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PRODITORES PATRIAE

IL CORRUCCIO DI SILLA
IL CORRUCCIO DI SILLA

 

                         

 

 

PRODITORES  PATRIAE

 

 

 

Il magnanimo segue il valor grande:

Negli atti vili l’alma sua non pone,

Ma pur nell’alte cose lo cor spande.

                                              Cecco D’Ascoli

 

 

   Iuppiter Capitoline, et auctor ac stator Romani nominis  Gradive Mars, perpetuorumque custos Vesta ignium et quidquid numinum hanc Romani imperii molem in amplissimum terrarum orbis fastigium extulit,

                                        vos publica voce obtestor atque precor:

 custodite, servate, protegite hunc statum, hanc pacem, hunc principem, eique functo longissima statione mortali destinate successores quam serissimos, sed eos quorum cervices tam fortiter sustinendo terrarum orbis imperio sufficiant quam huius suffecisse sensimus, consiliaque omnium civium aut pia iuvate aut impia confringite.

 

   È la preghiera con cui lo storico Velleio Patercolo chiude la sua opera HISTORIAE ROMANAE. L’opera fu pubblicata presumibilmente l’anno 30 di questa era, anno in cui fu eletto console Marco Vinicio di essa dedicatario. In quel che andremo a esporre Velleio sarà il nostro autore di riferimento per alcuni eventi vicinissimi alla sua epoca, particolarmente per il suo sguardo penetrante sui personaggi del dramma storico da lui conosciuti, quando non direttamente, pur anche dalla pubblica voce che ne conservò a lungo la memoria e, a quei tempi tanto diversi dai nostri, persino un soppesato giudizio.  E sebbene anche quelli furono tempi di sfrenate passioni, di odi eppur di esemplari ed altissime virtù, il vero e l’equo riuscirono sempre ad affermarsi e uno sguardo acuto e una mente intuitiva, perspicace, seppero ben discernere.

   Racconta il nostro storico che dopo la battaglia di Munda, 45 a.e.v., Giulio Cesare tornato a Roma incontestato vincitore perdonò, quod humanam excedat fidem, nessuno escluso, quelli che contro di lui avevano combattuto, e alle celebrazioni e ai magnifici spettacoli che si protrassero per molti giorni la città vide accorrere molta gente.

   Anno 44, idi di marzo. “A quell’uomo tanto grande, che aveva dato degno compimento alle sue vittorie usando una clemenza al di sopra dell’umana credibilità, non fu concesso di godere in pace un riposo superiore a cinque mesi. Infatti, tornato in città nel mese di ottobre, fu ucciso alle idi di marzo. Promotori della congiura erano stati Bruto e Cassio; il primo perché non lo aveva vincolato a sé con la promessa del consolato, mentre aveva irritato Cassio rinviando la sua elezione. Quali istigatori del delitto si erano aggiunti gli amici suoi più intimi innalzati ai vertici della vita pubblica grazie al successo della sua parte politica: D.Bruto, C. Trebonio ed altri rinomati uomini per fama e casato. Da parte sua M. Antonio, uomo sempre pronto ad osare, collega nel consolato, gli aveva suscitato contro sospetto e malevolenza ponendogli sulla testa durante i Lupercali, e mentre sedeva davanti ai rostri, la corona regale che egli aveva respinto, ma senza dar segno di sembrare urtato.”

   “Per come poi si svolsero gli eventi si deve lodare il consiglio di Pansa e di Irzio che avevano sempre consigliato Cesare di mantenere con le armi il principato conquistato con le stesse; ma lui, continuando a ripetere che preferiva la morte piuttosto che esser temuto, mentre confidava nell’umana mitezza cui egli sempre s’era attenuto, fu assalito a tradimento da gente ingrata, cum quidem plurima praesagia atque indicia dii immortales futuri obtulissent periculi.” E Velleio menziona anche gli avvertimenti degli aruspici di guardarsi dalle idi di marzo, riporta il sogno che aveva messo grande spavento alla moglie Calpurnia e soprattutto riferisce dei libelli coniurationem nuntiantes dati che neque protinus ab eo lecti erant. Cesare era dunque tranquillo, fidente, nessun sospetto nel profondo del suo animo, che difatti non era quello circospetto del tiranno. Nella realtà romana non poteva esserci il tiranno, e il traditore sarebbe caduto per sempre nell’abominio. Commenta Velleio: “Sed profecto ineluctabilis fatorum vis, cuiuscumque fortunam mutare constituit, consilia corrumpit. La ineluttabile forza del destino muta i propositi di colui del quale ha deciso di sovvertire la sorte”. Eppur vero è che secondo loro costumanza i Romani sostenevano “faber est suae quisque fortuna”, ed è altresì vero che con la propria personale fortuna, e anche a costo del supremo sacrificio, la virtù romana anzitutto richiedeva doversi preservare la Fortuna Romani Imperii.

