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LA SOTTIL PARLADURA

                         

 

 

L A   S O T T I L   P A R L A D U R A

 

e

 

 L’ A T T E N T O   A S C O L T O

 

 

Ogni sottil parladura s’intende,

Perché l’uom non v’attende?

E’ negligenza o viltà che contende!

                  Francesco da Barberino

 

 

   Davvero, proprio così! Al sottil parlare occorre prestare attenzione, porvi mente come si suole dire, e non un semplice stare ad ascoltare e alla presta. Il da Barberino si vale del verbo attendere che indica proprio il porgere attenzione e in più il tender la mente, lo spirito, per dirigerli alla ponderatezza, a un giusto vagliare, al ben considerare; il verbo latino considerāre infatti si compone di cum, insieme, e sidĕra, plurale di sidus, astro, a ricordare che l’uomo deve volgere in alto il suo pensiero, mirando alle celesti costellazioni, onde sapersi giovare in modo appropriato del parlare sottile, quello che richiede, per non andar svilito, l’intento ascoltatore.

   Nello scritto che precede e in parte a questo prelude, abbiamo accennato al come l’uomo fin dalla nascita sia predisposto, già con orecchio d’adulto, quindi per suo libero volere, l’orecchio d’adulto appunto, a ben nutrirsi, significando non solo cibo per l’organismo fisico, ma anche, e principalmente, nutrimento per il lume del suo intelletto, non potendo sottrarsi, in quanto uomo, ad acquisire in sé la virtù dell’equilibrio per adempiere ad un vivere e un agire secondo saggezza. Come insegna Dante, un lume è dato all’uomo per vincere i condizionamenti naturati, separarsi dalla istintiva o imposta malizia, e deliberatamente produrre bene, cioè rectam viam sequi. Ragion per cui il da Barberino sostiene che ogni sottile discorso può intendersi appieno, sian parabole, comparazioni allegoriche, similitudini o insegnamenti da trasmettere crittati; di solito non è così, perché non si porge attento orecchio e quindi non s’afferra con desto intelletto ciò che saviamente in sé andrebbe compreso con vantaggio.  Causa ne è la negligenza o addirittura la viltà radicate nell’animo umano, verseggia il da Barberino. Questa sordaggine posta in evidenza dal nostro poeta, la insensibilità e l’indifferenza al buon ascolto, risultano in quest’epoca ultima essere d’una insuperabilità spropositata; ma non meno va riprovato il linguaggio d’oggigiorno, la lingua dei contemporanei, grossolana e spicciativa.

   Un bieco egoismo grava sulle relazioni sociali, sui legami familiari, sui vincoli d’amicizia; affabilità, cordialità, cortesia, concordia son parole desuete. In voga, l’ipocrisia! Cioè (udite bene!) la doppiezza. Disarmonia, disordine, discordia. . . dis dis dis. . . il prefisso oggi imperante, la particella funesta che quando assume forza negativa indica la separazione, in tal caso, rovesciando il senso positivo della parola, introduce la contrarietà. Non accordo, unione, ma discordanza, dissociazione. . . Riflettete bene sul marcio frutto di quel bieco egoismo! Unire, no! Disunire! . . . Eppure, la parola UNITA’ non fu mai tanto scialacquata, e ovunque, come in questi ultimissimi tempi. . . i tempi delle dissociazioni. . . dissociazione psichica. . . scissione nucleare. . . Scindere, insomma, separare, dividere. . . menti e cuori umani scissi e discissi, sempre più scissi e discissi. . . La globalizzazione, stando a una precettistica biblica, opera così! Divide ogni vita. . . in frammenti. L’egemonismo degli usurai, spacciato per il governo mondiale dei filantropi, questa globalizzazione, è monoteista, adora il suo sommo iddio, Mammona, il Danaro, il demone desertificante agito dal Disgregatore. Il Danaro! Attenzione non il dollaro, lo yuan, il rublo, l’euro, ma la natura come business, la natura tutta da commercializzare. La vivente Natura, tutte le sue membra e liquescenze ridotte a questa dannata cosa! L’oro, l’oro. . . auri sacra fames! Esecranda brama dell’atro, dell’oscuro, dell’atroce, del disumano. . . reso in simbolo: “oro nero”! Di una civiltà in rapido declino oscuro simbolo, segno avverso! Simbolizzazione di un’epoca cupa che a dire di Esiodo riserverà ai mortali funesti dolori, perché, una volta fuggite lungi dalla Terra Giustizia e Verecondia, gli uomini non avranno più riparo dai mali.

