il CIELO PADRE
il C I E L O P A D R E

Lo scritto che immediatamente precede questo, cui stiamo or ponendo mano, ha per contenuto e filo conduttore la Patria Potestas, ut Romano more videtur. Di proposito non abbiamo inteso far d’essa “potestas” la titolatura dello scritto stesso, onde non esporla come un argomento meramente generico e divulgativo o peggio ancora trattarne a mo’ d’un ragionamento tecnico-giuridico o approssimativamente umanistico; pertanto, valutandone il pregio e la dignità, l’abbiamo intesa e serbata come un prezioso titolo, da celare all’occhio profanante e curioso, e da riportare nell’interno del discorso, facendone l’intelletto e il cuore vivo di tutta la trattazione; infatti la PatriaPotestas è, dai lontani e felici tempi del Mos Maiorum, l’altissimo Principio dal quale traggono naturale fondamento e orientamento spirituale le autentiche Civiltà umane, oltre a essere la vera, vivente costituzione a ogni ordinata civitas organicamente connata.
Nell’anno 80 a.e.v., console Silla, il giovane Cicerone ebbe a pronunciare una delle sue prime orazioni giudiziarie, la pro Roscio Amerino; Roscio era un cittadino di Ameria (attuale Amelia), ingiustamente accusato d’avere ucciso il padre Sesto Roscio, esponente dell’aristocrazia romana. L’accusatore Cornelio Crisogono, un potente liberto di Silla, sosteneva due parenti prossimi di Roscio padre, i mandanti veri dell’assassinio interessati ad una grossa eredità, il ricco patrimonio terriero del defunto, e, quindi, ad estrometterne il figlio per mezzo dell’infamante accusa. Roscio Amerino rischiava dunque la tremenda condanna alla poena cullei, ma il giovane avvocato riuscì abilmente a smascherare gl’ulteriori intenti delittuosi dei responsabili del commesso omicidio e a sottrarre l’innocente figlio ad un inexorabile fatum, all’atra pressione d’una sorte infelix che non gli spettava subire, perché non riguardante neanche alla lontana, per niente, una integra intemerata condotta umana, civile e filiale. Abbiamo in breve accennato al fatto e al processo giudiziario che ne seguì, difatti intendiamo qui esaminare, con l’ausilio di Marco Tullio, quel che di proposito abbiamo definito un “inesorabile fato” e non, ad esempio, un “castigo inesorabile”. Con il termine castigare (corrisponde al latino castigare, derivante dal qualificativo castus, puro, innocente, virtuoso, pio etc.) precisamente s’ intende “purificare- emendare- indurre a correggersi-a migliorarsi”, la qual cosa non comporta la inesorabilità, ma il contrario, l’indulgenza, l’exorabilis che si lascia persuadere dalla preghiera, l’oratio, cioè il discorso, l’orazione, l’eloquio veritiero; exoro, prego vivamente, supplico; ma ad un inexorabile fatum, inexorabiles iudices, e i giudici inesorabili sono quelli dell’Averno. L’atra pressione, per sempre, d’una sorte infelix, la exsecutio tenebrosa (esecuzione nella tenebra) di un perditor, d’un distruttore, corruttore, dissolutore di sé stesso, d’un perdite perire, ossia d’un consegnarsi patricida a morte scellerata, senza speranza di mai più ritrovarsi.
