ROMANO AGIRE

L’ARDIMENTOSO VIAGGIO
Regale è il fiume allor che scorre
nell’alveo suo antico,
alfin si spande e segna
vaste valli, e le piane feconda.
Così maestoso fluisca
nei veridici dì
d’armonia il canto
e sulle limpide acque,
al timone l’ingenito ricordo,
trascorra, prospero il vento,
l’invulnerabil prora.

R O M A NO A G I R E
PERITIA RURIS E IL BUON GOVERNO DI SE’
Ubi nunc est Roma… antiquum oppidum
in hoc fuisse Saturniam scribitur
arvorum sacerdotes Romulus in primis instituit
“Non genera meraviglia che gli antichi ritenessero quella terra sacra a Crono o Saturno; reputavano che il dio la provvedesse d’ogni buon frutto, i suoi abitanti saziando all’occorrenza. Sia che al modo greco lo si voglia chiamare Crono, o Saturno come dicono i Romani, entrambi questi dei comprendono la natura tutta delle cose. Ora, poiché in quella terra v’è delizia e abbondanza di beni, si reputa che non vi sia luogo più confacente a sede degli dei, com’ esso lo è dei mortali. E così a Pane son dedicati i monti, alle Ninfe i prati e gli spazi in fiore; ai Geni marini le isole e le riviere e ogni luogo è in custodia d’un genio o d’un dio, giusta il correlato culto.”
Il breve passo riportato è tradotto dalle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso, lo storico greco che visse a Roma al tempo di Augusto. Quella terra sacra è l’Italia, detta in un tempo lontano la Saturnia Tellus, nome che le fu dato da Saturno il re del Satya-yuga, l’aurea età dell’Essere, l’età del Reale, della Compiutezza. Son trascorsi circa duemila e cinquanta anni dalla stesura delle storie di Dionigi, ma molti, molti ancor più millenni eran trascorsi a risalire dal tempo in cui egli viveva sino ai Saturnia Regna, quel mitico tempo della perfezione. E ancora, in quello scorcio di storia romana, Orma Saturnia, che fu il principato Augusteo, lo scrittore greco trova tracce di quell’età felice nel paesaggio italico dei suoi tempi. Nell’Europa, la migliore di tutte le terre, egli sostiene; al paragone con le altre è appunto la terra datrice d’ogni buon frutto e largitrice di ogni bene utile. Conosceva da cima a fondo la penisola, si sofferma infatti sulla Campania, terra che descrive amenissima e straordinariamente frumentaria e fruttifera; racconta che, ammirato, vi contemplò campi che davano tre raccolti “nutrendo dopo i semi dell’inverno, quelli dell’estate e, dopo gli estivi, gli altri per l’autunno”. Dappertutto lungo la penisola magnifici oliveti con elevata produzione d’olio e sorprendenti vigneti. E tessuto l’elogio delle terre lavorate, descrive quelle destinate alle greggi numerose di pecore e di capre; poi quelle sovrabbondanti d’erbe palustri, fresche e rugiadose, per saziare le mandrie numerose di cavalli e di bovi. Non dimentica l’ammirato turista greco di descrivere la solennità delle distese selvose che coprivano colli e valli incolte, che offrivano agli abitanti il materiale per le navi ed ogni altro genere di opere e la laboriosità degli uomini cui fiumi obbedienti agevolavano i trasporti. E infine l’icastica chiosa, degna d’una Saturnia tellus: chi non la riterrà la migliore in quanto più che bastevole a sé stessa e perciò meno bisognosa dell’altrui?
Dopo siffatta lettura non è facile sottrarsi a un senso penoso di spaesamento. Da capogiro! Quale perversa trama, ormai secolare, indiscernibile da menti impedite, da occhi bendati, cui è impossibile vedere e quindi intendere con chiarezza il vero e consapevolmente distinguere la realtà? E voi, gentili lettori, riuscite a ritrovate i tratti paesaggistici e le caratteristiche naturali e umane dell’Italia di due millenni fa, come tramanda l’antico testimone, nell’Italia di questi giorni?
