DIFFICILE CORREGGERE LA VILTÀ D’ANIMO

DIFFICILE CORREGGERE LA VILTÀ D’ANIMO
Così fa l’alma: quando è donna tutta,
Distrugge qualitate vizïosa
Sì che nel male l’uomo non disserra
E trae nel bene la vita dannosa.
Contro fortuna ogni uomo puo’ valere
Seguendo la ragion nel suo vedere.
Cecco D’Ascoli
L’ostinatezza in questo insistere piovoso! Questo insistere ostinato del cielo nel mantenersi nubilo e nel far nubila la valle e torno torno, per tutta l’ampiezza, il paesaggio montano! Nelle mattinate bigie le nubi s’ammassano fitte, restano immote, posano sui dossi dei monti il loro brumoso grigiore, e allora scroscia la pioggia; sovente la folgore squarcia quella foschia, s’ode estendersi il rombo del tuono. Nei meriggi, quando capita che soffia forte e umido il vento, e incalzando spezza il livore d’un paesaggio quasi autunnale, la fittezza di quello sfondo grigiastro lassù, nembi e vento formano un turbine e vien giù la burrasca; un fulmine saetta attraversandoli quei neri nuvoli che ora corrono, scavallano, e intorno l’aria freme al botto furente del tuono. Siam quasi prossimi al solstizio e abbiamo già gustate le pesche, le pere, le prugne, le ciliegie giugnoline, ma in giro si dice che non è proprio questo il clima del mese in cui entra l’estate; le condizioni climatiche non sono più quelle d’una volta, lamentano che son saltati i cicli stagionali. Noi non notiamo stranezza, non riscontriamo anomalie nell’andamento della natura e nel corso dei giorni, non vi avvertiamo tristezza, né mestizia trascorrer nel cielo; né ci adombriamo per l’incomber dei nembi e le copiose piogge fuori stagione, né, quando d’improvviso apparso in uno spiraglio di nubi, si dilegua all’istante il raggio del sole. Non incubi diluviali, non gli allarmi del thunbergismo, nulla di apocalittico turba i nostri sonni, ci affidiamo all’intelligenza della natura e del suo operare confidente in chi quella divina intelligenza sa comprendere e valersene con saggezza, predilezione e fervida attenzione. È stato sempre così dall’origine, un supremo accordo tra il segreto intelletto della natura e la vegliante saggezza dell’uomo. Ma se quella saggezza s’appanna o peggio s’eclissa, allora la natura risveglia i suoi impulsi combattivi e incita al cimento i suoi elementi, aria acqua terra fuoco, operanti in tutto il suo grande organismo, come in quello d’ogni altro anche piccolo vivente, ma primariamente e in sommo grado nella costituzione, non solo terrestre, dell’uomo. E quella costituzione prima o poi sarà necessitata a cimentarsi; quel cimento si centrerà in una volontà suprema e giusta che troverà la guida d’una sovrumana saggezza, quella che viene all’uomo dalla sua origine solare: gl’ iddii olimpici ancora una volta abbatteranno i titani, gli dei falsi e bugiardi, e con la fine del titanismo avrà termine la superstitio, finirà l’età oscura.
Oggi il sole è comparso nel tardo pomeriggio, poco prima del tramonto; un disco limpido, lucente tra le grosse nubi che ramingano nel cielo; ci raggiunge il suo raggio, è ancora caldo, rassicurante. Abbiam fitto lo sguardo in quel volto paterno, benefico a tutti anche quando si nasconde, e nessun terreno vermine potrà mai togliergli la patria potestà, la solare potestà, perennemente operante sul mondo in officio, ossia in obbedienza doverosa, alla volontà di suo padre il Cielo; solo di torva gente la mente fosca non ha preso mai in considerazione tale suo compito, munus che ha inizio con il mondo, non l’ha mai reputato il più certo e munifico tra tutti i padri; egli è difatti il vero pater patriae, anche di questa eccellente itala terra che un tempo da lui ebbe nome Ausonia, e perciò siede tra i Patres qual princeps Senatus, nella toga fregiata di porpora.
Sull’istante, una nube densa nasconde il lucente astro alla vista della valle, anche quella nube è salita lassù dalla terra; ma al tramonto, tra la nuvolaglia, tinte forti, splendenti di porpora e oro! Segno che domattina ci sarà il sole e il tempo si metterà al bello. E qui ci sembra appropriata una riflessione. Molto di quel che accade fuori, nel mondo, proviene dall’intimo dell’uomo, sia come singolo sia come collettività, e tutto quel che ne colora la scena e ne segna le sorti, compresi i comportamenti, ovvero i corsi, i moti, i cicli della natura, sono solo la ripercussione nel sensibile organismo terrestre degli sconvolgimenti mentali e degli esasperati tumulti d’animo nel genere umano. Ma che sorprendenti paesaggi, qual beltà, se l’animo dell’uomo è sereno!