Prima di riguardare in sequenza, seppur succintamente, i momenti di tal precipuo, letale adempimento, la tenebrosissima exsecutio, ricordiamo ancora una volta il grande rilievo che nella romanità, e da un’epoca molto antica, aveva il concetto di paternità. Primamente, riportiamo dal Benveniste: “Di fronte a *mater ‘madre’, *pater non designa il padre fisico, come testimonia, tra l’altro, il vecchio termine giustapposto conservato nel lat. Iupiter”. Aggiunge: “Il termine *pater è pregnante nell’uso mitologico. È la qualifica permanente del dio supremo degli Indoeuropei. Figura al vocativo nel nome divino di Jupiter: la forma lat. Iupiter è nata da una formula di invocazione *dyeu pater ‘Cielo padre!’. In questa figurazione originaria, la relazione di paternità fisica è esclusa. Siamo al di fuori della stretta parentela e *pater non può designare il ‘padre’ in senso personale”. Lo studioso osserva ancora: “Questo primato si trova confermato da minuti indizi di carattere linguistico . . . Uno di questi è la creazione del termine lat. patria ‘patria’ da pater”. Infatti, così esplicita: “L’aggettivo derivato da pater è patrius. Si tratta di un aggettivo che si riferisce esclusivamente al mondo del ‘padre’ . . . (infatti) la potestas è esclusivamente patria.” Eppoi, e sempre a Roma, i Patres, che sono gli antenati, i Patres ancora, cioè i senatori, e c’è il paterfamilias e infine il padre singolo, il padre naturale, “il ‘padre che nutre’, colui che alleva il bambino”, il proprio figliolo. Ora, a voler solo tener presente, e senza uscire dall’ordinario, la figura d’un padre naturale che è in vita, in quella singola presenza umana possiamo rappresentarci raccolti in uno i caratteri essenziali, capitali, di una lunga serie di generazioni che l’han preceduta, essa ricapitola in sé una plurisecolare, remota realtà umana. Questo è il vincolo filiale, ché attraverso il padre ogni uomo si congiunga ai suoi antenati per poter, con il ritorno alla realtà originaria, trascendere la temporalità e la contingenza: farsi uno con il principium; ma per raggiungere tal unione devi necessariamente ab aliquo principium ducere, aver origine da qualcuno, come ebbe a dire Cicerone.
Ha scritto da qualche parte il buon medico e dotto Paracelso “l’uomo è figlio di due padri”. Oh, se gli uomini di ciò serbassero ricordo! Il padre naturale, e? E il . . . Cielo padre! Jupiter, il tonitruante! Il signore della folgore, della luce che abbaglia, ma che inesorabilmente acceca l’occhio profanatore. E suggeriva un maestro ermetico, uno di quei mentori tutti imbevuti di egiziaca sapienza: ‘Comincia con il rivolgerti a Thot, il sacro Ibis ti insegnerà la vera conoscenza e ti racconterà dell’altro padre, quello da cui discende anche il tuo padre naturale del quale non hai potuto fare a meno per venire al mondo che ora ti circonda. Thot ti racconterà del Veglio antichissimo, il Cielo padre, colui ch’è anche dentro di te; perché se vuoi conoscere il tuo inizio, sappi bene, devi farti un tutt’uno con lui. Sì! con lui, il tonitruante, il severo ammonitore’.
A questo punto, dopo tanto dire, tutti abbiam compreso perché il popolo Romano era tenuto in caso di patricidio ad adempiere la tenebrosissima exsecutio.
Accertato il misfatto, all’empio reo venivano fatti mettere ai piedi zoccoli di legno per evitare la contaminazione del suolo dell’Urbe; sulla testa imposto un cappuccio di pelle di lupo onde il manto della fiera, peraltro riguardosa delle leggi di natura, facesse da natural tegumento e scudo a preservare il Cielo da una vista abietta e a scongiurarne lo sdegno. Dopo aver subito la fustigazione con virga sanguinea di duro corniolo per placare i Mani della stirpe dell’assassinato, lesa dal patricidio, attendeva nel carcere, a digiuno e senz’acqua, l’apprestamento del culleo. Chiuso nell’inamovibile tenebra d’un otre, per intero, da cima a fondo impermeabilizzato e bitumato, privato di tutto, damnatus et eiectus (la dura espressione ciceroniana), solo con le bestie incluse, una vipera, un gallo dal rostro robusto e artigli taglienti, un obscenus canis e una scimmia, si scatenava all’istante l’incontenibile istinto di conservazione di quelle animalità ivi astrette. Istinti belluini di brutale irritazione e di rabbia prorompevano immantinente con violenza inaudita provocando una laceratio e una caedes ininterrotta; un confuso, indistinto perire di membra, un comune mortifero pulsus, la esiziale estinzione d’un’unica bestialità multipla informe, nella tenebra che si perpetuava. Chi periva per primo? Forse lo scellerato bipede! Chi per ultimo? Di certo la vipera. Simbolo del venenifero e del pestilente: il cuore viperino! Infine in quel sacco resterà una indistinta putredine, poi un rinfuso carcame.
