UNO SCRITTO PER TUTTI E SOPRATTUTTO PER NESSUNO

UNO SCRITTO PER TUTTI E SOPRATTUTTO PER NESSUNO
“Il guerriero abile ottiene con l’autorità, non fa assegnamento su gli uomini”. Intende Sun Zu che non vale poggiare sugli uomini, i propri e anche quelli del nemico, ma la giusta leva è il possesso preeminente dell’autorità data in sé stessi.
Avverte Sun Zu che “le problematiche della guerra seguono l’arte dell’inganno”. Qui è indispensabile fare attenzione e non presumere voglia intendersi che occorre esser bravi a raggirare, frodare, imbrogliare. Tutt’altro! Occorre, piuttosto, lestezza nell’operare stratagemmi; l’inganno inteso come frode e raggiro è oscurante, degradante, non s’addice al guerriero, che deve necessariamente esser gioioso; ci accorgiamo quindi che l’arte dell’inganno, come Sun Zu la intende, è l’arte dell’inganno non fraudolento, un’arte giocosa; il gaudio dello stratagemma somiglia al gaudio del gioco amoroso. Il vero guerriero è un abile valente giocatore. Se abile e capace, si mostra incapace; se attivo, si mostra inattivo. Se è vicino, dà l’impressione di esser lontano; lontano, quella di essere alle porte.
Induci in tentazione il nemico, fagli pur pensare di essere tu in vantaggio; fagli pur credere di esser tu disorientato e confuso, è il momento che puoi sconfiggerlo. Vincerai se prima, ricacciate pretensione e arroganza, sgominato avrai il tuo manchevole io e superato te stesso. Vittorioso, avrai affrancato te stesso, rimondato la mente e lo spirito. Sarai semplice, puro, senza malizia; veloce l’intelletto, risoluto pronto il giudizio.
Semplicità e prontezza nell’arte dell’inganno la rendono inaccessibile. Se, in ritiro nel tempio interiore, nel consiglio ancestrale, prima della battaglia hai compiuto i calcoli, hai perfezionato lo stratagemma, senza alcuna frode o raggiro. I calcoli insufficienti, l’imbroglio, non avrebbero fatto di te un maestro dell’inganno. Sarai vittorioso se esaurito avrai tutta la serie dei calcoli, se adempiuto il compito che ti sei imposto nel tempio ancestrale, in quel appartato Consiglio dei Saggi; cioè se avrai vinto te stesso; per far questo, infatti, nulla potevi lasciare d’imprevisto, di non calcolato. Ora, il nemico è sconfitto! Puoi premere il tuo calcagno sulle sue spoglie, come avveniva nei poemi eroici; ve’, eran sacchi vuoti!
Abbiamo, in queste giornate grevi e tese, spesso sentito pronunciare un vecchio proverbio, che suona pressappoco così: “Chi la dura la vince”. L’abbiamo sentito sulle labbra dei più e sulle labbra dei meno. Che esaltante gara! In verità noi non la pensiamo affatto come loro, cioè alla maniera dei più e dei meno. Non pensiamo affatto che sia un guadagno esser testardi, ostinati, caparbi, esser di coccio come questa persa gente il cui insieme si ottiene sommando i più ai meno o i meno ai più. Tanto varrebbe darsi per vinto e finire nel calderone dell’imperversante nichilismo. No! Il vecchio proverbio del borghese-mercante, incallito usuraio democratico, mezzano d’ostinate estenuanti trattative, non ci convince. La protervia è dei farabutti. Piuttosto apprezziamo chi tien fermo, chi si tien fermo; chi è dotato di costanza, di tenacia; chi non ha disdegnato una dura disciplina, quella disciplina che forgia il carattere e che forma l’uomo di razza, di colui che aspira al durevole e non si lascia travolgere dal transeunte. Gli ostinati, questi ometti dal coccio duro, non combineranno mai un bel niente; e i “Palazzi”, ormai solo un desolato pietrame, non raffigurano rigore, autorità; le cerimonie che in quei luoghi si svolgono son vuote d’ogni contenuto e messaggio; forzature senza alcuna solennità.
Le folle, aspirano al rinnovamento? A tutt’oggi soltanto conati! La massa diseducata e disorientata dovrà dapprima forgiarsi in un popolo, onde quel popolo porti in sé il cangiamento e possa finalmente tornare a fregiarsi del suo nome legittimo, del nome antico della Patria. Quello sarà il nome del popolo autentico, ritornato saldamente unito alla sua fortuna, al suo patrimonio avito, una volta riconfermatosi, puro e schietto, nel Costume dei Padri, nella sua Tradizione; un popolo vivo con la sua rifiorita Civiltà, fiero della ristabilita sua tradita Aristocrazia. Di fatti, un popolo deve necessariamente essere costumato e colto nella virtù, per essere anche custode dell’ordine.
Un popolo non può vivere in una continua disfatta, in un continuo abbandono al tradimento di sé stesso, prono ai costumi e ai voleri stranieri. Le folle aspirano al cambiamento, ma versando nell’incertezza dei crepuscoli. Il popolo che si riscatta è il popolo dell’auspicato rinnovamento, quella rivoluzione conservatrice che lo riporta all’origine. Tutto è nell’origine, nel ritorno all’origine.
