DE LEONE ET CANE

DE LEONE ET CANE
Voltai le spalle ai governanti,
quando vidi quel che intendevano per governare:
mercanteggiare e patteggiare con la plebe, per la potenza!
F.Nietzsche
Qui si narra d’un can sazio e pasciuto
che s’imbatté in un leon sparuto,
e schernevole dire gli rivolse:
̶ Ve’ che vistosa pingue schiena io mostro,
di che membruto petto m’avvantaggio!
Goder m’è dato di lunghi riposi,
indi l’uomo m’invita alla sua mensa,
e d’esso a par di buon cibo mi pasco.
̶ L’orrido ferro che l’obesa gola
cerchia e duramente preme, ahi! cos’è?
̶ Il compito di far la guardia ai beni
e alla dimora del ricco padrone:
vuolsi ch’ io ne sia il fido custode.
Giorni interi tu vai d’un pasto in cerca,
sempre affamato vaghi e nulla trovi.
Or dunque, su, affrettati e asservisci
il tuo collo alla provvida catena!
Ricco pasto ogni dì riceverai!
Un fremito d’orgoglio, ed il leone
con fiero cipiglio l’apostrofò:
̶ Va’, torna indietro, cane, e tienti al collo
turpemente la catena e pasci,
pasci in vil servitù cui porti affetto,
e nell’ infamia estingui ogni tua fame!
Io, sciolto d’empio servaggio, digiuno
torno ai miei boschi, con quel po’ ch’adugno.
Chi langue in servitù e se ne loda,
ogni scorno sopporta, le catene,
sin d’un padrone le bastonature.

La poetica favola, che qui si legge, dello scrittore latino Flavio Aviano (fine IV/inizio V sec. e.v) è tratta da un’operetta didascalica il cui dedicatario è il più famoso Teodosio Macrobio, spesso citato nei nostri scritti. L’autore sostiene d’aver composto le favole sull’esempio di Esopo ed altri, perché fossero d’ammaestramento al buon vivere, facendo pronunciare, giusto dagli animali, sentenze giudiziose e istruttive d’una morale adatta all’indole di ciascun lettore. Tra le sue quarantadue favole abbiamo trascelto questa per i nostri amici e lettori, perché ci è sembrata la più appropriata ad esprimere una figurazione dell’odierno volgar vivere. Nella libera traduzione, molto libera, che ne abbiam fatto, ci siamo sottratti al suo metro elegiaco, ma soprattutto al tono didattico-moraleggiante. Siamo, invece, deliberatamente scesi in campo affianco al leone, abbiamo condiviso la rispettabile ieiunitas, cioè la sua leonina sobrietà e semplicità, abbiamo ammirato l’asciuttezza caratteriale simboleggiata dal suo smagrimento, la sintesi ammonitoria del sonoro ruggito; ragion per cui nel racconto, voce nella voce, abbiamo inserito anche la nostra obiurgazione, una dura reprimenda, una totale riprovazione contro chi è disposto a pagare l’altissimo prezzo della rinuncia alla libertà, svendendo così la patria dignità e quindi anche la propria e dei propri discendenti, pur di soddisfare la ignobile ieiunitas, la concresciuta avidità, la canina famelicità che sopporta l’umiliazione della catena. Il sostantivo f. lat. “ieiunitas”, singolarità da considerarsi, ha sia il senso di “fame estrema, avidità” con quello anch’esso negativo di “secchezza, aridità”, che il senso opposto, e quindi positivo di “sobrietà, semplicità”, e ancora e sempre positivo di “asciuttezza” (per es. asciuttezza di stile). Questa osservazione vale a comprendere meglio il senso conferito nel testo alla parola “digiuno” (nel latino di Aviano è il qualificativo“ieiunus”),un senso traslato. Difatti il digiunare del leone, nella favola, è per l’appunto una configurazione della frugalità, ovvero di sobrietà, quasi ascetica austerità, che si contrappone all’infamante servilismo della famelicità del cane, configurazione anche questa dell’inettitudine dell’uomo che sprofonda nell’abiezione, in una condizione subumana di schiavitù. Il qualificativo “ieiunus,a,um, digiuno”, sia in italiano che in latino, può anche significare: ignaro, ignorante, manchevole, privo; mentre il sostantivo, maschile in italiano e neutro in latino, “ieiunum,ii, il digiuno”, indica soltanto l’astinenza dal cibo. Si è precisato quindi che il nostro leone non è mancante di cibo, è scarno perché s’adatta al vitto che trova e che riesce a procurarsi con il suo sforzo; che esser parco e tenersi lontano dagli eccessi è la sua virtù, e una connaturata virtù non si lascia corrompere. Il leone ha in sé la rispettabile ieiunitas, moderatezza, carattere e coscienza sufficiente a custodire la propria indipendenza di giudizio, la propria libertà; il cane della favola è invece l’ignaro, il privo di carattere, l’incontinente, lo smodato ch’è digiuno d’ogni nobile virtù, esposto ai raggiri d’una fallace libertà, in lui è connaturata una ignobile ieiunitas, famelicità e lussuria cagnesche. E quest’ultima oggi è la condizione dei più! La sventurata condizione psicosociale dei popoli, che si sono allontanati dalla prospera valetudine non avendo più riguardo alla propria salute, sicurezza e stabilità e che, trascurando il durevole, più non si tengono uniti alla terra e al cielo che li sostengono e li conducono per le eteree vie alla scoperta dell’infinità dei mondi, onde ogni uomo veramente “libero” possa ritrovare in sé stesso il proprio mondo perduto; ma, catturati in una degradante ieiunitas, s’abbandonano ai venti del fato, sopportando al collo la catena dell’ineluttabilità della sorte, che sempre tiene annodato il neghittoso che teme d’affrontare le fatiche occorrenti per trascendere la misera condizione egoistico- corporale, lo schiavo insomma.