Ed ora trasferiamoci nella Roma di Silla, nel foro, ed ascoltiamo la voce del giovane oratore.
Haec magnitudo malefici facit ut, nisi paene manifestum parricidium proferatur, credibile non sit . . . (la enormità d’un tale misfatto fa sì che mai sia esso credibile se non, pressoché evidente, il patricidio apertamente si sveli) . . . paene dicam, respersas manus sanguine paterno iudices videant oportet, si tantum facinus, tam immane, tam acerbum credituri sunt. (intendo dire, necessario è che i giudici constatino con i propri occhi quelle mani bagnate del paterno sangue, se son tenuti a credere a un tale immane misfatto, barbaro, disumano.) . . . Qua re hoc quo minus est credibile, nisi ostenditur, eo magis est, si convincitur, vindicandum. Itaque cum multis ex rebus intellegi potest maiores nostros non modo armis plus quam ceteras nationes verum etiam consilio sapientiaque potuisse, tum ex hac re vel maxime quod in impios singulare supplicium invenerunt. Qua in re quantum prudentia praestiterint eis qui apud ceteros sapientissimi fuisse dicuntur considerate. (Pertanto meno da credersi è un tale delitto, se non lo si è provato, ma severamente da punirsi se si è dimostrato il colpevole. Quindi, come da tante altre cose, si può arguire che i nostri antenati si fecero valere tra gli altri popoli non solo nelle armi ma invero anche per senno e soluzioni, così anche, e da questa cosa innanzitutto, che seppero rinvenire un supplizio davvero singolare per tal fatta di empi. Ebbene osservate di quanto, in questo, essi superarono in prudenza coloro che presso gli altri, come si dice, figuravano sapientissimi). E prosegue Marco Tullio, verum volto qui in italiano: “Si dice che, finché fu potente e libera, Atene vantasse sopra tutte le altre città il pregio della prudenza. Si dice pure che in Atene il più saggio fosse Solone e che questi redasse leggi celebri, tuttora in vigore presso gli ateniesi. Interrogato una volta come mai non avesse anche previsto una pena per i patricidi, egli rispose che mai la sua mente avrebbe potuto concepire che nascesse al mondo un uomo capace d’un così grave misfatto. E c’è chi dice che fu cosa ben fatta il non aver nulla stabilito per una mostruosità del tutto sconosciuta, e non tanto perché la gente potesse rimanerne atterrita, quanto per non stimolare il solo pensarlo, o far credere possibile una cosa del genere. (E qui, risuona meglio il latino accento): Quanto nostri maiores sapientius! Qui cum intellegerent nihil esse tam sanctum, quod non aliquando violaret audacia, supplicium in parricidas singulare excogitaverunt ut, quos natura ipsa retinere in officio non potuisset, ei magnitudine poenae a maleficio summoverentur. Insui voluerunt in culleum vivos atque ita in flumen deici. (Ma quanto più saggiamente disposero i nostri avi! Essi ben prevedendo che, con l’avanzar dei tempi, nulla, che fosse pur santo e inviolabile, potesse permanere indenne dall’affronto della protervia, escogitarono contro i patricidi un singolare supplizio; laddove la naturale costituzione non avesse contenuto tal genia nell’obbligo della ragione, a distoglierla dal delitto incidesse la smisuratezza della pena. Stabilirono che fossero cuciti vivi dentro un sacco e gettati nel fiume.) O singularem sapientiam, iudices! Nonne videntur hunc hominem ex rerum natura sustulisse et eripuisse cui repente caelum, solem, aquam terramque ademerint ut, qui eum necasset unde ipse natus esset, careret eis rebus omnibus ex quibus omnia nata esse dicuntur? Noluerunt feris corpus obicere ne bestiis quoque quae tantum scelus attigissent immanioribus uteremur; non sic nudos in flumen deicere ne, cum delati essent in mare, ipsum polluerent quo cetera quae violata sunt expiari putantur; denique nihil tam vile neque tam volgare est cuius partem ullam reliquerint. (Rara saggezza, giudici! E non sembra dunque che si è in tal modo espulso ed eliminato dall’intero universo quel reo cui vien tolto d’un tratto l’aria, il sole, l’acqua e la terra, così ch’ avendo egli ucciso chi lo fece nascere, si veda privato di tutto il necessario da cui ogni cosa si dice esser nata? Stabilirono di non gettare il corpo alle fiere onde non si riscontrasse poi in quelle una ferocia ingigantita per esser venute a contatto con tanta scelleragine; né di gettarli nudi nel fiume per impedire che trasportati al mare lo contaminassero, mentre, come si crede, nelle sue acque si purifica qualunque cosa subisca oltraggio; infine nulla darsi di talmente vile e non a tal punto volgare di cui abbiano lasciato indietro avanzo alcuno).