   Riferisce Velleio che dopo aver commesso il crimine il gruppo dei congiurati con Bruto e Cassio occuparono il Campidoglio e sottolinea che essi erano scortati da una masnada di gladiatori di Decimo Bruto, stipati gladiatorum D. Bruti manu”; in Roma quei congiurati erano dunque isolati, non avevano l’appoggio nemmeno d’una esigua parte del popolo, che aveva immediatamente condannato il loro misfatto,  facinus  in Velleio ed è il termine latino da cui viene alla nostra lingua l’aggettivo facinoroso, che designa chi commette azioni scellerate, malvage. Narra pure lo storico del dissenso insorto tra Cassio e Bruto, il primo voleva l’assassinio di Antonio e la distruzione del testamento di Cesare, ma Brutus repugnaverat dictitans nihil amplius civibus praeter tyranni (ita enim appellari Caesarem facto eius expediebat) petendum esse sanguinem. . . Bruto si era opposto sostenendo che i cittadini non dovevano chiedere niente di più del sangue del tiranno. . .” e su questa parola, che risuona sobillatrice e sediziosa sulle labbra di Bruto, Velleio richiama l’attenzione del lettore con un inciso:  l’assassino diffonde il diffamatorio attributo per un perfido scopo e suo tornaconto; far sì che Cesare venga chiamato con siffatto appellativo, e pubblicamente, gioverà all’azione cruenta commessa dai congiurati. Troppo semplice per tirarsi fuor da un tale smisurato impaccio! Esecranda congiura! Et tu, Brute?  E questa non è la nota esclamazione di Cesare proditoriamente pugnalato a morte, questa è la domanda di ogni onestuomo.

   Cesare era stato investito di una dittatura decennale nel 47 a.e.v., e il 14 febbraio, nell’anno del suo assassinio, venne nominato dittatore a vita. L’istituto della dittatura fu stabilito nell’antica Repubblica Romana e previsto nei casi di eccezionale gravità e pericolo; l’incarico poteva essere anche più volte affidato alla stessa persona, accadde con Cincinnato, con Q. F. Massimo nella seconda guerra punica ed altri. La scelta era fatta da uno dei consoli con l’avallo dell’altro e in subalternità veniva affiancato dal magister equitum. L’autorità del dittatore era assoluta e limitata al periodo dell’incarico; la lex soltanto era il suo limite e la sua investitura era ratificata con severi rituali e vi partecipavano i consoli e il senato. Autorità assoluta non significava, quindi, che il dictator potesse esercitare l’incarico arbitrariamente, cioè secondo il proprio capriccio e commettendo abusi, prepotenze, ingiustizie, insomma esercitare il potere con un intento prevaricatore di odioso dominio. In sostanza, sì, summa potestas ma congiunta a summa fides, e non assolutismo ovvero un governo tirannico di una persona e della sua fazione. La dittatura non poteva essere un’ambizione personale di governo, ma una virtus maximae continentiae, una virtù precipuamente romana. L’istituto della dittatura era diretto a preservare appunto la Fortuna Romani Imperii, la Publicae Libertatis Salus.

   La visione assoluta del mondo e la concezione statuale e universa dei Romani non può corrispondere al punto di vista dei moderni, presi dalla quotidianità che si esaurisce nel transeunte. Il civis romanus, il vir, la civitas si pacis amans ac composita, procedevano in accordo e in armonia con la natura terrestre e con il cielo, ossequienti al divino ordine stabilito dagli antenati ab initio. Se per eventi infausti quell’ordine s’incrinava e si annunciava una minaccia grave, ne rispondevano tutti e soprattutto il dictus, il nominato dittatore che assumeva su di sé l’onere, strettamente vincolante alla fides, della piena Romana Auctoritas che egli andava ad incarnare personificandola in sé; summa auctoritas da ristabilire statim nei poteri, nelle funzioni statuali e nel mondo a garanzia della Salus Publica.

