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APERIRE (21 APRILE)

                            

 

 

A  P  E  R  I  R  E

 

 A  P       R  I  L  E

 

 APRITE LE MENTI APRITE I CUORI

 

 

Agnosco veteris vestigia flammae

                               VIRGILIO, Eneide

Conosco i segni dell'antica fiamma

                                             DANTE

 

 

LODE DI VIRGILIO ALLA PRIMAVERA

 

 

   La primavera giova alle fronde dei boschi

E giova alle selve, mentre si rigonfiano

Le glebe e richiedono il produttivo seme.

Allora il padre, Etere onnipotente scende,  

Pioggia   feconda, alla lieta coniuge in grembo,

E ad essa unito, amplissimo, ei nutre ogni germe.

Boschi arcani risuonan d’uccelli canori,

Gli armenti a Venere volgon nei giorni dati;

Almi maturano i campi, e i pascoli al soffio

Tepido di Zefiro dischiudono il seno;

Or ridonda per tutti una giovine linfa,

S’affidan sicuri i germogli ai nuovi soli;

Né il pampino teme gli Austri che si destano

O la pioggia addensata nel cielo dai forti

Aquiloni, ma gemmante mostra le fronde;

E crederei ch’al dì sorgivo del mondo

Non risplendesse stagion diversa da questa

O avesse un dissimile corso: era quella

La primavera e perenne pel vasto mondo

Fioriva, ignoto degli Euri il soffio brumale. . .

                                                       GEORGICHE, Lib. II (ns.traduzione)

 

   Aperire, aprire in italiano, è il verbo latino da cui deriva anche il nome Aprile, il mese in cui i semi germinano, i pascoli schiudono il rorido suolo alle erbe e alle biade e le piante e gli alberi fruttiferi germogliano fiori; il mese in cui la natura si prepara a generare, a produrre quae terra parit. Nel linguaggio figurale Aprile, “redimito di fior purpurei” (Carducci), indica una perenne giovinezza. Nei Saturnaliorum Convivia, Macrobio: “… eaque omnia verno id est hoc mense aperiantur, arbores quoque nec minus cetera quae continet terra aperire se in germen incipiant, ab his omnibus mensem Aprilem dici merito credendum est, quasi Aperilem.” (Tutto con la primavera si apre, e proprio in questo mese anche gli alberi e così tutte le altre cose che la terra produce cominciano ad aprirsi in germoglio; deve giustamente ritenersi che da ciò derivi il nome di Aprile, quasi Ap(e)rilem, cioè un “aperiri, un aprirsi”).

   Semplicemente, quel tempo primaverile come descritto da Virgilio nelle sue Georgiche con gli splendidi esametri da noi riportati nella pagina musicale dedicata sopra al vernum aequinoctium. Sì, è proprio vero, a noi piace questo scriver tempestato, anzi meglio, costellato di latina verba; non è forse vero che l’italico puro in quei tempi era proprio il Latinus sermo e l’italiano puro non altro è che il nostro latino d’oggi? E non vogliamo anche opporci, prima che sia troppo tardi, alla volgar moda che contamina con l’americanese la nostra solare favella? Barbariche vibrazioni vocali, aspramente primitive, colpiscono ormai giornalmente il nostro udito (primeggia la zelanteria radiotelevisiva) e inavvertite sconcertano la nostra facoltà uditiva, guastandone i corretti stimoli e corrompendo la giusta percezione delle emozioni, falsandone ogni vibrante, misurata armonia.  Ciò produce malessere mentale ed emozionale negli individui e addirittura instabilità nelle società. Quanto invece è salutare il latine loqui, il dono del libero, facoltoso, affabilmente facondo favellare! Il nostro favellare italico. Pronunciamo, per esempio, ad alta voce la parola SALUS, l’ampia vibrazione del suono vocale dispiega nella nostra mente, un influsso illuminante, al pari d’un adflatus divinus. Da detto vocabulum, in tal illuminante vocare, salutare per la mente e quindi per il corpo, i Romani inaugurarono un nome divino, evocando ed invocando la dea Salus, e a lei eressero un tempio sul colle del Quirinale. Con questo inciso abbiam voluto confutare, ma niuna stizza, un rimprovero che ci è stato mosso; non è per desidia che “di frequente sono omesse le traduzioni dei testi latini”, ma per ottenere quel beneficio di cui abbiam testé detto, quell’illuminante vocare, e promuovere la consuetudo sermonis nostri, del latinus sermo, e così anche l’uso corretto della nostra italica lingua. E poco importa l’intender tutto e alla perfezione, non importa cerebralmente, quel che importa è soprattutto vocare deos e ad patriam gentes vocare suam. E infine noi siam proprio contenti d’avere per testimone Aprile, il benefico Aprile di quest’anno, Signifer solare e piovorno, sempre contenuto e mite, di questa primavera dalla gioiosa natura, che abbiam voluto e continuiamo a festeggiare, dedicandole, cum verna alacritate, la traduzione in versi degli esametri virgiliani con i quali abbiamo già celebrato lo scorso equinozio.