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Quanto nostri maiores sapientius! O singularis sapientia! E oggi, distanti più di due millenni, possiamo noi, oltre a far nostre quelle esclamazioni, anche aggiungere: O qual certa sagacia, quale infallibile lungimiranza di quei nostri maggiori e antichi padri! “Qui cum intellegerent nihil esse tam sanctum, quod non aliquando violaret audacia . . .” Che gli antichi legislatori si riferissero anche a futuri tempi ancor più biechi, protervi e patricidi Cicerone l’esprime con una frase dal costrutto particolarmente conciso e soprattutto con l’uso dell’avverbio aliquando che definisce nel senso da noi colto la forma modale e temporale del verbo che segue; e non possiamo non ammirare la grande preveggenza, protrattasi fino ai nostri giorni, e quindi la magistrale cura e attenzione che ponevano nell’occuparsi dell’animo umano per proteggerlo dalla barbarie, sempre incombente nell’età ferrea, indirizzando di continuo il cammino dei popoli nel solco aureo, tracciato dal fondatore, per serbarlo umanamente integro e sano nei colti domini della civiltà, perché non vi è civiltà ove difetta la cultura dell’animo umano. E non è sufficiente che l’uomo si scolarizzi, dal nido all’accademia, per poi inmiarsi, e non nel senso dantesco d’immergersi nella propria interiore spiritualità, ma nel senso tutto odierno di sguazzare nel proprio “mio” possessivo, meschinamente esaltando tutt’al più la propria egoistica intellettualità. Vanità! Saccenteria erudita nel plural-tecnicismo, nella coltura estensiva del politichese, e oggi del politically correct; saccenteria ovvero dottoraggine covidiolesca, scatenata dal virale, pestifero demonismo tivvudico . . . io saccio io saccio io saccio, e son tutti saccentoni! La democrazia, oh oh! Tutti uguali, saccentemente uguali? Sarà una risorsa per il paese, una eccellenza, è un bambino saccentello! Son tutte fiere le mamme del mondo, i padri di meno; da quando hanno tolto loro la patria potestà e la potestà maritale, poi li hanno addirittura ridotti a genitore 1 e 2 o forse non si sa, vanno man mano scomparendo. La democrazia, l’egualitarismo totalitario, cioè formale e sostanziale, e il progresso tecnico-scientifico, l’estremo tecnicismo che va isterilendo il mondo, e l’incombenza del terrore atomico; che volete di più? E ancora, il tentativo di arrivare all’umanoidismo proprio attraverso l’uguagliamento democratico, essendo l’umanesimo un concetto troppo distintivo e quindi elitario, sprezzantemente aristocratico! Ecco perché gli inmiati e le inmiate nel “mio/mia” possessivo, tutti e tutte poi democraticamente s’immillano e son dovunque: tutti figli e figlie di genitore 1 e genitore 2, che a mille e a mille si ritrovano affratellati e, per rispetto al genere, diciamo pure "assororate", dato che "assorellare" è coniato su modello maschista. E anche un gran passo avanti per un sostanziale sororale-fratellame, un frittume senza distinzioni sessiste, affinché si venga all’umanoide completo, sia esso primate, artificiale o alieno; in altre parole una messa a punto democratica in salsa russoiana-adamitica, con la scomparsa definitiva della fallocrazia. La fallocrazia era il machismo, cioè il predominio del maschio in tutti i campi, la supremazia del sessismo strettamente maschista; d’un uomo politico deciso, d’un capo carismatico, d’un uomo d’affari capace si diceva popolarmente “ha le palle, ce l’ha quadrate”, e il tizio cui s’accennava mostrava tutta la sua supponenza, il suo sussiego. Sovente s’avvertiva il ridicolo di quella spocchia che dai marroni risaliva a inorgoglirli il volto. Oggi questa espressione è sempre più riferita alle donne che mostrano cipiglio e investono i loro contendenti o le loro rivali con una tempesta di parole grosse. Spesso scappa di bocca a queste graziose signore il duro avvertimento: “non farmi girare le palle! levati dalle palle! mi son rotta le palle!”; e l’aria pare inebriarsi dell’essenza della sublimazione. Di colpo, ci sovviene d’un