    L’Età oscura del disequilibrio, della dissennatezza, dell’insania che ogni ordine dissesta. Sono i tempi in cui la parola non risuona leale sulle labbra degli uomini, non è vibrante e pronunciata con schietto accento; e l’umano udito è indebolito, ottusa l’attenzione per negligenza o viltà. Si è intorpidito, impigrito l’orecchio interno, quell’orecchio che è direttamente collegato all’equilibrio fisico ma soprattutto a quello mentale, contribuendo a formare una mente provveduta e attenta, sapiente ponderatrice. L’equilibrio: la virtù del saggio! Smarrita la saggezza, l’uomo ha perso la capacità di vigilare primariamente in sé stesso e da ultimo, ma altrettanto è rilevante, intorno a sé.

   Inascoltata dunque la parola della saggezza, il verbo, che un tempo scandiva l’ordinamento naturale delle cose, pronunciava l’ordine stabilito e con limpidi accenti, solenni, reggeva le umane società. Dall’incostanza, dalla labilità degl’individui, in assenza di virtù equilibranti difettando guida e governo, deriva l’odierna instabilità dell’umano consorzio.

   Sostiene Eraclito che sotto il Contrasto, lo scorrere continuo cioè degli opposti e i loro movimenti, se si evita di dare ascolto al proprio egoismo, ma si porge orecchio al logos, attentamente ascoltandolo, si coglie la realtà vera, che tutte le cose sono UNO; il saggio apprende così con orecchio d’adulto che UNO è l’insieme delle cose, e questo dato reale, questa realtà, egli può disvelare avvicinandola a sua volta alla comprensione di coloro che per negligenza o viltà orecchio attento non hanno. L’orecchio interno, orecchio adulto in ascolto del verace mondo, e la parola sagacemente altruista del sapiente preparano misura, grazia, armonia, semplicità, salute per le genti.

   Gentile Signor Notaro da Barberino, non sono questi i tempi del parlare sottile e dell’orecchio colto che lo intende, il linguaggio oggi è in costante involuzione e ciò dipende dalla superficialità del ragionamento svuotato d’ogni forza interiore, dei discorsi privi di significati etici, spirituali, incapaci di elevarsi dal sensibile all’intellegibile, di gustarsi i voli del traslato, di internarsi nella profondità del senso anagogico.  La parola sempre più è al servizio delle espressioni gergali del trafficare, del mercanteggiare, del politichese da campanile e quindi dell’istinto, della mentalità traffichina, oltre che degli “esperti” in teorie e politiche mercantilistiche e del lessico dei tecnici; la parola va perdendo il suo antico fascino, perde di affabilità, scade di pregio finendo nell’utensileria domestica e lavorativa della quotidianità più banale e ripetitiva; non più originale e quindi creativa. La parola come utensile.

   Poi, la fiumana lutulenta, diurna e notturna, del chiacchiericcio in tivù. . . Il dozzinale parlato da piazza televisiva, sempre artefatto, insincero, mai vivo e spontaneo, di sovente volgare, se non scurrile addirittura sulle labbra di intellettuali che posano a libertini, di bighelloni venuti alla ribalta o di influenti big vitaiole. Un discorso ordinario, monotono perché sempre e soprattutto demotico, anche quando cerca di elevarsi di senso e di tono trattando di analisi politiche o economicistiche, in un politichese infarcito di filosofemi sul neoliberismo o di nozioni marxiane, tanto più che ogni singolo parlante espone le sue supposizioni cattedratiche e trae le sue conclusioni in dissidio con il resto del mondo e immancabilmente con un dire oscuro. Tutto ciò è propedeutico all’affarismo apolide a tendenza internazionalistica che mira alla globalizzazione dell’intera economia mondiale in un mercato unico dal quale scomparirà ogni tipo di moneta rappresentativa di un valore tangibile. Per questi monoteisti bacchettoni, presuli e loro fratelli maggiori, il danaro deve inevitabilmente diventare impalpabile, quel loro sommo iddio non può essere di terrestre materia, non funziona del tutto, ed essi soltanto (fate attenzione, ché qui non si scherza) devono restare con lui in confidenziale segreto; immaginate a qual potere pretendono di assurgere! E così ammollano al telespettatore, al fin di distrarne l’attenzione, questa nebulosa “finanziarizzazione” del linguaggio tele-giornalistico complicato da obscūra dicta, la loro sottil parlatura, e il pubblico negligente e vile finge d’intendere quel cui non attende, perché per davvero non v’ha posto la minima attenzione. Ma il bastone governa il somaro, e tale è la massa dei telespettatori; essi così la pensano, e sogghignano.

