UBERITAS
vindimia - Liber

et
malum granatum - Proserpina
U B E R I T A S
frugum et fructuum, abbondanza di messi e di frutti in questa stagione!
Autumnus adest, fruimini, amici! Godetevi, o amici, questo ricco autunno! la vendemmia è stata felice; e se nella vostra cantina conservate un vecchio vino, fate un brindisi a questo robusto autunno dell’anno duro, ed esecrando la impotentia, ossia l’aberrante, abietta ‘potentia’, dei governanti del mondo in museruola, levate con franchezza il calice scintillante, e dopo aver libato a Liber pater, brindate alla prosperità dei suoi figli, i liberi! Tutti! allegramente brindate a questo autunno con quei preziosi, freschi e frizzanti senes autumni, felice locuzione latina che celebra i vecchi vini rievocando insieme le vecchie vendemmie; invero l’Età di Liber pater, la Città del Sole, il suo tempo, non ha termine, perché egli fu il primus auctor triumphi; Libero, il dio quirite, il padre che risveglia il coraggio; la sua patria potestà non tramonta mai, scade solo nei periodi di barbarie; tale auctoritas viene dalla librata ragione, dritto discende dalla divina potentia del Cielo padre, ne son degni i liberi e gli scienti, i debellatori della metropoli arrovesciata e corrotta, ove proliferano egoismo e viltà. Liber pater, la mens mundi, il SOLE dal quale negli uomini – con riferimento anzitutto al sapiente, al vir singularis – emana il principio intellegendi; il Sole, rettore e custode del buon consiglio.
Quattuor aequali caelum discrimine signant
in quibus articulos anni deus ipse creavit,
ver Aries, Cererem Cancer Bacchumque ministrans
Libra, caper brumam genitusque ad frigora piscis.
Quattro segni, a eguali intervalli, caratterizzano il cielo, in cui il dio stesso pose i raccordi dell’anno, Ariete portando la primavera, il Cancro le messi, la Libbra la vendemmia, l’inverno il capricorno e il pesce generato per il freddo. Sono i versi 656/659, II, in cui Manilio, trattando nei suoi Astronomica del cerchio zodiacale, si riferisce ai quattro segni che nel corso dell’anno, disposti nel giusto assetto, ordine e giunzione, dagli spazi celesti governati da essi cardini, provvedono ad approvvigionare i viventi sulla terra delle sostanze nutritive e l’uomo degli alimenti dei quali, con il concorso della natura, provvede sé stesso mediante le necessarie colture. Sono, nel corso dell’anno, le fasi culminanti delle quattro stagioni. Magiche durate d’un compiuto accordo, terra uomo cielo! Tutta la vivente natura, in sintonia con l’azione realizzatrice dell’uomo operante con giustizia e sapienza, palpita d’una divina armonia. Il tutto sotto il sugello d’un trascendente imperio. Ariete sotto il governo di Marte prepara la natura intera, animale e vegetale, a dar frutto; il Cancro manifesta la divina Cerere nella produzione delle messi, i frumenti, i cereali, le biade e tant’altro; la Libbra con il dio che predilige i dolci succhi, Liber pater, pur nell’aspetto del bacchico vinificatore, celebra la raccolta dei frutti e la vendemmia; infine, il caper genitusque ad frigora piscis porteranno l’inverno; la terra riposerà nelle brume, mentre la natura si ritrarrà intirizzita, serbando ascosa, per il prossimo risveglio, la sementa in quel caldo terrestre grembo. Al centro del circolo zodiacale, tra le dodici figure di viventi con i loro segni, la sintesi, l’UOMO, e in interiore viro, il grande compito, la cosmica opera.
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Chiudiamo qui la nostra riflessione astrologica sostenuta dai versi del poeta augusteo Marco Manilio racchiudenti un suggestivo e significativo richiamo alle stagioni dell’anno; l’autunno v’è indicato con una sola parola, Bacchum, che evoca la vendemmia, la latina vin-demia, la raccolta dell’uva, infatti Virgilio dice vindemia per uva, “non eadem arboribus pendet vindemia nostris, quam . . .”, non la stessa uva pende dalle nostre viti, etc.; e vindemia (vin- emo, significa ‘ricavo il vino’, dal verbo lat. emo, emi, emptum, emere = comprare, ricavare, guadagnarsi); quel vino che non solo frutta il guadagno nei commerci, ma giova altresì agli uomini per riequilibrare gli umori e tener su l’animo nei momenti difficili, come sostiene l’altro vate augusteo, Orazio: “spes donare novas largus amaraque/curarum eluere efficax.” Letteralmente: ‘pronto a donare generoso rinnovellate speranze e a dissipare l’amarezza degli affanni’. Insomma nella sua ode a Virgilio, la 12 del IV libro, a dir d’Orazio, il buon vino versato da un orcio recuperato nelle cantine del vinaio Sulpicio, cura ogni male.
