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IL COMBATTENTE

                         

 

IL COMBATTENTE

  

 

   Il tram s’era fermato, furono costretti a scendere; in fondo allo stradone le rotaie erano state divelte, dallo scoppio di mine fatte brillare o d’un qualunque diverso ordigno bellico. Monconi di ferrame, alberi fatti a pezzi o stesi al suolo, grosse buche e notevoli rovine di fabbriche erano i tangibili segni della guerra. In fondo allo stradone la stazione dei tram interurbani era in completo abbandono per la sopravvenuta interruzione dei binari; bisognava proseguire a piedi per la prossima località di destinazione, sette chilometri circa da scarpinare e lui, il ragazzino, ne era felice, tutta strada fra i campi e tanti incontri, i bianchi buoi, le bufale dal manto nero; ma forse anche incontri più sorprendenti, con una volpe in specie, e che fortuna!  E poi, la vista di tanti uccelli! le curiosissime gazze o un gheppio volteggiante nell’aria, per nominarne alcuni.

   Sgambettava accanto a suo padre che avanzava spedito ma senza affaticare il passo. L’anziano signore tradiva ancora un portamento militare; ufficiale d’Artiglieria del Regio Esercito, qualche giorno avanti aveva rassegnato le dimissioni, sia per lo scioglimento del reggimento d’appartenenza in seguito all’armistizio dell’8 settembre ‘43, che per il riacutizzarsi d’una lesione risalente al primo conflitto mondiale. Quel suo figliolo poco più che settenne stava dando serie preoccupazioni alla famiglia. L’entrata delle truppe anglo-americane con il massiccio seguito coloniale avrebbe portato nelle zone occupate non solo un orribile degrado, ma pure una grande miseria e per mesi la fame. Gli occupanti per far fronte a questa calamità provvidero a distribuire scatole di polvere di piselli. Or qui non si tratterà di quei sciagurati e disonorevoli eventi che provocarono tanti danni e morali sofferenze, di cui tuttora permangono i segni, e si torna all’istante al nostro racconto. Al solo odore, quella polvere dei verdi legumi d’oltre atlantico causava nel ragazzino una subitanea reazione allergica con sintomi di soffocamento, al punto da strabuzzar gli occhi e sbiancare in viso. In quei giorni si era nutrito di pan biscotto spugnato nell’acqua; un pane duro, di trincea, un pane di guerra!

   Oltre il vialone, fatto un bel lungo tratto di cammino, ad un bivio presero per una stradina che s’inoltrava per i campi. Era una giornata di novembre, oltre la metà del mese, e c’era il sole che a intervalli scompariva nell’ombra d’una voluminosa nube per tornare lietamente a fraternizzare con quel campestre azzurro d’un mite autunno. I campi che in prossimità dei paesi e delle strade apparivano del tutto abbandonati, procedendo nell’interno sembravano più curati e nelle adiacenze delle masserie o delle case coloniche si notavano orti appositamente allargati e ben coltivati; le zappe nelle mani delle donne e persino di ragazzetti della sua età, o più grandicelli forse, avevano supplito gli uomini alle armi.

   L’aria frizzante antimeridiana gli metteva appetito, ma non gl’importava; provava invece un grande scontento, la campagna aveva deluso la sua fervida immaginazione; non s’era vista una volpe, una lepre, un falchetto, una pica, soltanto qualche passero svolazzare qua e là e un bue da fatica attaccato ad un albero; gli era parso di avvertire in quell’animale un’aspra sofferenza per tanta triste solitudine.  In città aveva percepito nella gente un oscuro senso d’afflizione e s’era accorto che questa condizione aveva coinvolto anche le cose, le piazze, le strade, le case. C’era stata la resa, si diceva dappertutto, ma non era cessata la guerra, che continuava più su e non si sapeva quanto ancora sarebbe durata. Erano venuti giorni cupi, poi ci fu un gran clamore per le strade, un clamore persistente ma sordo, per nulla gioioso, molta gente, la gente della resa, andava incontro ai vincitori, li applaudivano e li celebravano come 'liberatori’.  Suo padre stabilì che si chiudessero le finestre che affacciavano sulla piazza e sulla strada, non volle che quel vociare penetrasse le mura della loro casa. Non c’era nulla di buono in quella manifestazione chiassosa e sguaiata, vi s’avvertivano i prodromi del consenso popolare a subire un lungo servaggio. Nulla di fausto in quel fragore vociante.