Mostruosità, brutture, sconcezze. . . sfruttamento dissennato delle risorse naturali, desertificazione, snaturamento, inquinamento, depauperamento della flora e della fauna terrestre e marina, e così via di male in peggio.
Non occorre che rispondiate a quella domanda, gentili lettori, basta volger lo sguardo intorno. Meglio poi non lasciarsi coglier da stornimenti di testa e da un volgar senso di spaesamento; se scegliamo di richiamare alla memoria sapienti, scrittori, poeti e figure di maestri, guide, reggitori e condottieri antichi, con le loro storie gloriose e sovente anche tragiche, è per tenerne vivo il ricordo, qual dovere di riconoscenza verso gli ordinatori e animatori della nostra fascinosa cultura, edificatori di una Civiltà imperitura. E, segnatamente, perché possa tal ricordo ancor essere vivente sprone ai giovani del nostro tempo, onde dall’oppressione delle menti e degli animi, dall’inettitudine imposta, dall’apprensione per la diffusa incertezza, si ergano, culturalmente consapevoli, all’esemplarità dell’agire risoluto e virile. Uomini scientemente generosi han da venire, scevri d’egoismo e quindi attivi, creativi nella realità del presente; donne gentili e oneste, caste custodi del culto leggiadro del feminino. Una società armonica, sana, riguardosa dei principi naturali, diligente e premurosa osservante delle leggi, sostenitrice di conquiste civili, promotrice d’un ordine spirituale, divino. Un mondo che non si lasci condizionare da ignobili invasamenti, non si lasci travolgere da fanatismi funesti, da lotte intestine, da dispute e polemiche odiose. Governanti di riguardo, non asserviti, che possano offrirsi come modello di patrie virtù e coltivino in sé lo spirito di sacrificio, immuni da colpe ed egoistiche bramosie, incorrotti. Non uomini fatali, non donne fatali, tantomeno fatidici proclami e richiami avveniristici. Un agire ponderato, avveduto, un leale operare nella luce del presente e nella fermezza della prisca fides e che deve adempiersi in una realtà solare, l’acquisita consapevolezza del più profondo Sé. Uno schietto agire italico, il romano agire.
Alcune righe più su menzioniamo l’oppressione derivante dalla soggezione al pensiero unico, l’inettitudine imposta, l’incertezza artatamente diffusa tra la gioventù dagli efferati padroni dei mass media, ma occorre anche precisare che le mire di costoro sarebbero rese vane se i giovani non cedessero ad una loro propria neghittosa natura e si lasciassero trascinare spesso alla nequizia. E il malanimo, l’improbo agire, la cattiveria rafforzano lo stato di cattività, la servitù. A tanta bassezza riduce l’incultura e l’ignoranza di sé, corresponsabile l’assillante (ve’ la tv!) ed estremamente enfatizzato indottrinamento all’eguaglianza sociale; quindi non distinzione per virtù, per valore, per educazione, per l’innata cortesia, per il garbo, per il culto dell’armonia, della concordia; viceversa eguaglianza nella malagrazia, nella villania, nel livore, da cui inimicizia, avversione, partigianeria, faziosità; e poi, incoerenza somma!, parzialità e il conseguente contagio dei favoritismi. Tutto ciò è squilibrio, demenza. A fronte di questo marasma, noi romanamente invochiamo il principio etico della imparzialità, ci appelliamo dunque all’animus aequus, e quindi alla civium aequabilitas, che, in Roma, soddisfaceva appunto all’equilibrio sociale. È l’imparzialità, quale principio etico di equità, che assicura l’equilibrio sociale; dogma iniquo è il falso ‘principio’ dell’uguaglianza sociale che conduce ad un aberrante inumano livellamento e conseguentemente al dispotismo.
Al dispotismo dei fantasmi! Oggi gli insigni Palazzi, simbolo antico della constituta auctoritas , sono vuoti, manca infatti l’AUCTOR, il fondatore, il promotore, l’accrescitore, il garante del buon esempio. Manca l’auctor frugum (Virgilio), colui che fa germogliare le messi, il buon aratore e quindi il buon coltivatore; manca l’auctor concordiae, l’UNIFICATORE, il più autorevole di tutti, il modello vivente.
