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CREDULITAS-CRUDELITAS

il Fiore della Vita
il Fiore della Vita

                         

 CREDULITAS – CRUDELITAS

 

«Non il fatto che mi hai ingannato, ma che io non ti

credo più, m’ha profondamente scosso». Nietzsche

 

 

   È tenuto el Signore [da intendersi colui che vuol essere padrone di se stesso] di non essere troppo corrente a credere. Onde dice F.P.Fulgezio: Credulitas est facillima deceptionum mater. Dice che ‘l credere stemperato è radice degli inganni; cioè che non dobbiamo credere certe le cose, se non si veggono e toccano. (M. de’ Corsini)

  Se non si veggono: se non si è in grado di sapere, di distinguere, di cernere, di separare e quindi di poter riconoscere il giusto dall’ingiusto; in breve, se non si ha la conoscenza.

  Se non si toccano: se non si conseguono, non si ottengono; cioè se non si raggiunge quel bene che si vuole, meglio, se non si perviene a quel che si sceglie, si elegge.

  E in tal senso il vedere e il toccare non possono esser disgiunti, perché la conoscenza vera non può che essere distinta, perciò eletta.

  Quanto sapere è nelle parole, e quanto sapore! e quanta significativa benevolenza è in esse, purché vi sappiate orientare tra gli incunabula della loro infanzia, volendo intendere, con tale espressione, quello stato di grazia che è proprio del principio primo, di quell’origine che ama nascondersi come diceva l’Oscuro, l’‘occultato’ od anche ‘colui che occulta (la parola?)’, Eraclito.

  E quanti significati nascosti può svelare o rammentare una parola, una frase, a condizione che abbiate la vanga adatta, e di sovente per la natura propria del verbo, cioè senza la consapevole intenzione dello scrivente; segnatamente, poi, se l’espositore ha una soddisfacente familiarità con i nostri classici e con le lingue classiche.  Irrinunciabile pregio della nostra lingua natia, che s’apre a paesaggi immensi e rievoca gloriose ere ancor irradianti luce di giustezza e di vero! Formatasi nel grembo della nobile lingua latina che a sua volta derivava da una poderosa lingua diffusa sulle terre d’Europa e fino alle lontane propaggini dell’India, la nostra è la lingua del sonoro lucente – sì – dal latino sic est, l’affermazione assoluta che discende da retta conoscenza e da una fede che non vacillano.

  Le espressioni anglosassoni yes, all right, okay sono termini assertivi di mero assenso, adesione, accettazione di disposizioni ed altro, equivalenti ai nostri: certo, va bene, chiaro, ovvio, proprio così, eccetera. Espressioni chiuse, limitate, ma abusatissime nelle vicende e nelle faccende quotidiane e nei settori contrattuali e della negoziazione Questo è il motivo precipuo per cui i moderni imperialismi commerciali, tentando di restringere i popoli nelle anguste regioni della globalizzazione, impongono la supremazia dell’inglese e ne rendono obbligatorio l’apprendimento a livello internazionale. In Italia la scuola aziendalizzata e indirizzata ormai, secondo modelli didattici anglosassoni, a formare capitale umano per la concorrenza sui mercati, lascia che l’anglismo devasti dall’interno la nostra lingua, e le genti del bel paese là dove ’l sì suona si danno alla parlata dei trafficanti, all’imbarbarimento mercantile, tradendo il patrio idioma.