   Si potrà osservare che nel caso di Silla e poi di Cesare costoro assunsero una dittatura a vita e quindi illegittima. Perché si verificarono queste eccezioni, si deviò dunque dalla norma? Occorre attentamente considerare riportandosi a quella età e a quella realtà propriamente romana, fuor dai pregiudizi e dalla troppa presunzione di questi nostri tempi. In entrambi i casi ci si trovò di fronte all’eccezionalità del momento storico, a dover fronteggiare situazioni di enorme difficoltà, la crisi gravissima che aveva sconvolto Roma e la intera civitas, devastata da un lungo periodo di sanguinose guerre civili. La Romanità era stata scossa nel suo tradizionale fondamento, il mos maiorum, che ne reggeva il distintivo ordinamento politico, il suo assetto sociale; colpita profondamente nella sua organicità quindi e, disgrazia ancor più grave, nella sua sacertà, nella sua attenzione al sacro e alla cura rituale, quell’alta virtù che consentiva al Romano il rapporto con il divino. Era venuto meno il munus, l’officium pontificale. Urgeva tra terra e cielo riedificare, ex integro condere, il ponte.  Munifica restituere Salus. Roma attendeva spiriti magni, animi generosi, menti geniali, ideatrici.

   E venne Lucio Silla. Apparteneva ai Cornelii, una famiglia patrizia di antichissima origine ma priva di grandi ricchezze. Non tradiva le pregevoli origini la sua personalità: indole arcaica, inattuale nel senso nicciano, generosa, calorosa nell’amicizia, quanto estremamente dura e inflessibile con il nemico; un guerriero proveniente da tempi inconcepibili per l’uomo d’oggi e nel contempo un politico valente, lucido e accorto.

 Racconta Velleio: “Si sarebbe potuto credere che Silla fosse venuto in Italia non a muovere guerra, ma auspice di pace: tanta cum quiete exercitum per Calabriam Apuliamque cum singulari cura frugum, agrorum, hominum, urbium perduxit e tentò di por fine alla guerra con leggi giuste e condizioni eque; ma purtroppo la pace non andava a genio a quanti nutrivano ambizioni sommamente riprovevoli e smodate. E frattanto di giorno in giorno cresceva l’esercito di Silla, accorrevano nelle sue schiere i cittadini migliori e moralmente più sani”. Attesta, tra l’altro, lo storico che “Silla guerriero si comportava differentemente da Silla vincitore, infatti, in combattimento e vincente era molto clemente e mite, dopo la vittoria invece si mostrava duro, inesorabile”. E commenta in proposito: “e questo, credo, perché vedessimo nello stesso uomo un esempio di. . . duplicis ac diversissimi animi”.  Innanzitutto è da dire, che mentre si combatte, e per vincere, è virtù del valente condottiero serbare l’imperturbabilità e anche mostrarsi clemente, poi a vittoria ottenuta sgominare l’accanito nemico. Silla per vero, coerente alla sua originaria natura, non faceva altro, riteniamo noi, che mettere in atto una esemplare condotta esposta già nel mito antico, ove si narra la ostinata iattanza dei Titani che, volendo e osando opporsi all’ordine luminoso, così difatti minacciando lo sconvolgimento del cosmo, vennero annientati dall’ Olimpico Nume, principio enunciato più tardi da Virgilio in tal modo nell’Eneide: “parcere subiectis et debellare superbos”.

   “Videbantur finita belli civilis mala, cum Sullae crudelitate aucta sunt. [. . .] Primus ille, et utinam ultimus, exemplum proscriptionis invenit. . . I mali della guerra civile sembravano finiti, quando s’acuirono per la crudeltà di Silla”. Così seguita Velleio, imputando tra l’altro a Silla d’aver per primo introdotto in Roma sotto la sua dittatura le liste di proscrizione. Possiamo comprendere la costernazione dello Storico campano che visse a non grande distanza di tempo dai terribili fatti, ma noi tardi posteri, ammaestrati da tanti trascorsi secoli di indicibili crudeltà anche recenti, potremmo circa la crudelitas dell’epoca sillana seguire un differente criterio di imputazione e di giudizio.