È la ragion per cui volendo riuscire utili e boni consiliatores, se ci è dato, invogliamo giovani e giovanissimi a ricercar modelli nella storia patria e soprattutto nel mondo della vera classicità, cioè dell’antichità greco-latina, come han sempre rettamente fatto nei secoli i nostri migliori scrittori e poeti:
I CONSOLI ARATORI
Queste man rozie ed incallite e piene
Della polve di rustica fatica,
Pria che tu spregi, lascia ch’io ti dica
Se onorar tu le puoi quanto conviene.
Queste, onde illeso ancor traluce, e viene
Lume di nobiltà verace antica,
Spesso in pugna atterrar squadra nemica,
E la patria salvar dalle catene.
Queste, in cui Roma volle il fren deporre,
Intiman legge a Lei, che già s’accinge
Leggi, per opra d’esse, all’orbe imporre.
Forti il vizio domar che Roma stringe;
Forti l’oro a sprezzar, più che a raccorre:
L’oro, che più del fango imbratta e tinge.
Questo severo sonetto dallo stile scabro e serrato simboleggia nelle figure dei sommi magistrati romani, che in pace esercitavano il potere esecutivo ed eran duci in guerra, quel lume di nobiltà verace antica, che fu un tratto proprio e per arcaica tradizione della Romanità e per secoli dei suoi reggitori. Consoli aratori certo in senso eminentemente simbolico, ma non solo, perché spesso, quelle mani che in guerra impugnavano il gladio, mai avevan disdegnato la fatica dell’aratro, fra i tanti l’agreste Cincinnato, accorto politico e valente giurista, rivestito già ottantenne delle responsabilità della dittatura. Rozie, così ce le presenta il poeta, quelle simboliche consolari mani, e cioè genuine, sincere e callose, ché il qualificativo, ben reso in latino con rudis o agrestis o rusticus, non aveva subito ancora il senso dispregiativo che si trova nell’attuale uso, ma indicava semplicemente una incorrotta naturalità. Mani operose che imposero in Roma, e all’Urbe stessa, dure leggi, onde potesse a sua volta imporre leggi giuste all’intero Orbe romano. Mani ferme e risolute, incorruttibili, pronte a domare il vizio e a respingere l’adulazione e il richiamo del denaro.
Il sonetto è del matematico e poeta Lorenzo Mascheroni vissuto nella seconda metà del settecento; risalta la rappresentazione simbolica tratta dal ricordo della saturnia cultura agricola, cultura dei campi che Sat-Krta, Saturno, trasmise da quell’arcaica età alle popolazioni italiche, cultura in cui si celava il lume nobilitante della verace conoscenza e realizzazione dell’uomo, giusto nell’arte e attraverso l’arte del coltivare-coltivarsi. Furono i tempi dei sapienti agricoli, del savio, prudente pastore, del coltivatore sapiente. Satur (lat. class.- Sator, oris), il seminatore, il coltivatore, ma pure il generatore, l’autore, il padre; sua insegna la falce che taglia l’erbaccia inutile, disinfesta il terreno dalle nocività, pota le piante, miete il raccolto. Presiedeva il grande Satur anche a la concimazione, cui era riserbato il fecondante laetamen (dal verbo latino laetare, nell’uso transitivo render fertile, concimare, allietare; e laetari dep., nell’uso intransitivo gioire in sé, allietarsi), onde non disdegnava l’appellativo di Stercutus, colui che scerne e scevra i principi nutritori della terra, le misture organiche per il terreno coltivo; tutto ciò da attentamente intendersi pur anco nel senso allegorico. Tal senso allusivo, a conferma, lo troviamo riposto, come indicato, nell’uso del verbo testé citato laetare/laetari, dal transitivo di esso passando alla forma deponente intransitiva; carattere magico della lingua latina!
