L'ORECCHIA DELL'UOMO
L’ORECCHIA DELL’UOMO
Lume v’è dato a bene e a malizia,
E libero voler; che, se fatica
Ne le prime battaglie col ciel dura,
Poi vince tutto, se ben si notrica.
Dante, Comedia-Cantica II,C. XVI
L’orecchia, altra è interiore, altra esteriore. L’esteriore non fu fabbricata dalla natura né d’osso, né di pura carne; ma di una cartilagine, foderata, come tutte l’altre membra, di pelle. Non fu ella formata d’osso, perché, sì dura, potea facilmente infrangersi; massimamente nel posarvisi su, quando l’uomo giace. E poi, quale incomodo non avrebbe ella arrecato al dormir di lui! Né fu parimente formata di pura carne, perché non avrebbe potuto ritener sempre la sua giusta figura; quale si ricercava e per la bellezza del volto, e per la bontà dell’udito; dove ogni alterazione è di grave sconcio.
In mezzo ell’ha un piccolo foro: il cui uso men nobile è ripurgare il celabro dalla bile. E pure questo medesimo fu grand’arte: perché quell’umore amaro ed appiccaticcio che colà piove, vaglia a trattenere ogni piccolo animaletto che per quel foro s’insinui dentro l’orecchio; o vaglia a scacciarlo.
Tortuosa, oltre a questo, è la via di entrarvi: e ciò perché l’aria, commossa da qualche suono troppo impetuoso, non offenda l’orecchia interna, percotendola tutta di primo colpo. E si termina la detta via a quel che chiamano timpano dell’udito: che è una membrana gentilissima ed asciuttissima, soda, e tesa a un circolo d’osso, come appunto la pelle sta sul tamburo. E’ gentilissima, affinché sia sensibile ad ogni piccola vibrazione di aria che porti suono. E’ asciuttissima, affinché sia sonora: altrimenti, come sarebbe sonora essendo umidiccia? Ed è soda, e tesa, affinché si risenta a qualunque tremore, ma non s’infranga.
Nella superficie esteriore di questo timpano v’è un nervettino, tirato come una corda; nell’esteriore, tre ossetti chiamati stapede, ancudine e maglio, dalla figura che hanno, e insieme dall’uso. Il quale è, che il timpano, mosso da quel tremore che, in propagarsi nell’aria, produce il suono; comunichi un tal tremore a quelli ossicelli; e per essi lo renda sensibile ai nervi quivi attaccati, e pei nervi al celabro.
Quindi è che di tali ossicelli fu con mistero il numero parimente e la qualità. La qualità, perché se non fossero stati ossi, ma nervi; o lenti, non avrebbono riportato il suono a ragione: o tesi, l’avrebbono, con le loro ondazioni, raddoppiato a un tratto, e confuso. Il numero, perché se non erano più ossi ma uno, questo per la sua lunghezza e sottilità, si saria di leggieri potuto rompere. Che però fra mille osservazioni stupende che di vantaggio potrebbono da noi farsi in sì bella fabbrica, basti questa: ed è, che essendo nei bambinelli di latte, poc’anzi nati, tutte le ossa tenere, e tutte le membrane tenere e molli; quelle membrane e quelli ossetti che servono all’udito, son, per contrario, non meno duri ed asciutti che negli adulti. Altrimenti tutti nascerebbono sordi.