nostro conoscente molto avanti negli anni, deceduto nell’ultimo decennio del secolo scorso, un veglio prisco che, quando menzionava persona da lui stimata per ragionevolezza, ponderatezza e altre virtù, soleva sottolineare “una testa quadra”, di persona moderata, in salute e socievole, usava dire “un uomo in gamba”. La filosofia del veglio prisco era semplice come i quattro elementi che fanno il mondo dell’uomo: “Quando l’uomo ha testa quadra e solide giunture, tutto il restante è a posto; in perfetta efficienza fisica e mentale, nobile d’animo, giusto, coraggioso, moderato e retto nell’agire, è benvoluto dal cielo e dalla terra e gode della comprensione dei valentuomini e della considerazione delle donne”.
Un sorprendente incontro, per nulla casuale però; una signora dalla chioma bianca, ma non ha trascurato il trucco, il suo viso è ancor fresco e l’occhio vivo e sagace, ci rivolge la parola soffermandosi per mettere in risalto e condivider con noi le luci, i colori e la beltà della valle nel sole di giugno: “Dopo tanto corruccio del cielo e i giorni lungamente piovosi, è bello veder la terra rispondere con questo aperto sorriso all’azzurro di giugno e al suo benefico sole; l’occhio gode di questo verde e di questi vivaci colori nutriti e rinvigoriti dalle piogge”. Di botto irrompe un branco di scalmanati, giovinastri sotto i vent’anni, che bersagliando di sassi alcune tortore levatesi in volo e urlandosi addosso invettive e parolacce, incuranti di noi fermi al margine della strada, si allontanavano rincorrendosi e spintonandosi con urla invereconde. “Questa gioventù, anzi questa società, diventa sempre più volgare; mette in mostra senza posa, dalla mattina alla sera, tutto il suo contenuto osceno.” Commentò così, e ci salutò con un sorriso triste che addolcì ancora di più il suo volto buono; s’avviò verso un gruppo di case ove forse dimora.
Ed è così! la grossolanità, la volgarità, la sboccataggine sono la base portante dell’ideologia devastatrice oggi dominante sul pianeta. Anche qui, nel bel Paese, s’è concentrata, e in modo vistoso, questa robaccia, questo ciarpume; una paccottiglia di residuati bellici e rottami rivoluzionari che vanno dal giacobinismo francese al sessantottismo e che si sono incancreniti in una rigidità subculturale che accosta e confonde aspirazioni libertarie e nostalgie comunistiche, cagionando il decadimento della cultura e l’allentamento anarcoide dei costumi traditi, dei simboli aviti e dei patri principi etici; spento ogni slancio di fede, di passione patria; poi con il sentimento religioso dissolto ogni impulso interiore al sovrasensibile, all’immateriale, all’universale. Tanto per ciò che concerne il pensiero etico-politico; riguardo al settore degli interessi politico-amministrativi, cui breve accenniamo, siamo in pieno sconvolgimento. Inesistente lo Stato, fanno pletorica ressa le “autorità” locali, spesso personaggi da pochade, ma che contano, specie se ricevono appoggi indiscutibili e fanno il resto personalismi, nepotismi, familiarismi; eppoi ci son le famiglie che contano, quelle che contano per davvero e dove la fallocrazia è sempre in vigore. Insomma, ovunque piccole e grosse oligarchie, così in alto come in basso, piccoli e grossi regimi oligarchici paludati di oclocrazia; e già, la farsa del popolo sovrano: la massa vacca! per non dir popolo bue e arrecare oltraggio al sovrano? E qui ci tacciamo, non tocca a noi trattar certi argomenti, in specie la materia della sboccataggine, che lasciamo volentieri a lor signori; e non diciamo delle isteriche invettive, delle parolacce, dei cascami e degli scarti linguistici sulle labbra dei professoroni di turno, ma ci riferiamo al politically correct e soprattutto ai temi e agli argomenti scatologici trattati negli studi del piccolo schermo con il quale, come sapete, siamo in grande inimicizia. Oddio, scansiamoci! Scoperchiare il tegame tivvudico! a proposito non si dice bugliolo? Tegame o bugliolo, quando hai tolto il coperchio, il fetore . . . il fetore!