I prossimi condottieri nella rivoluzione della Gentilità Italica dovranno sottoporsi a dura disciplina, forgiarsi nello spirito dei Padri e nel culto della Romana Civiltà, per vincere l’ottuso guelfismo disfattista con il conseguente materialismo, onde venir fuori dalla desolata palude del nichilismo.
Contro il logoro proverbio, vanto del pullulante borghese-mercante sprofondato nell’americanismo, noi scegliamo il detto latino che viene proposto sotto queste righe annuncianti il Ribelle, il fido ingannatore del frodatore malvagio, il rigoroso inflessibile gioioso Giocatore, il Vittorioso in sé stesso, il REGGITORE:


M E D I T A N D O L’ A U T U N N O
nunc conde ferrum et linguam futtilem
Il tramonto settembrino tinge d’un rosso gentile le orlature dell’orizzonte, in quel, dietro il dosso dei monti. Anche il vivido astro di Venere s’avvicina a varcare quei dossi e con il suo declinare promette agli eterei spazi lo splendore dei reami siderei. Una sparuta, scialba nebuletta, per farsi notare e vincere la timidità, profitta dei forti colori dell’occaso per ammantarsi di scarlatto; ma, altera, sicura di sé, una grande falce di crescente luna s’è posata lassù, sull’alba chioma del pioppo che a quel contatto manifesta con un brivido la propria compiacenza, e la vespertina brezza lacustre prende a soffiare sulla valle. Vien meno il tenero pigolio che precede il sonno degli uccelletti che s’assiepano tra le folte ospitali fronde del cipresso e, ormai lontano, sempre più flebile il coro dei grilli. L’estate declina, sta per dare in consegna all’autunno i suoi frutteti e le sue fruttiere ricolme. E’ satura e traboccante di profumi l’estate, perciò, soddisfatta, affida i suoi ricordi e le sue ricchezze all’autunno. Oh, l’autunno! La stagione che matura le frutta, che riempie le botti e i granai, che dilata le estive divizie! L’autunno che prende in consegna gli ardori e gl’intensi splendori canicolari, li mitiga e li trasmette all’inverno che, a sua volta, coltone il segreto, li tramuta nei ghiacci ardenti e nel candore delle nevi. E nulla si perde così, e tutto ritorna. Il mondo è perenne ricordo.
E gli uomini, gli uomini d’oggi? Lasciamo perdere!... L’autunno degli uomini d’oggi è la loro desolazione. Gli uomini d’oggi non hanno in sé il potere e la virtù del ricordo e trascinano sulla terra devastata la loro greve insoddisfazione, dacché non trovano il modo di appagare desideri e passioni. Si perdono nell’egoismo, per conseguenza sprofondando nell’apatia. Invano l’autunno porge loro la sua cornucopia, a tal vaso, simbolo di perenne fertilità, essi non sanno attingere; invano spalanca la generosa natura le celle dei suoi sili, ché genuinità non dimora nel sentire degli uomini; all’autentico preferiscono il contraffatto; ricercano la raffinatezza, cioè il sofisticato, perché sa più di progresso; quel loro progresso ch’ è illusoria soddisfazione e, difatti, la pretesa diventa sempre più spropositata. Mostruose aberrazioni vanno manifestandosi, e nei cuori inariditi non emerge più la serena contentezza, il ritenersi paghi d’una bene equilibrata, armoniosa e luminosa coscienza, d’una suprema, divina concordia. L’autunno suggerisce, insegna, porta in alto i vessilli, veicola immagini, apre le porte dei templi, fa vibrare le corde del cuore, ridesta la mente onde essa presti attenzione ai divini segreti operanti nel cosmo. Cessa il fragore delle armi, cessa il tumulto delle genti. L’autunno ci coinvolge in una quiete meditativa. In autunno, infatti, vale il rispetto dei patti, è la stagione in cui cessano gli affanni, è la stagione dei forti, ponderati legami. Ma l’uomo d’oggi, incessantemente litigioso, insaziabile, prono al materialismo, quindi sterile, inconcludente, nichilisticamente ritiene che l’autunno sia un malinconico stradone con l’alberate tutte spoglie, un triste viale del tramonto... La stagione dei morti!
Agli amici, ai nostri lettori gentili raccomandiamo caldamente di procedere sempre con coraggio! Cerchiamo i rubescenti, i dorati sentieri dell’autunno, percorriamoli fiduciosi, con pura disposizione meditativa miriamo i meravigliosi, meditabondi orizzonti autunnali! Ciò ci stimolerà a ritrovare in fondo al nostro animo il vivente ricordo e ridesterà nella nostra mente una seria, viva attenzione al divino ordine che regna nel cosmo, alla divinità del mondo. Cammineremo allora su quei sentieri con passo leggero e raggiungeremo davvero, nell’intima nostra realtà, la contentezza del cuore.