Perge igitur nostris tua subdere colla catenis,
Dum liceat faciles promeruisse dapes.
Il distico di Aviano suona oscenamente impudico: “Affrettati dunque a sottomettere il tuo collo alle nostre catene, / acciò tu possa ottenere cibarie in abbondanza”. E anche qui, in questa penisola che all’estero chiamano vezzosamente Italietta, a milioni han piegato la cervice, tanto da impiantarvi dentro il covidiolismo più sfrenato ed evocare i fantasmi di tutte le pesti che nei secoli hanno afflitto l’umanità. Volete combattere la insorta depressione, l’abbattimento, la tristezza, l’ossessione tivvudica che vi assediano l’animo e turbano la mente? A sera inoltrata leggete Tucidite, Lucrezio e Manzoni, a scelta o uno dopo l’altro, e avvertirete immantinente un senso di sollievo, l’ossessione covidiolesca si dissolverà nella vostra mente, gli spettri tivvudici andranno in frantumi. Al mattino appena desti gettate via la museruola e respirate . . . respirate!
È una faccenda gassosa, una questione d’aria . . . aria, aria! In questo paese manca l’aria, asfissia per ogni dove, omologazione, pensiero unico, clericalismo gesuitico e vessatorio; la democrazia si sfalda, si sgretola, per poi democraticamente ricompattarsi in una tirannia al talco borato e ricomporsi nella visione beatificante dell’ateologismo tivvudico. E le ventate d’un covidiolismo sfrenato, diaboleggiante, provenienti da fronti opposti, e/o da Pechino e/o da Washington, spazzano il mondo intero, il Covidglobe, che ha preso a girare storto. Ventate di marcio, di putrescente, ventate mefitiche . . . Il vento del libertarismo che da fine ‘700 continua a soffiare, rinforzato soprattutto dalla fiatata nucleare dell’agosto 1945, che perdura nel tempo e si tramanda in un istintivo collettivo timore. Il libertarismo nucleare che sostiene le democrazie, ne cura lo sviluppo, e occhiuto più d’un Argo ne controlla l’accondiscendenza, cioè il passivo conformismo al prepotere di coloro che son dediti al guadagno eccessivo. Infatti, per accumulare ingenti guadagni e per avere a propria disposizione le necessarie risorse, il prepotere ha bisogno di popoli acquiescenti; sempre lo strapotere delle oligarchie finanziarie, coadiuvate dal potere clero-catto-christian-jewish, trova il suo fondamento nelle oclocrazie; non può fare a meno del plebeismo, è questa la ragion per cui i governi democratici, elezioni popolari o non, nascono dalle mene segrete, i raggiri e i maneggi dei corpi clericali e dei plutocrati. Il popolo sovrano (toujours plus condizionato dai mass media) e il suo governo, di cui son sovrani l’uno e/o l’altro creso, con la C maiuscola! E proprio lui, Creso, il boss che dal palazzo conduce l’ambaradan, fingendo d’aggentilirle, rinforza le catene, alla bisogna addirittura riesce a camuffarle. Una provvida epidemia influenzale, la si consolida e, poi, si promuove a pandemia universale; in tutte le orecchie rintocca la secolare nenia clericale: memento mori! Ciò mette paura, spaventa, atterrisce. Interviene la magnanimità governativa: il sovrano, ossia the devoted people, non tema, il governo ha preso tutte le misure, ha il controllo totale della sanitation. Ed ecco, si tratta d’un blando assaggio di tirannia, sanitary tyranny! Quando il diavolo, ovvero il tiranno ci mette la coda, si genera il covidiolismo; ne abbiamo parlato altrove.