   Abbiamo già sopra accennato alle condizioni della Patricia Virtus, della Romanitas e dei suoi costumi in quell’epoca, il sistema statuale repubblicano come tramandato dal tempo della cacciata dei Tarquini era ormai logoro e usciva distrutto dai turbolenti e sanguinosi eventi di quei decenni; eventi che trovano i loro precedenti fin dall’inizio della Repubblica allorché la plebe, in gran parte estranea alla latinità, sobillata dall’elemento tusco-asiano sempre più insidioso inizia a ribellarsi all’àristos. Il Senato fortemente indebolito non invera più la Romana Auctoritas e la Potestas Populi Romani Quiritium è alla mercé dei demagoghi e dei sediziosi.

   Occorre qui fare alcune brevi considerazioni storiche. La monarchia orientaleggiante etrusca, quindi un potere molto dispotico, aveva scosso dalle fondamenta l’urbs e il populus Quirini, danneggiando l’immagine stessa dell’ordinamento monarchico come da Romolo voluto e continuato dai suoi successori latini. I monarchi etruschi, soprattutto il Superbo, alterarono il prisco pantheon delle divinità romane, tentando di affatturare persino le funzioni sacrali, con l’introduzione dell’aruspicina e i Libri sibillini. La fondazione del Tempio di Giove Capitolino fu voluta dal re Tarquinio Prisco e i lavori furono ultimati durante il regno di Tarquinio il Superbo; per volere della somma autorità, incarnata da personalità etrusche, veniva introdotta a Roma la cosiddetta Triade Capitolina, Giove Giunone Minerva, in sostituzione dell’arcaico romano culto di Iuppiter Mars Pater Quirinus; sostituzione che sarà foriera di funesti eventi per l’Urbe, in pace e in guerra. Il tempio tuscanico fu inaugurato da uno dei primi consoli romani, Marco Orazio Pulvillo nel settembre del 509 a.e.v. Etruschi, non Romani, è bene ricordarlo, furono i consoli fondatori della Repubblica Lucio Tarquinio Collatino, nipote di Tarquinio Prisco e Lucio Giunio Bruto, cugino del Superbo.

    L’ordine originario basato sulle funzioni esercitate dalle persone secondo qualificazione e competenza fu del tutto sovvertito, venne meno l’intesa, la fiducia, e con essa il culto di Fides, in suo onore Numa aveva istituito una solenne festività. Prevalsero competitività e antagonismo, nella società s’insinuò il dissidio e crebbero le rivalità, si destabilizzò la Civitas e non ci fu più ripresa. Le virtù patrizie s’indebolivano per i continui compromessi e di conseguenza s’andava disautorando l’ordine senatorio e alle cariche sacerdotali dal 300 a.e.v. cominciarono ad accedere dalla plebe individui non qualificati. La corruzione dilagava e si propagavano le costumanze levantine d’etrusco influsso.  

   Contro questa insidia, una macchinazione secolare tesa a distruggere l’ordine romano, cosmo di luce e armonia, si levò in armi l’aristocratico Silla; investito di singulare imperium, quindi della summa auctoritas e della maxima potestas, incarnava l’optima res publica, la Romulea voluntas con attenzione alle divinità dell’arcaica Triade. Entrò in Roma con disciplinatissime legioni, il populus Romanus Quirites, cittadini d’ogni classe sociale e quindi anche contadini, artigiani, operai in armi. Imperturbato attraversò l’atrocità delle guerre intestine, sotto il suo comando si distinse e prevalse la romana gente. Attuò un riordino di tutte le magistrature riuscendo anche ad impedire l’accumulo delle funzioni e delle cariche onde con l’eccesso evitare l’arbitrio e l’abuso di potere. Ristabilì l’autorità del Senato che ritornava ad avere il controllo della organizzazione statuale e gli restituì il potere giudiziario; al Senato competeva anche la preventiva approvazione delle proposte dei Tribuni della Plebe, mentre di questi veniva limitato il diritto di veto, di cui s’era esagerato. Con le sue riforme tentò di riportare la Civitas alle autentiche, originarie tradizioni romane, quando era l’urbe degli optimi cives, riattualizzando il Mos Maiorum. Depose sua sponte la Dittatura e si ritirò dalla vita pubblica, in quel di Cuma tra i campi.

   Ma ostinata è la perfidia, e dove vien meno la fede spadroneggiano la falsità, il malvolere, l’odio, l’ostilità. Di nuovo era ineludibile lo scontro, occorreva fronteggiare la minaccia.