Questo rovistare ancora nei fatterelli della nostra antica gente, non è solo un leggere le carte per curiosità letteraria e intellettuale indagine, ma un familiarizzare con quei tempi al fine di risvegliare il ricordo e quelle anticamente innate facoltà del sentire con la mente e con l’animo, oltre il sensorio e l’arido esercizio intellettuale; riteniamo sia il modo più appropriato per rappresentare oggidì, su questa scena occupata dalle ombre, quella forza preminente che genera ogni cosa e rettamente opera, che nulla ha a che vedere con la invalsa talentosità, la cerebralità dell’uomo desertificato, che si disperde nell’astruseria tivvudica e nell’intellettualità modernista, nel culto maniacale della tecnicalità, nella ossessività progressista, nella fanatica isteria che alimenta la democrazia spatriante e mondialista. In breve la trista superstizione che presume sottomettere l’esistente e la sua libera naturale costituzione ad un costituzionalismo astratto in dettami cartacei; a norme, difatti, distaccate dalla realtà, dall’esserci qui e ora, estranee, così indebolendo e annichilendo l’autorità politica fattuale che un dì aveva il suo massimo compimento nella costituzione divina e umana della patria potestas. Questo tradimento dell’ESISTENTE, disconosciuto nella sua realtà trascendente e immanente dalla egemone, proterva ateologia, ha abbandonato le nazioni e le genti ai disegni e alle mene disumananti di spregiudicate, tiranniche oligarchie apolidi. L’apolide, il senza patria, è colui che ignora e quindi manca del principio vivifico, reggitore, ovvero del generatore, genitor, che con la vita dà anche la forma (alla materia tutta); è quindi, l’apolide, colui che ha disconosciuto il progenitore, che ha smarrito il gentis auctor e datore dell’essere, il Genio della stirpe; non ha un lignaggio, genus, non ha una sua gente, soltanto un inquieto individuo fra tanti e pertanto, ingeneroso, incolto, egoista, anarcoide; difatti, generoso è colui che discende da un genus, è di buon lignaggio e coltiva il suo spirito; l’apolide è misantropo, falso, insincero, ineducato; mai rinverrà in sé un affidabile Mentore, non incontrerà mai fuori un maestro. Un iniquo disegno vuol fare delle nazioni degli uomini, delle genti della terra, grigie accolte di apolidi. Un mondo di senza patria nell’era cupa della tirannia atomica, quando il tiranno non ha volto, né importa a lui d’esser riconosciuto ed omaggiato o di ricoprir cariche e scranni; ci son turbe d’imbelli e asini nati a supplirlo in quei ridicoli lavori, e a costringere le masse dei servi alla museruola; desso, il padreterno, se ne sta su un satelloide a fare tutti i santi dì il giro orbitale intorno alla Terra. Tende l’orecchio . . . Sale ancor da laggiù a lui la voce mesta, ‘sia fatta la volontà tua’? C’è di meglio, son laggiù tutti muti e in museruola. Il Covid gliel’ha mandato lui, e vale il lancio d’un’atomica!
E or qui, chi vuol rider con noi, rida pure! Come scriveva Rabelais, “il riso l’uom dalla bestia distingue”, ed a ragione, infatti non è possibile manifestar gaiezza con una risata schietta e sincera standosene rattrappiti e a cuccia con la museruola.
E allora . . .? Ebbene, c’è un popolo che deve di necessità liberarsi e risollevarsi. Un piano scellerato vuol fare di questo popolo una folla indistinta, inetta, improduttiva, un trascurabile popolaccio, cancellandone totalmente la storia, ignorandola, contraffacendola già sui banchi di scuola. Un perverso intento, a far sì che da sé stesso si distrugga e si riduca a una misera presenza biologica di turbe disorientate e disperse nelle apolidie. In tutta coscienza, e anche perché lo avvertiamo nel nostro intimo, possiamo affermare che tal cosa non accadrà; sforzi, conati a riaversi, s’ intravedono qua e là, se pur goffi e grotteschi, oltre quelli mossi da certa intellettualità assecondante la democratic compliance, che invero paiono del tutto fiacchi, indistinti, cedevoli, anche considerata la base ideologico-culturale e le convinzioni di tal dotto ceto, non in grado di rimuovere la bigia palude. Intanto questa gente è in forse tra gli USA e la Cina; ieri propendeva per Trump, oggi per Ping, domani si dividerà tra Donald e Xi Ji. Composta e servizievole verso la straniera potestà, nei suoi affari interni è continuamente scomposta e discorde, senza escludere ipocrite convergenze oppur false divergenze; ognora il Chiericato benedicente, e all’occorrenza questi sempre prevalente. E . . . di male in peggio! Quale disperanza per i timorati e scrupolosi credenti nel verbo democratico, che acerbamente affannano a cercar rimedi!
