 

 

A E S T A S  -  I L  C A N T O  D E  L A  C A N I C O L A

 

  

 

 

Sì! estatiamo, fuggiamo l’asfalto, il cemento, lo smog;

estatiamo nell’aria salubre!

Fuggiaschi dal disordine, dalla confusione covidiolesca,

dal chiacchiericcio tivvudico,

tutto questo lasciamo alla siesta e al sonnellino,

 noi, sub imperio leonini unguis,

affidiamoci al gran rugghio

che sbrana le masse inerti dei covvidianti;

e, desti, procediamo attenti

al fremito alto, superbo della fulva giubba,

la bionda rosseggiante giubba

che viva splende, rifulge ed acceca

la stanca pupilla del borghese,

l’occhio sbieco del mercante.

Scampagniamo lungo i campestri viali alberati,

sui selvatici erbosi sentieri,

siamo nel colmo dell’Estate!

Scampagniamo lungi, nei cieli ardenti . . .

Oh, come brucia! brucia le dita il sole!

Addentriamoci nella natura; partecipiamo

alla sua gioiosa liturgia arborea, rupestre,

liturgia delle messi nei campi distese; prendiamo parte,

amici fedeli, al più antico degli antichi cantari,

dell’Estate al poema immortale!

A quel canto che non dà tregua, arduo, maestoso, obbligante,

al canto delle cicale, bruciamo gl’inquieti pensieri,

inventiamo, qui e ora, anche dentro di noi l’antico poema!

 

   E tu, che ci accompagni, libero va’!  Ricerca la mitica sorgiva,

la segreta, antica sorgiva . . . le dolci, fresche, chiare

acque che rigenerano e rivivificano, in uno, la triplice vita.

 

 

 

 

FESTEGGIAMO LA CALDA STAGIONE, LA STAGIONE DEL SOLE

 

 

 

 

 

 

 

IL RACCONTO del VENTILABRO

 

 

senza sosta tra il fogliame frinivano le cicale

 

   Quando già fiorito è il cardo e la pertinace cicala, ascosa tra il fogliame, il canto monocorde di sotto l’elitre espande, nei dì estenuanti dell’estate è anche il tempo delle capre ben nutrite e dell’ottimo vino; voluttuose in tale stagione le femmine e i maschi sono svogliati, fiacchi per la calura, difatti Sirio infuria, capo e ginocchia dissecca e la pelle s’inaridisce. Qual godimento allora una grotta ombrosa e un vino di vite isolana, il Biblino volendo, una saporosa focaccia impastata con la panna e buon latte di capre che han divezzata la prole e carne di vitella che non ha ancora figliato, o d’agnella; assiso nell’ombra, con un sostanzioso pasto appagata la fame, versati quel vino scintillante e porgi il viso al soffio brioso di Zefiro; a una chiara, fresca fonte dissetati, fa’ tre parti di quell’acqua e la quarta sia di vino.

     E si proceda a trebbiare il grano, di Demetra il sacro frumento; in luogo arieggiato lo si faccia, su una larga aia levigata, ché già è apparsa la forza di Orione; poi, con cura si riponga l’abbondante raccolto.

 

 

    Questa è la narrazione d’una estate al principio del VII secolo a.e.v. che abbiam tratto dalle Opere e giorni di Esiodo; è l’autentica narrazione d’un ambiente estivo in quei giorni lontani, Esiodo, infatti, fu il primo poeta greco a lasciare notizie autobiografiche in grado di trasmetterci anche i naturali colori e sapori d’una stagione direttamente vissuta.  E quando ormai l’estate sta per finire, Orione e Sirio son a mezzo del cielo, il poeta contadino invita a compiere l’opera del raccolto, occorre ultimare la vendemmia per infine versare negli orci gli allietanti doni di Dioniso, δῶρα  Διωνύσου πολυγηθέος. Ormai sono prossime al tramonto le Pleiadi, le Iadi e la possa di Orione; sta per giungere con il mese di boedromione la stagione dell’aratura.