   Con il cinema hollywoodiano e con la cerĕbri-disgregatrice, alienante tivù son riusciti a plasmare una razza globale, una specie facilmente plagiabile, quindi assoggettabile, ed è facile prevedere quel che accadrà nei prossimi decenni se nei popoli non ci sarà un genuino risveglio.  

   A tal punto ci conviene rassicurarci tutti, o amici lettori, tutti noi che non ci lasciamo ingannare da tal logorroica messaggeria, né auguriamo al mondo imminenti catastrofi e ci siam sempre battuti contro gli allestitori di scenari apocalittici e contro i propagatori del terrore. Gli uomini d’oggi provengono da quelli di ieri e dell’altrieri e gli uomini di domani e di posdomani proverranno da quelli di oggi. Spetta a noi, qui e ora, intraprendere il duro lavoro; dipende dalle nostre scelte e da come ci predisponiamo al grande compito: realizzare il risveglio dell’Uomo e la concordia nei Popoli. Ricomporre e riordinare la società umana, ridare armonia alla natura e al mondo. Abbiamo appreso da Eraclito che il mondo fenomenico in cui viviamo è dominato dal Contrasto, ma anche ch’ è l’unità a sostanziare e reggere il tutto. Di tutte le contrapposizioni e gli scontri, con il principio dell’equilibrio, può essere ristabilito l’accordo. L’uomo che vuole unificarsi, deve esser in sé libero; libero dai lacci delle preoccupazioni e degli appetiti materiali, non dominato dalle inclinazioni istintuali, deve vincere l’egoismo, farsi archetipo; e così, con distacco, potrà governare il mondo fenomenico e i processi dissociativi, onde adempiere alla propria evoluzione e intraprendere la via al divino, valendosi della misura, disponendo della norma, per contenere le avverse forze; altrimenti, la schiavitù. Per non smarrire la diritta via l’uomo deve vivere in continuo ascolto del profondo sé stesso, dell’adulto, del Vegliante Antico che è dentro di lui. La diritta via non sarà mai smarrita e comunque sarà sempre ritrovata quando l’uomo avrà maturato in sé pieno equilibrio e acquisita saggezza. La saggezza è la medicina contro ogn’ insania. I popoli attendono la guida della saggezza per ritrovare Giustizia e Verecondia. Attendono che venga pronunciata la parola che unisce, che in seno alle tribolate società ristabilisca la concordia, che riporti armonia. La parola potente, pronunciata da una lingua leale e da labbra pure, miti ma severe, la parola che promuove il giusto, il buono e il bello, la parola vibrante che d’incanto fa germogliare l’Unicalamus, la simbolica spiga, dei popoli la rigenerazione.

   S’approssima la primavera, che segni l’auspicio di tante venture divine primavere! E, ancor sempre, sia la

 

SPEME NOSTRA FIDANZA

 

 

*

 

 

   Chi conobbe le antiche origini, finirà per cercare le fonti dell’avvenire e le scaturigini nuove.

O miei fratelli, non passerà lungo tempo, e nuovi popoli sorgeranno e nuove sorgenti scorreranno scrosciando in nuovi abissi.

Giacché il terremoto dissecca molti pozzi, ma anche scopre alla luce molte forze interne e molte cose secrete.

Il terremoto suscita nuove sorgenti; nuove fonti rampollano quando muoiono i popoli vecchi.

                                                                                                                             F. Nietzsche

 

 

MICHELANGELO - Risveglio dalla schiavitù
MICHELANGELO - Risveglio dalla schiavitù

 

 

*

 

S A C R O  S D E G N O

  

 

La luce rifulge e le penose

catene già sento cadere.

Rialza, mia Patria, la fronte;

da troppo tempo tu umiliata giaci.

                     (variante da Eschilo, Le Coefore)

  

 

Traccio in questo abisso un segno

Di saettante fuoco, e m’affretto

All’alte cime ove la neve dura

E regna con il sole.

L’altera collera del branco

Incora l’ardua ascesa,

L’ansito pieno della foresta

Adizza l’ululo lupesco.

Relitto l’immane dirupo

E il demone dei crepuscoli

Al dirugginio e al crepito del fuoco,

Contemplo quassù il volo dell’aquila

Nel silenzio solenne delle vette.

 

Accanto al fiero nido pongo

La nuda dimora del sacro sdegno

Che con vindice intento

Dal dorso della greggia invilita

Svellerà la buona lana

E, zittito il timoroso belato,

La consegnerà al pio tessitore.

Sacro sdegno e mano sapiente

Tesseranno l’aurea veste

Della novella Italia.

                                                            

                                                   l’Italica voce