In quest’anno duro, nonostante il pessimo, anzi calamitoso governo del mondo, noi abitatori del Belpaese, abbiam ritrovato la nostra fiorita primavera, i solari giorni d’una nostra estate con la sua ricca cesta di pomi, l’ubertà di messi e di frutti e la felice vendemmia di questo autunno, mentre si son presentate prospere anche le bacchiature; accoglienti ci son venute incontro le italiche stagioni. E ciò malgrado il Covid e lo sconcertante covidiolismo che ne è derivato, e in più la iettatoria messa in scena “governativa” di sventati attorucoli che non riescono a far calare un pietoso sipario sul loro grottesco dramatis personae.
Quattuor aequali caelum discrimine signant, e proprio così come voluto dal quel celeste assetto abbiam visto avvicendarsi tra l’Alpi e il mare, umbilicus mundi, le nostre stagioni, tutte con l’aureo segno della UBERITAS, l’antico saturnio vestigio, il segno memore d’ un inestinguibile perseguire, di cui non possono esser smarrite le tracce. C’è in quel segno l’azione dello stesso iddio che pose e assicurò i raccordi dell’anno e che quando fu il tempo destinò al mondo una sola incantevole, ubertosa stagione. Tal aureo segno, un solo inseparabile prezioso filo, e il suo manifestarsi, anche in quest’ anno duro di grossi dissesti e di disorientamento per i più, ci conferma la volontà di quell’iddio e il suo provvido operare, acciò torni il compiuto ricordo dell’Auctor Gentis e si rimanifesti il Genio della Stirpe; con esso probitas, iustitia, verecundia, Salus, in armonia con le tradizioni degli avi, il mos maiorum, e con le cure della Patria Potestas, nella piena luce della Aeternitas Romae. Il mondo è in subbuglio e sempre in maggior disordine, l’Europa è malmessa, inferma; il popolo italiano deve uscire dalla situazione difficile, dalla strada senza uscita in cui s’è cacciato; deve questo popolo, con secco dire, riscattarsi; ciò richiede un duro combattimento, il battersi insieme contro quello che è un suo ormai ultra millenario vizio divenuto una abiezione, il servilismo, “Ahi serva Italia . . .”, ostello di viltà! E, ancora, battersi contro l’approssimazione e la sciattezza. Combattere per tornare all’ordine civile, all’armonia di quella civiltà dell’essere ch’è alla sua radice e di cui la gente latina fu autrice e guida ai popoli. Che sarebbe il mondo se non ci fosse stata Roma? E dove va precipitando oggi il mondo senza quella luce e quella voce? Combattimento, pensiero e azione, nella munita cinta dell’Idea Romana. L’oscurità è scesa sul mondo, eppure in tanto buio c’è attesa; ma per combattere nel buio occorre che s’accendano le torce. E siano torce che ardono non per ambizione, non per bramosia di potere, per smania di protagonismo, per propositi di parte, ma risplendano nei rischi e nel duro sforzo d’ una impersonale fortitudine e generosa audacia. Combattere per il giusto ordine del mondo, per la visione – IDEA – Romana del mondo. Per la uberitas frugum et fructuum, per la prosperità delle stagioni e delle genti, per la salvezza dei popoli. Per la salute dell’Urbe e dell’Orbe.
Questo scritto, deciso nel segno della Bilancia, viene pubblicato nel presente che Manilio designa pugnax = propenso all’azione, alla lotta: “pugnax Mavorti Scorpios haeret”, ‘dipende da Marte il pugnace Scorpione’. La figura zodiacale ‘rifulgente d’astri che ardono, alla cui coda tende l’arco l’ibrido equide pronto a scoccare l’alata saetta’:
. . . ardenti fulgentem Scorpion astro,
in cuius caudam contento derigit arcu
mixtus equo volucrem missurus iamque sagittam.
martedì, XXVII di ottobre dell'anno duro
et
olea - Minerva