E perché, si chiedono in molti, le democrazie non sono mai stabili? Ne abbiamo già discusso, ma stavolta vogliamo darne anche una spiegazione più illuminante, tratta dalla lingua dei padri latini; diciamo subito: traballano le democrazie perché mantenute da nimia potentia, cioè da un’eccessiva potenza; orbene i latini questa eccessività la ritenevano una perversa ‘sfrenatezza’ e giudicavano, quindi, tale abnormità come una impotentia, sostantivo cui era appunto attribuito anche il significato di prepotenza, violenza, abuso dispotico. Devianze quest’ultime che, mal operando con smodatezza, denotano l’incapacità di dominarsi; la incapacità di aver governo di sé stessi è, altresì, inettitudine a governare gli altri e l’altrui, peggio uno Stato; da ciò, ne discende e si manifesta la impotentia. Ecco, dunque, oltre a quelli testé accennati, il significato ultimo che definisce in toto il vocabolo ‘impotentia’: impotenza, incapacità, debolezza, fiacchezza. Ben si comprende che, questi ingannatori e raggiratori a cagione della loro corrotta natura, non possano essere valide guide e retti governanti; perciò essi hanno adottato e adattato, a loro uso e consumo, la ideologia democratica; tramite tal credenza politica, o meglio superstizione, e con l’opportuno calcolo di metodi svilenti, deprimenti, o addirittura disumanizzanti, viene predisposta la sprovveduta mentalità popolare, spogliata del patrio costume e ristretta in un viver plebeio, a tollerare ogni sorta di sciacallaggio. Insomma uno strapotere che, per il fatto d’esser troppo invadente, ossessivo, impositore, è un potere deviato, tarato, corrotto, destinato a rovina. Noi non auspichiamo rovine, ma il nostro sì all’inglorioso crollo del baraccone globalista e con esso alla fine di tanta baraonda libertaria. Verrà il giorno in cui i popoli ritroveranno sé stessi nel patrio ricordo, nella realtà d’una propria patria, nell’amistà di guide sapienti; allora cesserà questa perturbatio, questo scompiglio, tornerà il buon padre, Liber pater, e i suoi figli, i liberi. Il Cielo padre, che irradia la luce, che aduna i nembi e distribuisce la pioggia, che governa i venti e ha la vera scienza della navigazione. Sommo etere, l’aere e la terrestre vegetazione nutre, negl’esseri alimenta il principio della vita; è lui che semina, coltiva i campi e ne raccoglie i frutti. Afferma Virgilio: “Egli coltiva le terre, egli si cura dei miei canti.”, e Dante, “Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci.” Colui, quindi, che accende l’animo e illumina la mente, il Civilizzatore, il Padre dei popoli che, oltra il sovra sé, lo riconoscono e in sé stessi lo comprendono; numinosità del Cielo puro, severo, sereno, che, dall’intima invulnerata sede, si dii volunt, suggerisce e pronuncia il divino consiglio, e al sapiente, vir singularis, affida le visioni sublimi, quelle che dispongono l’animo ad un intento eroico e gli forniscono l’agire efficace, la voce autorevole, la parola veridica, per la ripresa dell’opera civilizzatrice. Il Padre, principium iustitiae, genitor verecundiae, la cui patria potestas accresceva, educava e custodiva le gentili virtù, celebrava la saviezza atta al governo degli uomini e del mondo.
Scomparsa dal mondo, atomicamente ammonito, la gentil virtù, celatasi la saviezza in profondo segreto asilo, dappertutto son chiacchiere e cenci! non c’è drappo, insegna, bandiera che non sbrindelli. Le nazioni son governate da bottegai, ridotte a laboratori oscuri, ovunque in Europa. Hoc loco, in hac ‘ex italorum’ regione pestilenti, furoreggia il Minihisterico della Diseducazione Giovanile, mentre s’accresce l’antieducativa vaporèa tivvudica e la clericale hominum pravità! Mentre i nostalgici della prima Repubblica e i devoti dei patrini costituenti cercano in rete tra i Social condivisione, soccorso e sostegno per raccenciare al più presto la democrazia minacciata dalla dictatorship under the mask of sanitary inspector. Tutti fieramente in museruola, e il ‘Gran Nummulario’ se la ride. È così! Ai suoi tempi Platone sosteneva con giudizio che la democrazia, la peggior forma di governo, sempre degenera in tirannide. Il covidiolismo, dunque, come instrumentum tyrannidis?