PAOLO SEGNERI, Incredulo senza scusa

Lo scritto del Segneri su riportato risale alla seconda metà del ‘600 e indubbiamente la materia di cui tratta, fisiologia auricolare, avrà subito aggiornamenti quantomeno delle nozioni anatomiche e nella terminologia, ma ciò, per quanto concerne il nostro arguire, non avrà alcuna rilevanza. Alla prima, quel che immediatamente avvince il lettore è come l’autore abbia saputo esporre, in stile semplice ma forbito, la bella fabbrica eseguita dalla natura nel portare a perfezione questo organo essenziale del corpo umano. Struttura venuta in atto con minuziosa precisione. E tutto in modo esatto e regolarmente circoscritto. La divina intelligenza operante nella natura! Mirabile la parte conclusiva, allor che il Segneri osserva e spiega con quale accorgimento la fabbrica della natura ha evitato che gli uomini nascessero tutti sordi. Invero sappiamo che, con la fralezza dei germogli, veniamo alla luce con tenere carni e tenere ossa; ma non tutti sappiamo, e forse anche quelli che lo sanno non danno il dovuto rilievo al fatto, che si nasce con l’orecchio interno già formato e in pieno ascolto, cioè adulto. L’uomo è sul nascere, ed è già in ascolto del mondo!
Nell’orecchio interno è anche situato il centro dell’equilibrio fisico. Una componente dell’orecchio interno è la coclea, propriamente l’organo dell’udito, della percezione dei suoni; da questo centro attraverso un elemento nerveo vengono trasmessi al cervello i messaggi sonori; mentre il vestibolo o apparato vestibolare, strettamente connesso, è appunto la struttura deputata al controllo dell’equilibrio, sia statico che dinamico. È a questa struttura auricolare, all’orecchio insomma, che l’ignaro infante s’affiderà dal momento che comincia a star ritto sui piedini e apprende a muovere i primi passi.
Al cospetto di tanto provveduta natura, quanto sprovveduto oggigiorno l’uomo!
Ebbene, abbiamo acquisito due dati di base per quel che vuol essere il nostro discorso. L’uomo nasce con l’orecchio interno già maturo, l’orecchio d’un adulto; il buon funzionamento dell’equilibrio fisico e quindi mentale dell’uomo rigorosamente dipende, e già dalla prima infanzia, dall’apparato centrale dell’udito situato nell’orecchio interno.
Abbiam detto che la natura è la fabbricante, ma qual mente sovrintende, chi fu l’ardente spiro, l’edificatore? Forse quell’adulto che da secoli, da millenni ormai, sta in ascolto del mondo? E che continuamente s’avvicenda: proprio lui, proavo, avo, nipote. Questo è desso? Questo è desso, sì! L’approfittatore? Colui che sforza e viola la natura, persino nelle proprie carni e con la perversione dei sensi che essa, madre benigna, gli ha dato in prestanza durante la terrestre esistenza e fan parte della umana veste biologica. Colui che abusa della natura con atteggiamento illimitatamente sopraffattorio, basti accennare allo sciagurato scempio della fauna, e non solo terrestre, e alla rapinosa deforestazione con l’empia, rovinosa alterazione della flora.
Fauna e Flora, oh, antichissime divinità italiche della vivente, solare natura! Non adorate fideisticamente alla maniera degli idoli, ma venerate come luminose normatrici presenze. Allor che tutto era a misura e nulla di troppo. Un tempo si rallegravano nei conviti e con i cuori naturalmente predisposti alla gioia, pii gli uomini e non in assenza del divino. Ciò prima che sopravvenisse una credenza dogmatica, dottrinaria e intollerante, discendente dal settarismo di genti nomadiche, del deserto. Ormai son due millenni circa che soffia sugli uomini e sul mondo quest’alito del deserto, questa aridità. Brama smodata, traffici su traffici, avidità, egoismi senza freno, avarizia, vocazione e costume mercantile, la "crema" della finanza ai vertici del potere, e in tutti, chierici, intellettuali, operai, il volgo, un desiderio ardente di mondanità. E scriveva Esiodo che tutto ciò sarebbe avvenuto nell’ età dell’affanno, l’Età del ferro: “Quando gli uomini nasceranno già con le tempie bianche”. L’uomo nasce, ed è già in ascolto del mondo. . . In ascolto di quest’età aridamente materialista, in ascolto di cotanta greve, laida mondanità? Chissà! Nasce con l’orecchio d’adulto, ma pur con le tempie bianche, insolitamente canuto, senile e subito proclive alla malizia del mondo in cui viene; a quel che similmente lo attrae? Perché è l’uomo a volere il suo mondo, i suoi inferni o i suoi paradisi.