   E venne Giulio Cesare. Nel 44 a.e.v., trentott’anni dopo che Silla ne fu investito anche a Cesare toccò la dittatura a vita, già era stato nominato Dittatore nel 49, l’anno che passò il Rubicone, e poi nel 47 con carica decennale. Rivestiva dal 63 la carica di Pontefice massimo. Anch’egli investito della summa Auctoritas e della maxima Potestas, aveva dalla sua le possenti legioni di Roma, il populus Romanus Quirites. A differenza di Silla che stava con gli optimates, Cesare però sosteneva i populares; infatti, circa la risoluzione delle problematiche politiche e sociali i due erano di opinioni diametralmente opposte, ma entrambi consapevoli che il vecchio sistema repubblicano, logorato dai continui compromessi e ripieghi non reggeva più, occorreva giungere alla concordia per far ritorno alla originaria Romana Fides. La certezza, la fermezza, la fortezza nella immutabilità della Fides era il tratto distintivo del Romano lignaggio. E sia Silla che Cesare discendevano da solida stirpe genitrice di genti d’inconcussa FIDES romana. Cesare affermava: “Confluiscono nella nostra stirpe, il carattere sacro dei re, che hanno il potere supremo tra gli uomini, e la santità degli dei, da cui gli stessi re dipendono”. Se fosse sopravvissuto all’infame congiura la storia d’Europa, e del mondo, avrebbe avuto ben altro corso; si pensi soltanto al suo imponente progetto d’estendere la cultura e la civiltà romana alle irrequiete tribù germaniche, e alla normalizzazione dell’Impero Partico in una sfera di salutare influenza romana.

   Torniamo a Velleio e alla sua Storia Romana: “Non piaceva a sua madre Azia e al patrigno Filippo ch’egli ereditasse il nome di Cesare, per la tanta malevolenza e invidia che su quel nome ormai gravava, ma un destino di salvezza dello stato e del mondo voleva ch’egli fosse il fondatore e il protettore del nome romano. Sprezzò così, quell’animo divino, gli umani consigli e, seppur con pericolo, s’impose la via verso l’alto piuttosto che umilmente starsene al sicuro e preferì, per suo conto, por fiducia in uno zio quale Cesare e non nel patrigno; considerava tra sé un sacrilegio ritenersi indegno d’un nome del quale era pur sembrato degno a Cesare”. Quel “caelestis animus” è Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto che sta per essere trionfalmente accolto nell’Urbe quale erede e vendicatore di Cesare. Il “buon Augusto” di Dante.

   Con questo scritto ci eravamo prefissi non di trattare fasi e circostanze storiche della vita di Silla o di Cesare, né di istituire paralleli e confronti tra personalità o avvenimenti, ma semplicemente di contrastare le opinioni false e bugiarde del democratismo imperante e dei suoi cultori. Nessun romano degno della stirpe poteva mai venir meno alla FIDES e disonorarsi abusando dell’arbitrio o agendo con dispotismo. Assumere la dittatura a Roma comportava essere investiti di autorità assoluta, di tutta l’autorità statuale e di pace e di guerra, per la salvezza e la libertà dell’Urbe e del popolo di Quirino; nell’onere di così grande, assoluta responsabilità non c’era spazio per l’arbitrio o il capriccio di un despota. Il Dittatore romano doveva possedere una salda incrollabile fides protetta dall’attenzione vigile alla Triade divina, Iuppiter Mars Pater Quirinus. Chi questo non intende non può comprendere la Romanità, così per chi paragona l’istituto romano con le contemporanee dittature, aggiungiamo noi tutte democratiche, anche negli aspetti dispotici. . . E quanto tiranneggiare in voga oggi per il democratico mondo; mondo moderno despota dittatore tiranno. E sotto minaccia atomica.

   Et tu, Brute?