La riforma del diritto di famiglia italiano nell’anno 1975, governo Moro, sopprimeva l’istituto ultra-millenario della patria potestà, sostituendolo con una generica potestà genitoriale (parental responsibility) a vantaggio, a dire dei legiferatori, di una progredita moderna “coscienza sociale (!?!)”, espressione vacua, che a ben supporre non può indicar altro che lo stravolgimento delle radici stesse della civiltà umana e delle sue tradizioni, con in più l’ostinazione di seppellire, nell’oblio delle moderne coscienze decadute, le pur connaturate, quindi immutabili, idee e i giudizi inerenti la conoscenza originaria della struttura del mondo, della natura e dell’uomo; ciò, sottomettendo le menti e gli animi, onde perseguire già alla fonte coscienziale, con un disordine di vita e di esistenze, la confusio, corruptio e adulteratio di quel che agisce nel mondo ed è sua causa: il principio divino. Affermare e volere il declino dell’immutabile è oltre ogni folleggiamento, e, in fatti, il tentativo, intenzionalmente voluto, è quello di distorcere la mente dell’uomo, forzando, violando la natura stessa, coartandone la docilità, la mobilità, ovvero plasmabilità, ad arbitrio e piacimento di inversioni, viziacci e d’una inumana pravità. Immane, smisurata, orrifica presunzione, artatamente concepita e predisposta a rovina dei popoli.
Furono quelli anni tediosi e pesanti, persino il linguaggio iniziava a diventar greve, sovraccarico (centro-sinistra, convergenze parallele etc.) e dai palazzi calava sulla popolazione un’atmosfera grigia, cupa, opprimente; Con il Trattato di Osimo, sempre in quel anno si sanciva la cessione della Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia soggetta alla bieca tirannide titina e si privava Trieste del suo retroterra, dell’ultimo lembo di terra restante dell’italica Istria. Le sommosse sessantottine con l’insorgere d’una plumbea sensazione di gravità, con il prevalere del pedanteggiare astratto, del gelo che disgiunge la vita terrestre dal cielo, che fa dell’adulto il corruttore del fanciullo, che nega la via all’eroicità, il servigio alle celebrazioni sacrali, che toglie ai padri il prestigio, alle madri la gioia e la gloria d’esser genitrici, ai figli il sentimento dell’obbedienza che li rende liberi, quelle sommosse e l’infingitrice scuola che le aveva ispirate trovarono i loro condiscendenti interpreti negli sconsiderati statisti espressi dal fatiscente democratismo che inseguiva soltanto il materiale benessere. Sono stati chiamati ‘anni di piombo’, gli anni della soppressione della patria potestas. Anni squarciati dagli spari rosso-bruni! Il rosso, il colore del sangue; la tinta, il bruno, del panno luttuoso.
Torniamo al distico di Aviano, di cui sopra, che in buona sostanza recita: “Se vuoi viver tranquillo sottomettiti ai nostri voleri!”, un esplicito ammonimento ai vili, ai prostrati, agli afflitti, da parte del potente di turno! Quando Aviano scriveva le sue favole all’inizio circa del V sec.e.v. erano trascorsi due secoli o poco più dalla concessione ai cristiani della libertà di culto, prima da parte di Galerio (311) e poi di Costantino (editto di Milano del 313); ed erano trascorsi 120 e più anni dall’editto di Tessalonica (28 febbr. 380, Graziano, Teodosio I e Valentiniano II imperatori) che riconosceva il cristianesimo quale religione ufficiale e unica dell’Impero; nel corso dell’anno 392, poi, veniva imposto l’assoluto divieto d’ogni culto “pagano”. Non è da trascurare che nel 325 (da maggio ad agosto), convocato e presieduto da Costantino I, fu tenuto il Concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico cristiano. Non ci dilungheremo, ma vogliamo segnalare che lo scopo precipuo di questo Concilio, detto per l’appunto ecumenico, era quello di superare le divisioni tra le tante confessioni cristiane, vale a dire una rappacificazione tra cristiani litigiosi, ed essi chiamavano pace religiosa ciò che poco aveva di religioso, ma covava piuttosto uno scaltro proposito ovvero uno scopo prettamente politico. Si volevano sedare le varie dispute, accusando di eresia gli ostinati, ed eliminare quindi i contrasti, fondare un clero fanaticamente obbediente, per raggiungere una unità dogmatica e una conformità