Questa digressione, se di digressione trattasi, non ci ha quasi portato fuori del seminato? No! Anche il testé detto, seppure attiene agli aspetti oscuri della vicenda umana, e vigente, contestimone Esiodo, la ferrea tirannia della brutale età dell’affanno, non pare s’ allontani affatto dal nostro argomentare.
Tanta angustia e tanto affanno, dell’epoca la crassa ignoranza, vi spingono al pessimismo? Dubitate, dunque? Macché! Avete mai supposto che il sole possa far cessare per un momento solo il suo splendore? Dubitare è incertezza tra due opposte vie; occorre decidersi e anche non sbagliare. Ed è qui il mistero della ventura umana: luce di sapienza o il buio pesto, cioè l’impenetrabilità del sapere? L’incapacità d’avvicinare il sapere. Viltà, pigrizia, negligenza. E dubitare è ammantarsi d’ombra, cecaggine. . . sordità.
Abbiam detto del buio, dell’impenetrabilità del sapere, cioè della mondanità, della futilità del quotidiano sopravvivere a se stessi, dell’egoismo che dissecca la mente, della vanità che inalidisce l’anima, la seccagione della propria vita interiore e della vita intorno a sé. Il vivere la materialità è vivere volgarmente; è perder vilmente la propria anima e l’impossibilità di stabilire in sé un’anima duratura; è un vieto tirare avanti in una natura disanimata. Il deserto dentro e fuori. L’intelligenza umana e la materia vivente, la natura tutta, desertificate da un improbabile credo e da una pigra, greve dottrina, il materialismo ateo e meccanicistico.
Tutta questa robiccia, quest’arida cerebralità noi la lasciamo correre; non curiamocene! Una benefica metanoia, un profondo rinnovamento, che avanza, la spazzerà via, farà largo; l’aria cambierà, sarà quella dei luoghi aprichi, solari, e si vuoterà il mondo di tanta menzogna e follia. L’im(mondo) progetto, l’impuro, folle sogno svanirà. Nel deserto quel Golem si disgregherà, tornerà sabbia.
Ora, in questo presente, torniamo al MUNDUS, al nostro Mondo in ordine; mondo definito, vivo, terso, risplendente, vero ornamento del cosmo. Uno splendido mondo del quale l’uomo che nasce è già in ascolto, con orecchio di adulto. E in quella condizione (fase della coscienza che oblierà entrando nello stadio infantile) riascolta già il linguaggio della sua gente, l’atavico, familiare linguaggio e se il suo ascolto è attento egli è già in grado di apprendere tante cose del mondo. In quel mondo in ordine, pieno d’armonia, operano i saggi e insegnano le eroiche virtù, e un orecchio adulto sa ascoltare la voce della saggezza.
E qui un inciso per una diversione nella lingua latina sempre ricca di attrattive.
Il verbo latino alo,is,alui,altum,ӗre ha il significato di nutrire, alimentare, quindi di allevare, far crescere; un altro verbo latino adolesco,is,olevi,adultum, ӗre, che condivide la radice con il primo e quindi l’atto del nutrire, ha inerente il significato di crescere, svilupparsi, farsi vigoroso. Questo secondo verbo esprime inoltre due forme participiali (il participio è il modo indefinito del verbo, pertanto può assumere sia il valore di sostantivo che di aggettivo) che riguardano appunto la crescita dell’uomo, il suo svilupparsi e la sua maturazione. Il participio presente, adulescens,entis, l’adolescenza, l’età di transizione, fase in cui si cresce e non si è più bambini, ma neanche s’è raggiunta la maturità. E il participio passato adultus, adulto, cresciuto; l’individuo ormai maturo e responsabile in grado di esercitare rilevanti incarichi e adempiere a complesse funzioni.