Sappiamo dalla commedia greca che nei tempi che furono democratici, Atene pullulava di politici e affaristi, per giunta, quindi, di delatori; epperò si diceva: sotto ogni sasso un politicante! a voler dire, come da antico proverbio, che vi si nascondeva uno scorpione, epiteto con il quale definivano anche i pubblici oratori. Voialtri che vi ci dedicate, nelle edificanti apparizioni tivvudiche di speaker, comizianti e declamatori/trici, non riscoprite adunque quella ugual stirpe di scorpionidi? Siete troppo assueti, vi lasciate all’istante adunghiare! È il gioco del democratismo tener stretti nel morso della scorpiocrazia i popoli, nelle angustie! e . . . mantenere così l’ordine pubblico! Non lo avete ancora scoperto questo loro spasso? Eppure, in tanti avete subito i loro nocivi giochi, e sulla vostra pelle, per tutta questa prima “dispotica” metà, ormai quasi trascorsa, dell’anno duro!
La democrazia, questa sommovitrice, non potrà mai dare una struttura organica, una reale costituzione, al popolo. Non trattasi di un semplice ordinamento statutario, questa è roba scritta, non intendiamo qui qualcosa posto sulla carta, ma una realtà vivente che ha una propria sostanza, uno spirito e un cuore, che come ogni essente è presente in un luogo della terra, quindi fa parte della natura, ha una propria forma che dura nel tempo ed è stabile perché gli deriva dall’ essenza originaria propria e da originale cultura, cioè vive di propri caratteri distintivi sui quali ha fondato un proprio vivente ordinamento nel corso dei secoli, sopravvivendo a moti, guerre e distruzioni. Questa è la sua reale costituzione, la sua organica struttura, il suo kràtos cioè la sua forza, il suo vigore, la sua potenza; costituzione ch’esso popolo ha messo al servizio d’un principio prevalente, sovraordinato e quindi ordinatore, di cui abbiam già detto avanti e nello scritto che questo precede. Quando quel principio viene misconosciuto intervengono disorganizzazione, sregolatezza e discordia, crolla lo Stato, il popolo perde il suo kratos, vien meno il suo organico vigore, la sua costituzione avita, nessuna carta statutaria lo salverà, e da un primato che lo avvantaggiava cadrà in servile confusione. Il popolo, qualunque popolo, non può fare a meno dei suoi Patres e quindi della sua Patria terrena nonché d’una Patria trascendente, quella lasciatagli in eredità dai suoi avi, la essenziale costitutiva sua Potestas. Abolendo la patria potestà la democrazia ha commesso patricidio e d’ogni patricida e parricida s’è fatta correa; ha svelato così il suo volto barbaro, ha messo a nudo il suo cuore viperino. Irreparabile misfatto! Si è ficcata in un cul-de-sac, in un vicolo cieco, e non ha da dove uscirne.
Con la negazione della Patria Potestas è stato distrutto il fondamento, il piedritto e l’architrave d’ogni umana civiltà; è stato tolto agli uomini il Cielo Padre e la Madrepatria, la terra avita; difatti, Patria, perché sempre dai Patres.
Quanto nostri maiores sapientius! O singularis sapientia! Ancora una volta, a distanza di secoli, con il latino accento di Cicerone siamo qui oggi ad affermarlo. Si! A riportare la luce nel mondo sarà la fiaccola inestinguibile di quella sapienza.
saturdì, XIII di giugno dell'anno duro