dottrinaria, per dare una universalità al credo giudaico-cristiano, penetrandone a fondo le società romanizzate d’oriente e d’occidente, attuando una metanoia che doveva stabilizzarsi nella forma che assumerà in breve tempo il catto-giudaismo e che ancor oggi vien vantata come le radici ebraico-cristiane dell’intera Europa. Un disegno appositamente costruito per penetrare furtivamente tutta la società, ch’era stata romana o romanizzata e ormai in grave crisi, onde assuefarla e accostumarla all’ente straniero, da essa servile credenza, ovvero latria, impersonato. E ancora, il perfido scopo di distruggere lo Stato romano, indebolire insomma l’Imperio della Civiltà romana, il retto reggimento delle genti; infine dei popoli il vigore e la produttività sottoporre al suo profitto; poi, e sempre nel corso dei secoli con le astuzie del “divide et impera”, i futuri Stati e loro reggenti e governanti tenuti perpetuamente in scacco, in situazione di inferiorità, sottomessi. Da allora cominciarono i giorni della sottomissione, la natura fu dannata, dissacrata, fu interrotta all’uomo la via al cielo, gli furono imposti intermediari, intercessori, scelti tra il clero o qualificati tali dalle alte gerarchie ecclesiali, si popolarono immaginari paradisi di beati e di santi, mentre la vita terrestre era mostrata come una disgrazia da controllare e regolare continuamente sull’inginocchiatoio del confessionale, pena una infernale eternità . . . E ci fermiamo, altrimenti sarebbero da svolgere volumi e volumi. Dappertutto, a questo punto era cieco volgo, e tutti dal regnante al più umile dei mortali si sottomisero: ‘sia fatta la tua Volontà, oggi e sempre, e nel giorno della nostra morte’! Anche nel giorno della morte atomica, come fu a Hiroshima e a Nagasaki nell’agosto dell’anno 1945.
Terminiamo questo discorso trascrivendo qui il distico di chiusura della metafora di Aviano, un epilogo fortemente pessimistico nei confronti del suo tempo. Avendone noi fatta una traduzione molto libera, e pare meno pessimista (forse nostra propensione costruttiva) per adattarla utilmente all’oggi, i lettori latinisti vorranno cortesemente volgarizzarlo nello stile che loro più aggrada, o lasciarlo com’è, intatto nell’ordinarietà del secolo da cui ci proviene; un tempo trascorso, quello della favola di Aviano, che non fu altro che un tratto iniziale della vile secolarità in cui ancor oggi travagliosamente vivono i popoli:
Has illis epulas potius laudare memento
Qui libertatem postposuere gulae.
* * *
“In principio il mondo stesso è stato foggiato per gli dei e per gli uomini e tutte le cose che sono in esso furono preparate e vi si rinvengono acciò l’uomo se n’avvalga. Il mondo infatti è, per così dire, la dimora comune degli dei e degli uomini o la città di entrambi; in realtà sono i soli ad avere l’uso della ragione e a vivere secondo il diritto e la legge”. (Cicerone, de Natura Deorum, II)
“Cosa vi è infatti, non dirò nell’uomo ma in tutto il cielo e la terra, di più divino della ragione? Essa, quando è arricchita e divenuta perfetta, giustamente si chiama sapienza.
Esiste dunque, dal momento che nulla v’è di più valente della ragione ed essa è sia nell’uomo che nel dio, come primo vincolo tra l’uomo e il divino. E tra coloro cui è comune la ragione, lo è anche la retta ragione: che essendo la legge, gli uomini si debbono ritenere congiunti agli dei anche dalla legge. Quando vi è comunione di legge, vi è altresì comunione di diritto. Coloro che hanno tali vincoli comuni, ei civitatis eiusdem habendi sunt, sono partecipi dello stesso Stato. Se, invero, essi obbediscono ai medesimi poteri e autorità, maggiormente essi obbediscono a questo celeste ordinamento, alla mente divina, alla onnipotenza della divinità; sicché con certezza questo universo mondo è da reputare una civitas communis deorum atque hominum. E se nelle nazioni, secondo un dato criterio, di cui si dirà, si distinguono le condizioni sociali partendo dalle agnazioni familiari, nell’ambito naturale ciò risulta tanto più straordinario e magnifico, ut homines deorum agnatione et gente teneantur, in quanto gli uomini sono tenuti insieme dalla parentela e dalla stirpe degli dei”. (Cicerone, de Legibus, I)
dies solis, IV di ottobre dell'anno duro