   Nello stabilire l’etimo di Aprile da aperire, Macrobio si attiene alla testimonianza di studiosi quali Marco Varrone e il giurista Lucio Cincio, entrambi convinti che il mese non prendesse il nome da Venere, come ritenuto da coloro che lo fan derivare da αφρóς, la spuma del mare, da cui i Greci ritenevano nata Venere, perché   sconosciuta tal narrazione ai tempi di Romolo. E comunque, così seguita: “Et hanc Romuli asserunt fuisse rationem, ut primum quidem mensem a patre suo Marte, secundum ab Aeneae matre Venere nominaret, et hi potissimum anni principia servarent a quibus esset Romani nominis origo, cum  hodieque  in sacris Martem patrem, Venerem genitricem vocemus”. (E ci son coloro che ritengono d’aver Romolo stabilito di chiamare il primo mese dell’anno con il nome di suo padre Marte e il secondo Venere, nome della madre di Enea; dovean presiedere l’inizio dell’anno coloro principalmente che al popolo romano avevano dato origine, ed è così che ancor oggi nelle ricorrenze sacre invochiamo Marte padre e Venere genitrice).

   Tra quelli che collegano aprile al nome greco di Venere, Aphrodites, c’è anche Ovidio: “sed Veneris mensem Graio sermone notatum/auguror: a spumis est dea dicta maris”. E accredita la supposizione con la presenza sul suolo italico di genti di cultura greca, la Magna Grecia, la venuta di Evandro e di altri colonizzatori Greci. Pertanto sostiene che v’è chi per invidia vuol togliere a Venere mensis honorem, l’onore del mese, e poiché la primavera aperit omnia“Aprilem memorant ab aperto tempore dictum,/quem Venus iniecta vindicat alma manu”. (Dicono che Aprile sia chiamato così dalla stagione che apre ogni cosa, ma Venere con la mano protesa lo rivendica a sé). Aggiunge ch’ella, degna di reggere l’intero universo, non ha meno poteri d’alcun altro dio e son sue le leggi che agiscono nel cielo, sulla terra e nel mare da cui è nata, per suo volere esistono tutte le specie animali e vegetali. Ella creò tutti gli dei. E seguita con un lungo elenco e, poi, qual tempo è più appropriato a Venere della primavera? Chi oserebbe spogliarla del vanto del secondo mese? Da tal follia lui, Ovidio, si tien lontano.

   Ovidio, indubbiamente un grande poeta e letterato di vasta dottrina e cultura, partecipava, va osservato, per sua propria indole della mondanità afrodisia e volentieri di quei costumi; quindi non viveva profondamente, non sperimentava con l’animo la realtà spirituale romana fino in fondo; incostante, non vi tendeva con tutto il suo spirito; non era attento e assiduo a quella realtà rigenerante la romulide essenza, e che andava rimanifestandosi con la maestria di Augusto. Quindi non prenderemo in considerazione l’etimo di Aprile ch’egli propone, ma ci atterremo all’autorità di Cincio e di Varrone accolta anche da Macrobio. Ed insieme riterremo esser Venere la divinità principale e reggente la Vis di Aprile, così come Marte per il mese di Marzo.

   Pertanto non bisogna complicare e letterariamente aggrovigliarsi, per palesare il buon costrutto occorre ricorrere al verborum ordo, esprimendo semplicemente i significati delle cose o dei fatti nella loro valenza vera che è quella insita nel segno e propria di esso; significare s’intende anche portare alla conoscenza e questo avviene soprattutto con le parole. Aperire/i, questo verbo che contempla l’azione dell’aprirsi, contiene in sé il segno d’Aprile, il mese in cui tutto sboccia e s’apre, mire, per veneria magia“Ella altamente degna di regger tutto l’universo,/minor poter non ha degli altri dei,/ al cielo dà leggi e alla terra e al mare. . .”Così Ovidio canta appunto nei Fasti la siderale magica potenza di Venere, ed evoca la divina bellezza della dea dell’Amor puro congiunto alla forza di Marte“et formosa Venus formoso tempore digna est,/utque solet, Marti continuata suo est.”/ (E Venere bella è degna della bella stagione, e sempre segue di continuo Marte, il suo benamato). Vis et AmorROMA.