   Marco Giunio Bruto, cittadino romano, era di stirpe etrusca, sia da parte paterna che materna. La madre discendeva dalla Gens Servilia e da quel Servilio Ahala di cui si raccontava, ma par fosse leggenda, che nel 439 avesse pugnalato a morte un tale Spurio Melio, un ricchissimo demagogo, un plebeo che trafficava per abbattere la Repubblica e farsi proclamare re dal popolo. Tra gli antenati paterni, poi, il fondatore con Lucio Tarquinio Collatino, nobile etrusco, della Repubblica in Roma, Lucio Giunio Bruto di incontestabile stirpe etrusca, e principesca anche, perché nipote, in quanto figlio d’una sorella, di Tarquinio il Superbo. Questo primo Bruto odiava fortemente lo zio, il superbo despota, perché nella faida che dilacerava la famiglia dei Tarquini gli aveva fatto ammazzare il fratello senatore Marco Giunio e temere anche per la sua propria vita; per tal motivo aveva simulato la demenza e così bene da meritare l’epiteto di “brutus”, sciocco in latina lingua. Questo Lucio Giunio, il primo dei tanti Bruti e il primo dei repubblicani in Roma, era dunque un gran simulatore, e simulò sempre perfettamente le sue parti, tanto che dopo aver cacciato da Roma l’ingombrante e odiato zio, ne continuò la politica antiromana, la guerra etrusca contro la stirpe romana, continuando anche a sovvertirne il Mos Maiorum e le prescrizioni rituali e le cerimonie sacre.  Il nome dello Sciocco e il suo busto con volto arcigno lo troverete a suggello di tutte le rivoluzioni repubblicanamente democratiche, dai Galli agli Yankee, e dissimulatamente dispotiche. E qui è bene zittirsi, non vogliamo ulteriormente indispettire i suoi numerosissimi simpatizzanti e proseliti e torniamo al suo tardo nipote, l’accoltellatore di Cesare.

   Abbiamo del famoso congiurato una frase, forse un frammento dalla sua operetta filosofica il De Virtude, dedicata a Cicerone e andata perduta: “Virtù! Tu non eri altro che un nome, ma io ti ho idolatrata davvero come se fossi vera, ma non sei stata altro che una schiava della sorte”. Non è la frase di chi ha sentito in sé vibrare la salutare virtù, non è il sentire d’un romano; sembra l’enunciato di un intellettuale che fa della virtù non una fortezza, non un proposito, ma un’astratta disposizione della mente, una labile disposizione e condensa in una formula la sua umana disfatta. La disperata ammissione di rinuncia d’un fatalista!

   Sulla fine dei congiurati e il suicidio di Bruto dopo la battaglia di Filippi, Velleio Patercolo scrive: “La fortuna volle che così finisse il partito di M. Bruto. Aveva trentasette anni (precisamente 43, un errore dello storico), uomo dall’animo incorrotto fino al giorno in cui per cieca sconsideratezza spense in sé ogni virtù”. Virtù da lui solo in astratto ostentate.

   Dell’esecrabile Cassio nulla vogliamo dire; proveniva da famiglia plebea poi elevata al patriziato, non si atteneva al Mos, ma professava un epicureismo superficiale di cultura greculo-etrusca; di quest’assassino viene riportata da Svetonio una frase pretenziosa: “Fiat iustitia et pereat mundus”. Una frase spropositata, insana; il motto d’un dissennato, rivoltoso e sanguinario; fu tra i primi a vibrare la lama contro l’inerme Cesare. [. . .] “Cassius. . . lacerna caput circumdedit extentamque cervicem interritus liberto praebuit”. (Vell.)  Fu lo stesso gladio con il quale aveva colpito Cesare a recidergli il capo, là, nella piana di Filippi ove guerreggiava Marte Ultore e presiedeva la Fortuna del grande Condottiero.

   Questi furono i due capi della congiura cui s’aggiunse un terzo, Decimo Giunio Bruto, ch’era stato legato di Cesare durante le guerre galliche; ancora un Bruto! E non va scordato quel miserabile Publio Servilio Casca con il fratello Gaio Servilio, il cui nomen segnala la schiatta etrusco-plebea, che per primo aggredì Cesare alle spalle ferendolo alla gola mentre Lucio Tillio Cimbro, nomen e cognomen stranieri ma già gran sostenitore di Cesare, fingendo di presentargli una petizione gli afferrò con ambo le mani la toga costringendolo a piegarsi, e ventitré lame si scagliarono su un uomo inerme. Ventitré lame antiromane, avverse alla Romanità, ostili all’ Urbs Quirina.