   Frattanto una folata di vento proveniente dal mare non molto distante addensò fragranze campestri e odore di salsedine, respirò con forza e un sollievo raggiunse la sua mente mentre grossi stormi d’uccelli alti passarono in volo su quel tratto di campagna, ali bianche, ali cinerine, e gli parve d’avvertire che quel ravvivarsi tutt’intorno della natura fosse diretto a lui come a voler ridestare il suo coraggio. Scomparve dalla sua mente quel senso di triste solitudine e di greve afflizione che aveva avvertito nelle cose. La natura non si piega, pensò, ora tocca a me! In quel mentre suo padre gli afferrò la mano; c’era da scansare un fosso, colmo d’acqua melmosa.

   Dopo alcune centinaia di metri apparve la masseria. Era una masseria vetusta ma ben tenuta con una larga aia accuratamente pulita. Andò loro incontro festoso un giovane bastardino molto vivace, già sapeva che i padroni attendevano ospiti? Quei rurali infatti erano amici di suo padre cui riservarono con slancio, non trascurando lui, una sincera accoglienza. Si scusarono per non essergli andati incontro col calesse, il cavallo s’era azzoppato; infatti, un anziano veterinario col casco da ciclista s’affaccendava nella stalla attorno all’arto dolorante del buon animale, che tranquillamente si lasciava curare.

   La famiglia era al completo. Il padre sotto i cinquanta, gravemente sofferente di ernia al disco, era stato congedato da circa tre mesi, ma comunque cercava di essere attivo quanto più gli era possibile; la madre, più giovane, dimostrava grande energia ed attenzione ad ogni cosa; il primo dei figli era ormai un giovanottone sotto i diciotto, mentre la secondogenita non aveva ancora compiuto i quindici anni. Poi c’era una vecchia donna ottantacinquenne leggermente curva ma rubizza, che risaliva dall’orto con una zappetta e un roncolino e nel grembiule gli ortaggi raccolti, che lasciò nelle mani della nuora. Riconoscendo l’anziano ospite gli corse incontro gridando: “Signor Ufficiale, Signor Ufficiale, non dovevate perdere la guerra, le guerre non si perdono! Adesso, tutto quel sangue versato, versato invano, invano. . .” e proruppe in singhiozzi. L’ospite le pose la mano destra sulla spalla, le carezzò il crine bianco, e curvandosi all’altezza del suo viso le disse: “Non preoccupatevi donna Vittoria, la buona Madre Terra raccoglierà quel sangue generoso e lo custodirà nel suo grembo, in una ampolla di cristallo”. La vecchina si curvò, cercò la mano dell’ospite per baciarla, ma lui non glielo permise e baciò sulla fronte la vecchia contadina.  Il ragazzino aveva sentito pronunciare il nome proprio della nonnina, quello vero, anagrafico, dai suoi familiari, e molto si stupì sentendola chiamare da suo padre “donna Vittoria”; ma, poiché quel fatto lo aveva alquanto impressionato, nulla chiese.