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Così fa l’alma: quando è donna tutta . . . Ed è vero, accade così! L’anima umana si vivifica e fiorisce di solari virtù quando ha la completa padronanza di sé, e, evitando le viziosità che portano a dissipare il tempo, conduce sulla retta via la ‘vita dannosa’, le energie e i giorni buttati via; in tal stato l’uomo non è mai sorpreso dalla sorte e può sempre farsi valere contro l’avversario, sia esso a lui interno, sia un contendente esterno. Ben così si conduce a ‘seguir la ragione nel suo vedere’: con l’occhio, cioè a dire, della mente, l’uomo apprende un sapere che è un vedere, un vedere in profondità, al di là delle apparenze. Acquista insomma la coscienza diretta della sua realtà interna, che è anche il grado della sua consapevolezza, mentre fuor di lui non ci sarà più una rappresentazione apparente, ingannevole, illusoria del mondo, ch’era soltanto una proiezione del suo egocentrismo; non più dunque fantasticherie e astrattezze, ma la nuda consistenza del qui e ora con cui dovrà confrontarsi. Non si tratta più di mere cognizioni e di ricercate dottrine, parto di elucubrazioni tanto dottorali quanto sterili, ma di pratica della vera conoscenza, per giungere a saper realizzare il libero giudizio e la regola del giusto e tempestivo agire. Inizia così il retto, prudente cammino d’un testimone della sapienza.
L’uomo, per esser davvero tale, deve condurre una vita idealmente attiva nella concretezza dei suoi giorni, e non scempiamente dedita solo ai traffici volgarmente materiali, sviata all’egoistica bisogna; deve possedere la virtù operante che ha fondamento nel principio altruistico mirante a dilatare, a espandere l’intelletto attivo nella cura delle genti, sì che si rigeneri un popolo capace del primato di stender l’ala della sua virtù sul mondo, e tale che “alla viltà del mondo contraddice/facendo degna nostra umanitate”, come si esprimeva l’arso vivo. L’intelletto libero, attivo, che si prende cura delle genti, ovvero il solar consiglio dei Patres restituiti all’officio di educatori e quindi di edificatori. Il trionfo della Patria potestas sull’insuccesso del democratismo, sull’imbelle matriarcato tivvudico. Così fu quando l’aquila di Roma, colei che tenne lo fren dell’universo, prese il volo. Simbolo eccelso dell’intelletto attivo, segno nunzio dell’idea romana che fu sostegno dell’universo e argine alla barbarie, idea semper parata per le età veridiche, pur covando sé stessa sotto la vecchiezza dei tempi, ché “nel gran volato le sue penne ardendo, /riprende giovinezza, e ciò consente/natura . . .”. E tanto, parafrasando l’Ascolano, affinché, signora di genti giuste, disterpi la radice d’ogni vizio dal cuore del mondo e mostri la potenza del fido agire; il cuore nobile, per vero, contraddice alla viltà mondana e india l’umanità.
Orbene, ci rendiamo assennatamente conto di un dato di fatto, ch’è anche una naturale certezza, i popoli per ben vivere e sopravvivere necessitano d’una guida saggia, che sia attenta alle urgenze, guida sicura e prudente, ma anche determinata nell’agire, risoluta nel provvedere e sempre previdente. Con il qualificarla saggia poi s’intende attribuirle tutte le virtù e la preparazione che la rendono atta al governo d’un popolo. Ma soprattutto il governante dev’essere uomo gentile, nell’accezione dantesca che intende gentile come “rivolto alle genti”, cioè al bene e alla salute delle genti, e quest’è quando la persona umana è svincolata dall’egoismo; a dir dell’Ascolano: “Uomo è gentil quant’è virtude in lui” e tanta virtù apertamente e appieno si mostri. Aggiunge che, nell’uomo, nobiltà è offerta della sua anima esercitata lungamente nella virtù, fino a realizzarsi nell’ immagine solare del padre operoso e munifico, generatore d’ogni bene. A tal modello di guide e governanti un popolo libero e sano legittimamente aspira.
In questa prima metà dell’anno duro e in questa serva Italia, nave senza nocchiero in un mondo in tempesta, abbiamo visto disfarsi quell’avanzo di bene comune che ancor residuava, spegnersi quella parvenza di sentimento patrio che ancor qua e là sopravviveva, venir meno e vistosamente ogni naturale istinto di decoro; e diciamo sia del popolo che della sua dirigenza scombussolata e sconquassatrice. Invero “dirigenza” è un nome abusato, infatti significa “dirittamente reggere” e, questo, troppo è pretenderlo da scimmiottatori d’un cabaret politichino e per sovrappiù con cantanti stonati peggio d’una campana.