   Marco Giunio Bruto, in un discorso al popolo, spacciandosi per il primo tra i Romani, dopo la cacciata di suo zio il despota etrusco, fictis verbis costrinse anche il suo collega di consolato Lucio Tarquinio Collatino a prender la via dell’esilio perché il suo nomen ricordava i tiranni. Fece quindi “giurare al popolo che non avrebbe più consentito ad alcuno di regnare a Roma”, come Livio narra. Quel giuramento, nelle sue oscure intenzioni, significava la definitiva soppressione dell’ideale romano-romuleo di stato. Tarquinio, il despota, aveva fatto uccidere molti Patres, cioè senatori patrizi, e lui Bruto, il nipote, riportò a trecento il numero dei senatori e sempre secondo il racconto di Livio li scelse tra i maggiorenti dell’ordine equestre, e questi è da supporre fossero in maggioranza d’ascendenza plebeo-etrusca; questi nuovi eletti, scrive Livio, venivano chiamati coscritti per distinguerli dai patres. E lo storico commenta, forse con involontaria ironia: “E’ straordinario quanto ciò abbia giovato alla concordia dei cittadini e alla buona armonia tra i patres e la plebe”. Per la verità, una volta venuta meno la fides, durante il lungo periodo della Repubblica ci furono lotte sociali aspre e continue mai definitivamente decise, ma sempre risolte con accomodamenti e ripieghi, fino al disastro delle guerre intestine. Tuttavia l’influenza della fondazione romulea nel segno delle divinità olimpiche e della Triade divina arcaica non venne mai meno, come la presenza di uomini incarnanti “l’idea della virilità dominatrice”, espressione dell’Evola, e in grado di agire sempre nello spirito della prisca Romanità.

   È rivelatore di tutto il suo orrore che, nel fallimento e nell’agonia di quella Repubblica, una masnada di coscritti capeggiati da discendenti del nome etrusco, dall’animo ambizioso e mondano, incline alla demagogia e al dispotismo intellettuale tal quale quelli del politicamente corretto dei nostri giorni, quella bruta masnada vincolata dal giuramento del primo Bruto, abbia congiurato contro Roma assassinando Cesare, il padre della patria.

 

 

IL SORRISO DI CESARE
IL SORRISO DI CESARE

 

 

“Egli operò e realizzò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e realizzatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperator.” (Mommsen, Storia di Roma Antica)

 

    “Cesare è l’eroe occidentale per eccellenza, la Roma da lui creata si basa in tutto e per tutto sull’Occidente ed è così che due millenni son rimasti legati al suo nome”. (Bachofen, La Leggenda di Tanaquilla)

 

 

 

 * * *

 

eiusdem furfuris  (detto latino)

 

 

      Et tu, Brute?

 

  Dante con la guida di Virgilio, nel lungo viaggio infernale è ormai giunto “al tristo buco/ sovra il qual pontan tutte l’altre rocce”, quel “pozzo scuro” che fa da “fondo a tutto l’universo”; ivi “nel loco onde parlare è duro” si trova la “mal creata plebe”, quei che sulla terra meglio se fossero nati “pecore o zebe!” Il Cocito, un immenso “lago che per gelo/avea di vetro e non d’acqua sembiante”, popolato di “ombre dolenti nella ghiaccia” che battevano “i denti in nota di cicogna” e “ognuna in giù tenea volta la faccia”. Incombe l’orrore d’un gelo mortale e inestinguibile, d’una ghiaccia che non trasferisce alla mente memoria del sembiante dell’acqua, così come quell’ombre, scialbature, nessun ricordo d’umana parvenza, ma soltanto finzioni d’automi in tratti bestiali, cicogne, pecore, zebre. Tale la zona del Cocito dove sono relegati i traditori dei parenti, i traditori della patria, i traditori dell’ospitalità; ma nel procedere un orrore immane, un’orripilante sconcezza stava per presentarsi nella zona estrema, laddove è confinata e ristretta “la creatura ch’ebbe il bel sembiante” e che “contro il suo fattor alzò le ciglia”; contro il suo fattore, non quello d’altri, quindi gli si oscurò la coscienza e il lucente sembiante si mutò in tenebra, da quell’istante, a dir del Poeta, “ben dee da lui proceder ogne lutto”, per cui è divenuto “lo ’mperador del doloroso regno”. Ed ecco, nell’appressarsi, cosa Dante intravede:

 

        Come quando una grossa nebbia spira,

     O quando l’emisperio nostro annotta,

     Par di lungi un molin che il vento gira,

        Veder mi parve un edificio allotta.