Orbene, abbiamo rilevato che il dato del nutrire determinante la crescita e la maturazione, intese come sviluppo psico-fisico dell’individuo umano, dal momento della nascita per tutta la fase adolescenziale sino all’età adulta, tutto questo, è in quei due verbi latini che han tema e radice comune. E, a ben scorgere, l’intento, il fine è proprio quell’adultus, l’individuo tirato su, nutrito e accresciuto, elevato, educato. Torniamo dunque a quell’orecchio interno che già prima della nascita era non meno efficiente che negli adulti; anche quell’udito del nascituro era stato nutrito e accresciuto, quindi già atto all’ascolto e idoneo altresì a mantenere l’equilibrio dell’essere in quel singolare stadio.
Vivere nell’equilibrio è la virtù del saggio, occorre saper sempre ponderare e vagliare; le forze contrarie vanno sempre accuratamente controllate onde perduri l’equilibrio. Anche saggiare le proprie forze, prima di operare alcunché e stabilire il giusto valore di ciò che si vuol realizzare, è necessario per evitare gli squilibri e impedire l’aggressione del discordante. E in questo molto giova l’orecchio interno e il saper stare in ascolto di sé per evocare l’equilibrio ch’è vera saggezza e mantiene lucidi il senno e la mente e il cuore saldo. Un udito fine e il buon ascolto fanno la virtù dell’equilibrio.
Se si considera, come abbiam fatto e come i nostri latini padri solevano fare, la limitatezza del mondano edonismo, tutto il malsano senso del perituro sedimentato nel materialismo di moda e il caduco insito nella dottrina cristiano-giudaica, si può decisamente arguire quanta dissennatezza è nell’ agitazione di queste folle che posano le loro teste assonnate sui guanciali nucleari e passivamente, nella negghienza, vivono un mondo in visione televisiva. Quanta tirannia nella loro conduzione, laicale o clericale che sia, quanta nequizia d’animo e di mente! Quanta ipocrisia!
Ecco perché insistiamo, senza Giustizia le nazioni, gli stati vacillano, aveva ragione Esiodo, la discordia corrompe le famiglie, l’uomo imbarbarisce, le civiltà decadono, lo stesso universo ne soffre. Né la cerebralità di tutte le intellettualità mondiali è immune dal servilismo, dal conformismo che determina l’appiattimento dei livelli culturali, dalla corruzione dell’animo; si può essere grossi intellettuali e mancar d’equilibrio.
Giustizia, quindi, esige equilibrio. Per ben librare occorre la saggezza, che sola è in grado di contenere le avverse forze, equilibrandole appunto, e così evitando che nello scontro si provochi distruzione. Questo principio dell’equilibrio, lo abbiam visto, è nell’uomo, nell’uomo che veglia e vigila e sa parare la minaccia di colui che nega, di quel ch’è avverso alla sua mente e al suo cuore. Ecco perché l’uomo deve imparare l’ascolto; per non incorrere altrimenti nell’oblio di sé, e, venendogli meno l’udito dell’adulto, irrimediabilmente smemorare e avvertire in sé il declino del reame della luce. L’uomo non deve trascurare quel adultus audiens che è già in lui da nascituro. Deve averne cura per, unitamente ad esso, accrescersi, evolversi, divenir valente elevandosi in consapevolezza e conoscenza; deve battersi e vincere per sapientemente giungere all’auge della propria virtù, farsi di sé stesso AUTORE (Auctor, colui che fa crescere, derivato di augeo, verbo il cui significato è esattamente aumentare, innalzare, crescere), prestando, tempestive, attento ascolto con l’orecchio interno alla voce della saggezza; costantemente deliberando in sé il giusto equilibrio e, posto tal cardine, mai imprendere a operare fuor di misura.