 

    All’incirca cinquecento anni dopo, prima metà del III secolo a.e.v., di nuovo ci giunge, vissuto di persona dal poeta siceliota Teocrito, il racconto d’un giulivo giorno di piena estate. Nell’isola di Kos si celebrano le Talisie in onore di Demetra, la festa della fertilità d’ogni buona germinazione e del buon raccolto. Il poeta con due amici si recano a questo festoso incontro campestre, ospiti al banchetto offerto dai fratelli Frasidàmo e Antìgene in onore della dea per il ricco raccolto di frumento. In questo idillio VII, “Le Talisie”, il poeta racconta la bella gita attraverso un arcaico ambiente pastorale, ove godibile è l’affermarsi della natura, divina nell’apoteosi estiva, e gl’incontri e la gara canora con un sorprendente capraio, che al termine consegna il dono ospitale d’un bastone al favorito dalle Muse.  Giunti al luogo del banchetto, li accoglie il conforto di morbidi lettucci di foglie di lentisco e di vite recise di fresco, sul capo e tutt’attorno il refrigerio dell’ombra delle frasche di pioppi e ontani e dappresso gli zampilli e il garrulo scorrere d’una sacra fonte dall’antro delle Ninfe. Senza sosta tra il fogliame frinivano le cicale, rese nere dal sole; lungi il gracidar della rana tra i fitti intrichi dei rovi spinosi; e il canto dei cardelli e delle allodole, il gemer delle tortore; all’intorno e presso le fonti s’addensava il volo delle api dall’aureo splendore. Tutto fragrava delle dovizie dell’estate, tutto d’un pingue odore di raccolto. D’ogni lato ruzzolavano ai nostri piedi in abbondanza le pere, le mele e sotto il peso dei frutti le rame del prugno selvatico si piegavano giù, sino a terra. Allora togliemmo dalla stretta bocca degli orci i sigilli di cera, già di quattro anni. O Ninfe Castalie, che dimorate sul sommo Parnaso, forse che un vino di tal forza il vecchio Chirone offrì  in un cratere ad Ercole, nell’antro roccioso di Folo?  E Polifemo, quel forzuto pastore che visse un dì presso l’Anàpo, quello che feriva le navi con le rocce dei monti, fu convinto a danzare nella sua tana da un nettare tale, o Ninfe, quale fu quello che ci deste da bere quel giorno presso l’altare di Demetra, protettrice dell’aia? Lì sopra, sul suo mucchio, possa anch’io una volta piantare il ventilabro, e la dea sorrida, con le mani entrambe colme di mannelle di spighe e di papaveri.  

            

  Abbiamo voluto offrire a noi e ai nostri gentili lettori questi lieti racconti  di estati lontane che ci giungono da poeti, Esiodo e Teocrito, che in epoche diverse le vissero e ce ne hanno trasmesso, composto in versi veritieri, il ricordo. Ricordo di estati che entrano trionfalmente nel paesaggio, nella natura e nello spazio umano ove vengono solennemente festeggiate.  A questo punto, di certo, non ci risparmieremo la critica: “I soliti antichisti elegiaci; grattate, raschiate e sotto sotto scoprirete lo stampo del retrivo . . . vroom vroom vroom . . . piede sull’acceleratore, non ci perdiamo nel regresso, non ci giuochiamo l’avanzamento . . .” Hanno ragione, noi siamo di scorza dura; abbiamo in sospetto il loro progresso, che produce degrado, involuzione della cultura e dell’animo umano, che non dà buoni frutti, che causa una profonda depressione, determina addirittura il panico ed esibisce la nefaria spettacolarità d’un intero mondo in museruola. E se i bipedi preferiscono star l’uno di fronte all’altro con la museruola, in breve a guardarsi di sottecchi o persino in cagnesco, da parte nostra non ci sarà alcuna critica, alcun rimprovero, anzi ce ne serviamo per suggerire ai nostri amici di bagnar la stanca mente nella poesia di Esiodo e di Teocrito e, rincuorati da sì preclara Musa, di respirare la buona aria – aria! aria! –  aria estiva.

 

   Dopo aver precipitato nel lutto le agglomerazioni urbane, quelle più economicamente avanzate e tecnicamente attrezzate, e suscitato un morboso clima covidiolesco diffondendo angoscia, smarrimento e paura, soffocata la primavera nell’aspettazione popolare indebolita da tanto sgomento, il nemico della natura (gli odiatori di essa), che desertificandola isterilisce e svigorisce pur l’umana società, minaccia d’attoscare e oscurare anche questa estate nel pieno del suo rigoglio. Iattura che va scongiurata. L’uomo non può rinunciare ai frutti dell’estate, al pingue odore del raccolto. Una deità benefica accompagna e protegge l’opera dell’uomo, e quando l’uomo ne venera l’altare, la sua casa godrà delle dovizie estive, della fragranza del pane appena cotto. Le Talisie, l’idillio di Teocrito per la festa del raccolto, termina con un augurio che il poeta indirizza a sé stesso: “Su un ricco mucchio di frumento, il dono ferace di Demetra, possa anch’egli una volta (come avvenne in quel giorno d’estate sull’aia dei suoi ospitanti) piantare il ventilabro, sorridente la dea tra le spighe e i papaveri!” Il “ventilabrum”, il vaglio, pala larga di legno usata sulle aie per separare dal grano la pula, che veniva portata via dalla ventilazione. Augurio significativo, pregnante; l’augurio di giungere a possedere la virtù del giusto intendere e scernere, necessaria per riuscire a separare l’elemento prezioso dalle scorie infeste, la buona sostanza dalla fuffa, di saper distinguere il buon costrutto dal mal costrutto e quindi di voler tendere sempre all’operare bene. Per questo l’estate è preziosa, perché è la stagione che matura. Maturità è compimento e perfezione. Saggezza. Sì! l’estate è anche saggezza; non permetteremo che si rechi oltraggio alla saggezza.  Canteremo, dunque, l’estate!