   Quel 21 Aprile, dopo il volo dei dodici vulturi sul Palatino e la fondazione dell’Urbe, anno 753 di Roma, tale era il divin Genio che dirigeva l’animo e l’intelletto della Gente romulea e sovrintendeva all’alta Opera. Una nuova progenie, infatti, era all’0pera perché nascesse e si ergesse nella luce una cosmologia nuova. Vis et Amor, ROMA. Era quella Romulea una progenie rigenerata, allevata e guidata da sapienti. In quella natura resa sublime, elevata ad una dignità somma, si manifestava una luminosa realtà, presiedeva la dea dei sapienti, la dea Urania dell’Amore puro, che non contamina. Una natura di gran forza, ma anche inspirata ad armoniosa bellezza e retta da integerrima fides, come detto nei due serrati versi di Ovidio. Non era il luogo dell’Afrodisia dea, la dea dell’amore profano, volgare, del venerius amor“da contenersi nella legge demetrica, per sublimarlo nell’istituzione del coniugio, al fine della procreazione e educazione della prole”

   Il tema l’abbiamo già sviluppato nello scritto VENUS NOSTRA, nella pagina significativamente intestata: DISCRIMEN: SUPREMUM CERTAMEN, cui rimandiamo il lettore interessato. Rimane ignota la pratica del culto di Venere a Roma e nel Lazio in quel tempo mitico; secondo Varrone e Cincio in quel periodo era sconosciuto ai Romani persino il nome di Venere, come tramanda Macrobio, ed è possibile che quei nomi fossero loro stranieri. Noi riteniamo giusto che sia così, che ci sia mistero. Una dea celeste che s’accompagna a un dio virile, guerriero, a Marte: è ben da ritenersene l’arcaicità, per di più il carattere magico di questo ente divino, il suo mistero uranico, che tende di certo ad occultare la magicità d’un sidereo rituale.

   In epoca storica, repubblicana, alle Kalendae di Aprile si celebrava Fortuna Virilis e Venere Verticordia; su un piano orizzontale, pubblico, s’intendeva procacciare il favore del principio generatore e di Venere perché volgesse i cuori femminili alla concordia familiare, al legittimo coniugio e alla procreazione dei figli. Al di sopra di queste esigenze meramente sociali intese a salvaguardare la prolificazione e a mantener sano il costume, primariamente, e basta togliere il velo profano, scorgiamo l’azione di quella divina unione, di quell’integerrima fides operante, scorgiamo il Marzio Nume e l’intemerata sua Amante, l’Urania Dea. VIS ET AMOR.

   Fortuna Virilis, la forza e il coraggio del Vir (il vocabolo Fors, abl. forte, fortuna, sorte, ha solo nom. e abl. sing.), e l’innominata dea del periodo regio- romuleo, la dea dell'Amor sapiente, che verrà celebrata nei tempi storici col nome di Verticordia, colei che disserra i cuori. Verticordia (vertex, verticis) è un richiamo all’anima umana che evolve in verticalità, per virile virtù, fino ad un punto apicale, al vertice siderale. Ed è un richiamo, Verticordia (verto, ӗre, volgere, girare, arare), al cuore dell’uomo e a quel suo armonico battito che forma quella vibrante, risonante sfera nel cui centro è presente, ancestrale e perenne, quel monito, quel ricordo, il VIR degli antiqua tempora, della Saturnia aetas.

   Quel 21 aprile del mitico anno, sul Palatino, dalle sapienti latebre del Lazio, al dischiudersi dell’immortal seme, il valente regale Aratore vide nuovo il mondo e sacralmente risplendere nel riaffiorar dell’ORMA Saturnia, e vide il baglior del RAMO d’Oro sul rifiorito Albero della Vita, e s’udì anche un battere armonioso, il viril pulsare d’un cuore nel Cosmo.  

 

 

 

 

IL CANTO DELLA FIORITURA

 

 

   All’equinozio di primavera abbiamo invitato tutti i nostri amici e lettori a rivivere in concordia questa nostra bella stagione italica, rifulgente splendore che virgilianamente ritorna dall’origine del mondo nascente, dall’età di Saturno a questa nostra Saturnia Tellus.

   Dedicammo quindi al festoso richiamo di tanto splendore alcuni versi augurali con una nostra composizione musicale, tutti voi invitando al canto. All’invito hanno risposto amici ed amiche. Udrete la giovanissima e vibrante voce di Beatrice e le altre che coralmente han partecipato.

   A tutti felice primavera!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vien dalla gente antica

 

tanto fu saggio il padre

 

tant’è saggio il figliolo

 

felici madri e spose