   Si soffermarono nella fattoria per oltre un’ora; si parlò della guerra, dell’occupazione in atto e di quel che ne poteva derivare; ma soprattutto si parlò di quei campi e del loro destino e dei pericoli che minacciavano le tradizioni contadine; i due uomini convennero che quelle consuetudini dovevano esser salvaguardate e che il lavoro dei campi rimaneva uno dei fondamenti della cultura e del buono stato di salute del popolo italiano. Le donne, che si disponevano alla preparazione del pranzo, insistettero perché gli ospiti s’intrattenessero, ma non potevano accettare l’invito, l’ora si faceva tarda e dovevano far tanta strada per raggiungere il capolinea del tram, e forse era l’ultima corsa. Bevvero però volentieri una tazza d’orzo ben zuccherata. Li invitarono a ritornare; tra una ventina di giorni il cavallo sarebbe guarito e il loro ragazzone sarebbe volentieri andato a prenderli con il calesse alla fermata del tram. Avevano preparato dei sacchetti: ceci, fagioli, orzo, delle cipolle e anche rape e un pollo pronto per la cottura. Le genti dei campi son molto econome e previdenti e nel duro frangente seppero ben occultare vitali provviste. Non vollero denaro, non valeva proprio nulla quel denaro (circolava già la Amlira), l’amicizia è più gratificante, molto di più. L’anziano signore e il ragazzino si divisero i sacchetti; i saluti furono nutriti d’affettuosità.

   Avevano lasciato i viottoli di campagna ed erano di nuovo sulla strada, la strada bianca, ancora polverosa nonostante le piogge autunnali; ora il sole era alle loro spalle e andava calando, ma erano entrambi buoni camminatori, “Non perderemo il tram!” si ripetevano l’un l’altro ridendo di gusto. Di botto alle loro spalle un rombo e poi un prolungato rintronare.  Preceduta da alcune camionette comparve un’autocolonna di carri cingolati, autoblinde e carri armati dell’esercito occupante, americani, e alla fine della colonna un camion protetto sopra e ai lati da un tendone color kaki; seduti sulle panche poste sul cassone si fronteggiavano una ventina di soldati, l’arma tra le ginocchia. Anche il camion aveva superato i due viandanti, ma in quel punto dovette a causa d’una larga buca rallentare, i soldati scorsero il ragazzino e volsero i visi verso di lui; subito cominciarono a rivolgergli parole festanti nella loro lingua e quelli seduti sulla sponda estrema del camion presero a lanciargli pacchetti di biscotti, cioccolata ed altro. “Mi tirano le cose come a un cane”, fu il pensiero che gli attraversò rapido la mente e sull’istante udì la voce del padre che gl’intimava: “Non chinarti!”  S’irrigidì e lanciò uno sguardo fiero ai soldati che si zittirono di colpo e immobili continuavano a guardare quel fanciullo che procedeva incurante. Superata la buca il camion riprese la sua corsa e s’allontanò. Quelle cose sarebbero rimaste lì, sulla strada, e se non passavano altri automezzi qualcuno al bisogno le avrebbe raccolte, ma non in una situazione avvilente. Questi a un dipresso dovevano essere i suoi pensieri mentre continuava il cammino.

   Più tardi sul tram rifletteva: Quei soldati, buttati nella guerra, nei lor paesi oltre l’oceano forse avevano   propri figlioli ad attenderli e in lui per un istante essi avevano ravvisato i loro bimbi o giovinetti lontani. Non era questa una cattiva cosa, poteva ben capirli; ma lui, lui non poteva comportarsi altrimenti, non doveva consentire a sé stesso un gesto avvilente. Peraltro quegli sconosciuti erano anche nella condizione di provare a porger con modo quelle cose.

 

  Ascoltammo questa narrazione da un vecchio signore conosciuto alcuni anni or sono, trovandoci in un gruppo di persone all’incirca della stessa età che rievocavano fatti di quei torbidi anni di guerra. Non lo abbiam più rivisto, né saputo più nulla di lui. Riproponendo la sua storia ai nostri lettori, possiamo soltanto aggiungere che potemmo ancor riconoscere i tratti della sua fanciullezza allorché nell’accomiatarsi da noi, per confidarci che il protagonista di quel racconto era proprio lui, aggiunse commosso queste parole: “Solo andando avanti negli anni son riuscito a comprendere perché mio padre aveva dato il nome di Donna Vittoria alla vecchia contadina, intendendo così ad ogni donna d’Italia, dei bei campi italici, fertili e solatii”.