 

    Un altro buon motivo per attivarci a salvaguardare l’estate dell’anno duro dall’oscena minaccia dei covvidianti (i commedianti del Covid) è che questa splendida estate accoglie in sé, integra, la combattiva primavera che l’ha preceduta. Pur con le sue lunghe piogge, le sue nebbie, la sua inaspettata tramontanina, abbiamo, da l’ineunte vere a l’extremo vere, subito ravvisato il nostro ver, la nostra primavera italica; e pur se sorpresi dalle dense brume e dal soffio dell’ Aquilone in luogo del ritorno di Zefiro, altrettanto ci han sorpreso le tinte vivaci delle fioriture, il turgore della vegetazione spontanea, dei boccioli, dei gigli; e poi, come non ammirare le belle rose colorite e dai petali soffici e sani, il lucido verde dei prati che brillava nei raggi del sole? Tutto molto lontano dalla funerea stagione del racconto tivvudico!  Noi rispettiamo il nostro genotipo, perciò non possediamo il maledetto apparecchio; non teniamo in alcun conto quella mostruosità, ne ignoriamo i protagonisti e la storia. Ma, cosa vera questa, ci siam meritati un lieto incontro con la esultante primavera dell’anno duro; per niente nientissimo luttuosa, felice, ferace primavera! E, ancora, la familiaretà con questa estate altera, maestosa, entrambe negate ai vili. Dell’estate eleggiamo gli abissi: i suoi abissi canicolari con ostinazione cantati dalle cicale; gli abissi siderali, oltre i firmamenti scintillanti di stelle al canto  vivido del grillo campestre; i suoi abissali crepuscoli che traboccano di luce, dall’immenso d’oceani d’ocra e smeraldo.

 

 

* * *

 

   Queste nostre itale terre furono ricoperte da abbondanti messi e dalla vite di Bacco che frutta il vino Massico; vi prosperano uliveti e armenti fecondi (gravidae fruges et Bacchi Massicus umor/implevere; tenent oleae armentaque laeta); hic ver adsiduum atque alienis mensibus aestas:/bis gravidae pecudes, bis pomis utilis arbos (qui operosa è la primavera e l’estate [compare] nei mesi non suoi [cioè persino d’inverno]; due volte restano pregne le pecore, due volte gli alberi danno ottimi frutti).  Alla lettura dei versi virgiliani si può rimanere attoniti, proprio come per lo scoppio fragoroso d’un tuono! Incredulità, esitanza . . . I versi d’un mago che evocano luoghi e stagioni incantevoli . . . Ma davvero? Erano così prospere e belle le nostre itale terre?  Sì! ma allora ancora esisteva l’augusto governo del mondo e gli uomini veri, perché il Cielo Padre estendeva su tutto il mondo la Patria Potestas e ne gioiva l’alma parens frugum e degl’avi la sempre vitale cultura, anch’essa, tal tradizione, nell’autorità del Cielo. Salutifera, proficua, quindi, la Patria Potestas si diramava, e per forti rami tra il popolo quirite, e tra i popoli, in completa concordia. Per conseguire tal necessità, per tal necessenoi sempre consigliamo di rifarsi all’IDEA ROMANAromulea arcaica, la sola custode del mistero della PAX AUGUSTA.

 

  Sonora risuoni quindi la virgiliana evocazione:

 

SALVE, MAGNA PARENS FRUGUM, SATURNIA TELLUS, MAGNA VIRUM

 

 

  E insieme, amici gentili, cantiamo l’estate! Dell’anno duro, allegri, cantiamo l’estate.

 

 

 

saturdì, I di agosto dell’anno duro

ai combattenti, ai buoni e ai forti