Ma noi non pretendiamo d’aver la ferula dei moralisti, né quella dei politologi ultra-critici sempre e sempre tra di loro in disaccordo per il rispetto dovuto alla democratica libertà d’opinione, o forse per la non tanto strana logica di crear maggior confusione? Vogliamo quindi tacere e stendere, per amor patrio, un pietoso velo.
Or invece ci riallacciamo al titolo del nostro scritto. Abbiamo più volte affermato che occorre debellare il male affliggente il mondo in questi tempi ultimi e che dobbiamo per farcela sconfiggere la viltà. La viltà infatti trascina in basso l’animo dell’uomo; antitetica alla viltà è la nobiltà: nobilitandosi, l’animo tende al buono e al bello, l’uomo spinge verso l’alto la sua consapevolezza, tende ad elevarsi. I due termini quindi sono opposti e inconciliabili. Quel ch’è vile lo si può accostare a quel ch’è venale, a ciò che messo in vendita può esser comprato, così sul piano etico-spirituale vi si configura ciò che nobile non è, l’ignobile. Altrimenti nobilitas, appunto da non vilitas, che si può combinare con un etimo ancor più pertinente, la radice GNA derivante dal latino noscere, cognoscere e dal greco gnòsco, che hanno il significato di conoscere, sapere. A confronto con il senso limitante, sminuente e giustappunto svilente di vilitas, nobilitas si eleva e si amplia nei vasti territori e nei vasti cieli della conoscenza, della sapienza; territori sempre nuovi da esplorare, dove hanno perfezionato la loro saggezza e sagacia i grandi capi, i nobili legislatori, i valorosi condottieri, le nobili guide spirituali di cui narrano le saghe di tutti i popoli. In breve gli uomini di valore che han seguito virtù e conoscenza; laddove la viltà invece abbrutisce l’uomo, anzi in questo finale, rugginoso periodo dell’età del ferro, addirittura prevale una inerte massiva viltà che lo desertifica, tra queste due non è facile distinguere quale sia la peggior sorte. Si può agire per sottrarre l’uomo a una simile infelice sorte? Duro rispondere.
Nello scritto che precede questo, ‘Cielo padre’, abbiamo accertato attraverso Cicerone che la viltà più grande, l’estrema viltà, è commettere il parricidio e appreso come i Romani procedevano alla tenebrosissima exsecutio del parricida. Abbiamo esaminato anche il perché, e sappiamo che il termine *pater non si riferiva al padre fisico, ma contemplava voce vocare Jupiter, il Cielo padre, prece (prex, la domanda che procura l’influenza del cielo) che sottintendeva il trascendimento del senso paterno, unicamente terreno, e conseguentemente che la patria potestas costituiva dunque il collegamento della società umana, delle sue istituzioni statuali e della sua pratica religiosa al Cielo padre, in tal maniera rapportandosi alla celeste solare origine dell’uomo. Questo rapporto reggeva l’ordine e la civiltà delle genti.
L’ideologia servile oggi dominante, soprattutto qui in terra italica, con la soppressione della patria potestas ha spezzato quel nesso, ha buttato giù il sacro ponte che congiungeva la terra al cielo, ha rinnegato il pontifex, il pater familias, ha cancellato ogni residua orma di genuina concordia e di vero ordine, ha spalancato le porte alla sregolatezza, al disordine spirituale ed etico, fomentando il più lercio, abietto materialismo, un irriguardoso, deleterio ateismo. Non sarà una salvaguardia la pratica ipocrita e parolaia d’un formale, finto, artificioso legalitarismo, fine a sé stesso. Il combattente dello spirito deve tener conto di tutto ciò, non deve ignorare i pericoli che tale ideologismo comporta per l’animo e l’evoluzione spirituale dell’uomo, per la conservazione della civiltà sul pianeta terra. Deve perciò disporre sé stesso a raggiungere un grado di consapevolezza tale che lo preservi dal morbo, in effetti la viltà ottunde la consapevolezza, la intima contezza d’essere del sé, il pregio dell’uomo che rappresenta la più alta virtù, il sapere più alto che ha trasceso l’io sensorio; anche il più famoso chimico, biologo, ‘scienziato’ che sia da quel morbo affetto, è in realtà un insciente. Ogni sorta di viltà, la venalità, per esempio certo non incorruttibile; ma anche quella che può apparire come la più scusabile e consideriamo, sempre a mo’ d’esempio, la pavidità, quella del pauroso o timoroso che trema di paura, essendo uno stato emotivo istintuale, giustificabile in un bambino, tal viltà è comunque lesiva della dignità dell’uomo, svelandone lo stato di inscienza del sé, di oscuramento della consapevolezza. La qualitate vizïosa, che a dir del poeta d’Ascoli ricomprende tutti i vizi annoverabili nella natura umana, è il portato dell’egoismo individuale tutto inteso alla parte materiale dell’esistenza, il vivere corporale e storico dei mortali; l’individuo egoisticamente e quindi cupidamente tende ad acquistare in ogni modo e a ritenere quanto più può, beni, potere, ogni sorta di soddisfacimenti alla sua vanità et cetera; e così, come scrisse il coraggioso Cecco, “sempre dimora nel gravoso affare”. Dedicarsi al bene della propria gente e con spirito di sacrificio curarne le vicende, lenirne le vicissitudini, preparandone le sorti per assicurar loro la fortuna, questo è un giusto agire per la salute umana; è il segno che si è attivi nello spirito e che si propizia al mondo il divino favore della Giustizia e della Verecondia, senza trascurarne bellezza e armonia. Tale è l’operare dell’anima nobile: trarre nel bene la vita dannosa.