 

   Un forte vento lo investe, e gli par di intravedere qualcosa tra una grossa macchina da molitura e un edificio, quel che poi gli apparirà come un mastodontico animale oscenamente mostruoso, ma la cui struttura è proprio simile ad una enorme macchina che produce gelidi venti, ghiaccia, dirompe e maciulla; e in quel ghiaccio che produce non più si vedon confitte e mute, come nella prima zona, scialbe ombre in finzioni di automi, ma l’ombre addirittura “trasparien come festuca in vetro”, pagliuzze nel vitreo ghiaccio, residui di macinatura. “Io non morii e non rimasi vivo”, e aggiunge che si sentì pur divenire “gelato e fioco”, a voler esprimere il raccapriccio che provocava l’immenso, desolato deserto di ghiaccio, ove quella tenebrosa smisurata macchina con fattezze animali macinava in continuazione delitti, macchinazioni, inganni. . .  Fuoriusciva dalla ghiaccia con la parte superiore della sua mole: “oh quanto parve a me gran maraviglia/quand’io vidi tre facce e la sua testa!” La faccia dinanzi era vermiglia, le altre a questa aggiunte (come pezzi d’una macchina, osservate!) sopra e a mezzo di ciascuna spalla si congiungevano all’occipite che il poeta definisce cresta. La faccia destra era di color tra bianco e gialla, la sinistra scura. E continua la descrizione del bestiale alieno, d’una fattezza molto simile a un complesso macchinario: “Sotto ciascuna uscian due grandi ali, /quanto si convenia a tanto uccello:/vele di mar non vid’io mai cotali, /non avean penne, ma di vispistrello/era lor modo, e quelle svolazzava,/sì che tre venti si movean da ello:/quindi Cocito tutto raggelava. . ./ E qui, ancor più evidente la machina – macina (mola in latino) che morde e stritola: “Da ogni bocca dirompea coi denti,/un peccatore, a guisa di maciulla,/sì che tre ne facea così dolenti”.  Mola in latino è appunto la macina che dirompe e maciulla ed è anche il termine medico per aborto (ab-orior = perire, abortire; il contrario di orior= sorgere, nascere, venire alla luce). E quell’orrenda mola - macina riduce i damnati a mola, embrioni informi, dagli indistinti organi, indegni per la vita alla luce.

   Aborto item è il fallimento dell’uomo che non approda alla consapevolezza. Se non si prende cura dell’anima, coltivando sé stesso, l’uomo non rende operante la propria coscienza. Attivando in sé la disciplina alla virtù, l’uomo matura perfezione onde nasce alla luce della saggezza, e rende in sé, nella interiore verità, salda la fides; è la conquista certa di quel valor grande che apre alla conoscenza e al giusto sapere. Leale, pertanto, secondo la divina legge dell’armonia reggente la humana consortio, è colui che in sé ha la certezza, “il magnanimo che segue il valor grande e l’alma sua non pone negli atti vili”, non si macchia di macchinazioni, congiure ed inganni; spregevole dunque è sempre l’incerto, il vile, il traditore e, sopra tutti esecrabile, il traditore ingrato e assassino.

 

    “Quell’anima lassù c’ha maggior pena”,

disse ’l maestro, “è Giuda Scariotto,

ch’ ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena,

   de li altri due c’hanno il capo di sotto,

quel che pende dal nero ceffo è Bruto:

vedi come si storce, e non fa motto!

   e  l’altro è Cassio che par sì membruto.

 

   Nel “dipartir da tanto male” risalendo dagl’ inferni a riveder le stelle, Dante s’avvede che quel luogo orribile, padroneggiato dal  “vermo reo che il mondo fóra”, quel “pozzo scuro”, quel “tristo buco”, ove è insediata una entità, che ha tradito la divina luce sommergendosi nelle ghiacce tenebre, e criminosamente ha tradito il divino modello dell’uomo irreprensibile, l’uomo che nelle alte cose il proprio cuore eleva, soggiogando le genti senza guida agli atti vili d’una cieca vita materiale e privandole di luminosi valori, quel postaccio, la Giudecca, è un mondo capovolto, di continuo disgregantesi sotto l’azione d’un gelo esiziale, macchinalmente provocato da una mostruosità aliena. 

 

 

IL CORRUCCIO DI DANTE
IL CORRUCCIO DI DANTE