Sottraetevi per un istante alla vista di tante rovine, insieme evitate i pensieri, i convincimenti e le vedute d’oggi, l’effimero, e per un tratto raffiguratevi un’età antichissima, fate appello, rivolgetevi al remoto passato che è in voi e irraggiate il vostro presente del lume di nobiltà verace antica; se riuscite a distinguere l’imperituro, fatelo emergere e saziatene la vostra anima. Certo occorre farlo con grande sforzo, occorre che d’un colpo annientiate l’autolatria corrente, quella odierna che vi siete fabbricata addosso e che vi siete lasciati fabbricare addosso. Tutta robaccia. Con ciò non è che dovete farvi arcaici, primordiali, no! Dovete semplicemente risanare il vostro presente, ritornare al primiero stato del vostro essere, ciò significa realizzarsi e riprendersi intatto il proprio passato in questo presente che è già il futuro.
Realizzarsi nella tradizione italica per adempiere la romana disciplina.
Saturno era giunto nel Lazio, la terra che nasconde, venendo dal mare e da nessuna altra terra; giungeva dal grande, immenso Oceano, avendo attraversato le acque primordiali, il grande coltivatore che dapprima era stato il grande nocchiero, il polso saldo sul timone; il grande scrutatore d’astri dalla vista infallibile che conosceva tutte le costellazioni del cielo, i cui giri e percorsi lui, emergendo dalle acque, aveva raffigurato e segnato in tutti i seni dell’universo firmamento. Giunto alla terra, colei che nasconde ogni sementa, il grande seminatore alternò ordinatamente le stagioni, fugando le nubi della confusione; consegnò il sonno alla notte e la veglia al giorno, ridisegnando le albe e i tramonti; ideò e calcolò le fasi della luna. E la terra rifiorì, fruttificò, divenne uno splendido giardino. Ed era lieta la terra ed eran lieti gli uomini. Erano prosperi i Saturnia Regna e splendida l’era di Sat-Krta, perché vera è l’età dell’Essere, della regale Realità!
“Ubi nunc est Roma, Septimontium nominatum ab tot montibus quos postea urbs muris comprehendit; e quis Capitolium dictum, quod hic, cum fundamenta foderentur aedis Iovis, caput humanun dicitur inventum. Hic mons ante Tarpeius dictus a virgine Vestale Tarpeia, quae ibi ab Sabinis necata armis et sepulta; cuius nominis monimentum relictum, quod etiam nunc eius rupes Tarpeium appellatur saxum. Hunc antea montem Saturnium appellatum proditerunt et ab eo Latium Saturniam terram, ut etiam Ennius appellat. Antiquum oppidum in hoc fuisse Saturniam scribitur. Eius vestigiae etiam nunc manet tria, quod Saturni fanum in faucibus, quod Sarturnia Porta quam Iunius scribit tibi quam nunc vocant Pandana, quod posta aedem Saturni in aedificiorum legibus privatis parietes postici ‘muri Saturnii’ sunt scripti.” (Varro-l.l.-libro V, 7.)
Varrone Reatino, vissuto ai tempi di Cesare ed Augusto, ci ha tramandato queste preziose notizie. Dov’è Roma si allungava il Septimontium, i sette colli che poi furono inclusi nelle mura dell’Urbe. Tra questi il colle Capitolino detto così dal teschio umano, caput, che si dice vi fosse stato rinvenuto mentre si gettavano le fondamenta del tempio di Giove. Ancor prima era chiamato Tarpeium saxum, perché in vetta, sulla rocca, i Sabini vi avevano soffocato sotto gli scudi la Vestale Tarpeia, come racconta la famosa storia. Ebbene, scrive Varrone, quel colle un tempo era chiamato il monte Saturnio e la terra intorno Saturnia e tal notizia tramandò anche il poeta Ennio. Antiquum oppidum in hoc fuisse Saturniam scribitur. Scribitur: è inciso? è scritto? è narrato? Gli interrogativi riguardano solo la maniera in cui fu tramandata la notizia, perché certa è tal tradizione, secondo verità. Infatti, eius vestigiae etiam nunc manet tria: il tempio di Saturno, che sorgeva in faucibus, cioè nel passaggio angusto; la Saturnia Porta; infine nelle leggi che riguardano gli edifici privati le pareti postiche vengono denominate ‘muri Saturnii’. Vestigia trine! inviolabile è il ricordo trino.