Ma occorre non sprecare il tempo, è ancora Thot, il sacro Ibis, che ci parla dal remoto Egitto: ‘Non sprecare il tuo tempo con gli ostinati, sappi, ostinati sono i mortali! Non sprecare i tuoi giorni, le tue ore del giorno, sono sacre almeno quanto questo mio Ibis sacro; medita sul suo candido piumaggio, sul suo lungo becco nero e in punta ricurvo, sulle sue zampe nere e su quella sua tozza coda nera! Non sprecai il mio tempo quando ne feci il mio volatile, il thot che va sulle ali. Medita e apprendi!’ E apriranno le orecchie alla parola del maestro tutti questi professori che, sostenendo d’esser la voce del popolo, s’affannano ogni giorno a dar lezioni di democrazia per correggere le quotidiane infrazioni commesse dai tirannelli di turno, e alleggerire così l’affanno della gente? Perdono il loro tempo e in più vi aggiungono la vanità, diseducando con il loro egotismo, presuntuoso e vano, e i loro difettivi sillogismi la gente semplice che cerca la via diritta e in fondo al suo animo invoca il padre Libero, la sempiterna patria potestà dell’astro liber et vagus, a spazzar via le tenebre.
Gentile amico, non sprecare il tuo tempo, fugit irreparabile tempus, esclamava Virgilio! Tieni a bada piuttosto il tuo egotismo, non farlo ingigantire dentro di te; raddrizza te stesso, inverati, realizzati, e poi combatti. Combatti perché torni giustizia e verecondia e nuovo tempo umano, combatti per l’antica patria e per la salute del suo popolo, troverai franca conferma. Un nostro vecchio amico, a noi molto caro, ai suoi tempi lontani, non molto distanti dai re della Roma arcaica, ebbe a vivere vicissitudini simili alle nostre: il declino degli animi nobili e l’avvento di oligarchie mercantili fameliche e devastatrici del giusto ordine. Accadde nella dorica Megara, sua patria, quando vi s'impose, tramontato il governo dei migliori, un arrogante individualismo, incurante della sorte delle genti per l'intestarsi ingordo e ladresco degli egoismi. Ebbene, anche il poeta Teognide ti consiglia di non perdere il tuo tempo con gli ostinati, con la stirpe democratica, e ti suggerisce di frequentare ed istruire gli educabili, così che a loro volta siano di esempio agli altri. E così ancora ti consiglia con una sua elegia, 429-438, il cui contenuto abbiamo riassunto nel titolo di questo scritto e della quale dedichiamo a te la nostra traduzione, sempre che tu non sia passato armi e bagagli nella schiera degli ostinati:
Cosa facile far nascere un uomo,
agevole è tirarlo su, ma arduo
forgiargli nobile l’animo.
Chi mai d’uno sciocco ha fatto un savio,
chi mai l’ignavo ha reso valente?
S’avesse un dio concesso
ai seguaci d’Asclepio di sanare
i cuori nocenti, emendando
viltà e sordidezza, essi lauta
mercede ne avrebbero tratta.
Se si potesse dar vita
ad un’indole schietta
a fin d’introdurla in un uomo,
a un padre virtuoso mai più
seguirebbe improba figliolanza,
basterebbe un avveduto monito,
un’adeguata formazione.
Ma non vedrai affiorare
nobiltà da bassezza,
emergere maestria e valore
soltanto impartendo lezioni.
Vogliamo concludere in un sussulto italico. Dal Platone in Italia (1809) di Vincenzo Cuoco, scrittore molisano che molto amò, se pur disunita, la patria e ne studiò le remote saturnie origini, riportiamo questo pregnante pensiero:
“DITEMI, CHE COS’È IL CORAGGIO? MUOIONO UGUALMENTE IL VILE ED IL FORTE; MA SOLO IL FORTE SA SOFFRIRE QUEL TRAVAGLIO CHE PUÒ TALORA ESENTARCI DAL MORIRE.”
saturdì, XX giugno dell’anno duro