  L’irraggiante, rischiarante sì, il propizio, fausto, amicale suono è quasi disusato ormai, troppo vincolante, grava appunto, incombe come un vincolo nuziale! A tal punto salta su il nostro scapolo, Tom, dalla sua poltrona collezionistica: – Beh, quello è stato un serio scherzo da preti durato per secoli! Io non ci sono cascato. – E stringe tra le dita un francobollo divorzista.  L’intervento di Tom ci sorprende e ci lascia pensosi, ma è tutt’altro e lungo discorso, perciò proseguiamo. Le genti del bel paese oggidì preferiscono sonorità alla moda, sonorità anglosassoni: gli okay, gli all right e gl’ yes pronunciati alla newyorchese. A dire la verità un all right pronunciato distrattamente, anche se ben marcato alla newyorchese, può equivalere a un “va bene” che un’ora dopo può mutarsi disinvoltamente in un “penso di no”, e quel tale propenso a intendersela con Tizio, in un volger breve si sottrae per dar l’assenso a Caio, ch’è in dissidio con Tizio. Ma accade anche di peggio quando non si ha riguardo per la propria lingua natia e non la si usa seriamente, con proprietà. I governanti, per esempio, dovrebbero custodire la libertà della Patria e provvedere al bene pubblico, dovrebbero perciò esser franchi e chiari nel parlare alla gente e parlar semplice e bene, senza alterare il senso delle parole e imbrogliare il linguaggio, né involontariamente per ignoranza o inettitudine, né artatamente. Chi si propone per il governo d’un popolo non deve mentire; deve dunque conoscer bene la patria lingua. Recentemente abbiamo sentito promuovere una formula, il governo del cambiamento, ma senza specificazione alcuna (forse vuol intendersi governo dell’innovazione?). L’azione del verbo cambiare, infatti, può dar luogo a variazione, mutamento, rovesciamento, sostituzione ed altro. Il cambiamento, a sua volta può essere in meglio ma anche in peggio o può essere un cambiamento di forma e non sostanziale. Cos’è il governo del cambiamento? Ci dicono esso è indicato nel programma, ma un programma va sperimentato e infine attuato e la sua attuazione quali cambiamenti produrrà, quali frutti? Vallo a indovinare! Si tratta di una formula demagogica, ed il popolo credulone, ingannato, esulta e plaude al caporione di turno. Il popolo, in verità, attende un rinnovamento e una rinascenza patria; non un cambiamento qualunque, ma uno svecchiamento e una rifioritura, doveroso compito che richiede decisione e volontà ferma, un energico sì. Ci dicono che, per questo immaginario cambiamento da promuovere e governare, due fazioni avverse hanno elaborato e sottoscritto un contratto ideato da giovani russoiani, cioè seguaci del pensiero politico e pedagogico di Rousseau. Il calvinista, poi deista, Jean-Jacques cessò di vivere in un giorno del lontano luglio 1778, ben duecentoquarant’anni fa e le sue dottrine politiche non hanno retto e non ci risulta che siano state un tocca e sana, la popolare mano santa, per i malanni dell’umanità; quelle sue illusorie dottrine sono schiattate da tempo e con esse il suo uomo nuovo, nonostante le avesse avvolte nel fascino d’una scrittura preromantica. Altro che metodi innovativi, siamo nella bottega d’un robivecchi del XVIII secolo! E’ da lì c’han tirato fuori l’ideuzza venata d’infantile romanticismo del contratto. Il contratto? Ma, scusate, un contratto non ha alla base come componente essenziale la costituzione di un rapporto giuridico? E allora, qual valore può avere nei confronti della Costituzione italiana e qual potere giuridico vincolante tra le parti che lo hanno sottoscritto un tal contratto di governo, e per giunta intempestivamente roussoiano?  Un omaggio dunque alla vaga ideologia contrattualistica di Jean-Jacques e al suo deismo naturalistico? Oh, ascoltate la cosa buffa, il pettegolezzo che ci han riferito! E quali ipocriti sincretismi! I due capi politici, sottoscrittori del picaresco documento, son due baciapile; l’uno, il napoletano, è devoto a san Gennaro e l’altro, il lombardo, nei suoi comizi professa il rosario e il vangelo di Matteo. Per di più han designato come Capo del Governo un devoto a Padre Pio, un cattolicuzzo dal muso volpino. E, a questo punto, amici lettori, è affidato al vostro acume politico comprendere chi ha preparato il teatrino. E diteci, per cortesia, non pare anche a voi, che sarebbe risultato più onesto nei confronti della gente e italianamente corretto definire un accordo politico tra due partiti col termine giusto d’intesa o meglio di patto, con buona pace degli invaghimenti roussoiani?

  Di recente il sangennarista roussoiano ha definito il sognato “governo del cambiamento” una “rivoluzione gentile”; è questa una espressione che denota una guelfa effemminatezza, oppure il termine gentile è stato involontariamente usato a voler intendere la Gentilità, cioè un preannuncio della rivoluzione che richiamerà sotto il sole e su questo italico suolo l’originaria virtù della nostra stirpe? Eppur si muove e avanza un agente segreto che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini.

   Di che vi dolete? Cosa deplorate? Vi angustiate perché avete perso il filo e non riuscite a venirne a capo? Vi sentite piantati in asso da chi è in possesso di tutti e quattro gli assi? Incolpate voi stessi di sì misera condizione! Siete incapaci di pronunciare il fatidico sì, di imporre a voi stessi l’affermazione assoluta, di divinare la Patria vera, la patria immortale. Incolpate la vostra credulità, la vostra sottomissione all’ingannatore, all’infame Disgregatore! Smettete di piangervi addosso! Smettete, o voi creduli, la credulità! Smettete di esser crudeli con voi stessi! Qual dabbenaggine la vostra, lasciarvi sommergere dagli okay e all right e yes yes yes all’infinito; e por tanta fede nella vostra credulità.

  Ahi! Quella vostra fottuta paura di calarvi nella tana del Drago! 

  

*    *    *

 

   La guelfa “rivoluzione gentile”, mancante di maschia audacia, fallirà; per ora nulla cambierà, ma prenderà sempre più vigore la rivoluzione della Gentilità Italica.  Con l’avvento d’un virile lignaggio in grado di suscitare una rinnovata concordia e una forte, virtuosa comunanza di stirpe, si desterà una gente non più asservita, del tutto affrancata dalla superstizione e dalla credulità.

    Superstizione e credulità, madri di tutti gli inganni, riducono gli uomini alla schiavitù e alla inumanità (crudelitas). Le genti italiche devono necessariamente risorgere, come popolo guida in Europa, per far fronte alla diffusa barbarie. Ciò urge!

   Tanto abbiamo voluto per via di sintesi significare nella paronomasia del titolo.

   Ed eccovi, amici e lettori, a far fronte ai distintivi del guelfismo degenere, un simbolo patrio, antico e perfetto simbolo della rivoluzione della Gentilità Italica. Simbolo di unità e concordia. Simbolo che percorre tutta la nostra penisola dalla Camunia all’estrema Daunia: il Sole dell’Alpe o Fiore dell’Appennino, ovvero il Fiore della Vita.