Ubi nunc est Roma, nel luogo dei sette colli, su quello oggi detto Capitolino e in quei tempi lontani mons Saturnius, Roma era. Nell’ età del Satya, nell’aurea età di Sat-Krta, Roma era, nello splendore di quei tempi arcaici, con il suo nome d’allora, Saturnia, e quell’aureo nome si estendeva a tutta la terra che la circondava; terra oltre i suoi monti bagnata dal mare. La terra ove si manifesta la perennità dell’essere, il reale: la Saturnia tellus. La terra ove soggiorna quindi il vero, perché solo ciò ch’è perenne e vero, è reale.
Giunse dall’insondabile mare, lui il conoscitore degli abissi, l’infallibile nocchiero, l’esperto navigatore rispettato dai marosi e dalle tempeste; dalle strade del mare se ne venne alla terra che occulta tutti i semi, lui, Satur, il provetto seminatore, l’agricola provveduto.
Un abile navigatore, un nocchiero con l’occhio fiso al cielo e agli astri, che assomma in sé anche le doti del cultore dei campi. L’occhio! il remo! l’aratro! Un volere eletto, avveduto, consapevole, il dominio delle acque, il governo dei segreti della terra, della natura tutta, la vista vigile dei cieli: la C O N O S C E N Z A.
Così furono inaugurati i Saturnia Regna.
Risplendeva la gloria degli abitanti del Lazio e delle terre intorno, che nel tempo avvenire sarà l’Italia e soprattutto l’Italia romana. La gloria di cui risplendevano le genti non era un volgar rumore, la gloriuzza di cui fan vanto gli egocentrici e gli egoarchici di oggi, ma un profondo, consapevole stato di felicità; una felicità echeggiante che si faceva udire ovunque tra le genti in ascolto e che allietava i campi; e, s’infioravano le terre.
Un solo stelo, unicalamus, come l’aurea spiga del grano. Solarità, radiosità!
“Hic igitur Ianus, cum Saturnum classe pervectum excepisset hospitio, et ab eo edoctus peritiam ruris, ferum illum et rudem ante fruges cognitus victum in melius redegisset, regni eum societate muneravit.” (Macrobio)
Quando Saturno giunse per nave nel Lazio regnava Giano, che fu lieto d’ospitarlo e di associarlo al suo regno; Saturno infatti gli aveva trasmesso l’arte dell’agricoltura, peritia ruris, e così, con la scoperta delle messi, era migliorato il loro costume alimentare non più fero e rude. Quello fu un regno di grande concordia e furono tempi felicissimi anche per le due città vicine: Ianiculum huic, ille fuerat Saturnia nomen (Virgilio). Nel Lazio già circolavano monete di rame e Giano volle che ne fosse coniata una in onore di Saturno; su un verso fece imprimere l’effigie della sua testa e sull’altro una nave, era infatti arrivato per mare.
Radicate narrazioni tramandavano che anche Giano era giunto nel Lazio per mare dalla Tessaglia, e perciò era ritenuto l’inventore della nave e onorata, antica divinità del mare. In tempi meno lontani anche Enea, altro gran padre latino, arcavolo dei Romani, verrà per mare dalla Troade in fiamme, che in tempi trascorsi era stata l’antichissima Wilusa degli aedi e di Omero.
Quando trattiamo o discorriamo dell’Uomo, del VIR-A, dell’AUREO FLOS, del Risvegliato, è bene richiamarne la remota, la remotissima ascendenza, i mitici, eroici antenati d’origine divina: M A I O R E S
“Cum inter haec subito Saturnus non comparuisset, excogitavit Ianus honorum eius augmenta. Ac primum terram omnem dicioni suae parentem Saturniam nominavit.”
Saturno d’improvviso scomparve, Giano gli tributò un grande onore e tutta la regione su cui regnava da quel momento fu chiamata Saturnia, la terra cui Saturno diede la falce come attributo, falcem, insigne messis. La messe simboleggiante la prodigiosa divizia, la felicità che deriva dal culto della sapienza. Saturno si era occultato in quella terra che con la sua opera eroica aveva indirizzato alla luce, insegnando agli abitanti del luogo le arti dell’agricoltura e della navigazione. Arti da intendersi anche in senso allegorico come cultura civile e innanzitutto e soprattutto come una luminosa tradizione sapienziale perpetuantesi d’età in età, dall’Urbe Saturnia alla Romana Gente. Per la salvezza del TERRARUM ORBIS.
Ed ora ascoltiamo il buon Marco Terenzio, l’amichevole Varrone del De Re Rustica, premettendo alcune semplici considerazioni linguistiche. Il qualificativo rusticus deriva da rus, ruris, n., la villa, la campagna, il podere; mentre arvum, i, n., terreno arativo, campo, deriva da arare (aro, as); arare aequor è il virgiliano solcare la superficie del mare; aratrum,i, n., aratro e remus,i, m. remo hanno in comune la radice AR, spingere; in sanscrito aritras è il remo, l’aratro che fende le onde, nella latina lingua, l’aratrum, il terreno. Ora potete raffigurarvi meglio Saturno agricola e marinaio; potete anche intendere meglio l’Anima Saturnia e la costituzione agricolo-marinara della Saturnia Tellus e delle genti italiche che la abitano; e potete anche intuire il senso sovrasensibile di questo arare aequor, di questo arare terram, e, in uno, di quel opus suscipere per l’arcana ricerca dell’aureum semen; ma, per far ciò, dovete spingervi in età molto remote, nell’aurea età di Satur, molto, molto prima della breve età biblica in cui v’hanno costretti. Sdrogatevi! Disintossicate l’ego avvelenato di modernismo e progressismo yankee in alfabeto giudaico! Non vi lasciate più travagliare da questo disturbo psichiatrico che è la oppressiva scansione biblica del tempo lineare; entrate nella estensione dell’armonioso movimento circolare delle ERE, nella misura dell’unità distinzione, nella rotonda verità; trovate il modo di accrescervi, di evolvere seguendo il corso sferico degli astri. Rivoluzionate culturalmente voi stessi, rinnovatevi profondamente, rigeneratevi nella vostra origine, uscite alla luce! Ed ora torniamo a Varrone e al suo stile rusticano, ovvero alla sua agri colendi disciplina.
“Nec mirum, quod divina natura dedit agros, ars humana aedificavit urbes, cum artes omnes dicantur in Graecia intra mille annorum repertae, agri numquam non fuerint in terris qui coli possint. Neque solum antiquior cultura agri, sed etiam melior. Itaque non sine causa maiores nostri ex urbe in agros redigebant suos cives, quod et in pace a rusticis Romanis alebantur et in bello ab his allevabantur. Nec sine causa terram eandem appellabant matrem et Cererem, et qui eam colerent, piam et utilem agere vitam credebant atque eos solos reliquos esse ex stirpe Saturni regis. Cui consentaneum est, quod initia vocantur potissimum ea quae Cereri fiunt sacra”.
La natura divina diede agli uomini i campi, nota Varrone, mentre l’arte umana edificò le città; in Grecia è recente, non più di mille anni, la scoperta delle arti, ma indeterminabile è il tempo in cui apparvero primamente i campi coltivi. E non solo la cultura dei campi è il più antico genere di vita, ma anche il migliore. Così, e non senza motivo, i nostri maggiori invogliavano i cittadini a passare dalla città alla campagna, e perché in tempo di pace venivano sostentati dai contadini Romani, e perché eran da questi protetti in tempo di guerra. Non senza ragione davano parimente alla terra il nome di madre e di Cerere e credevano che quelli che la coltivavano, conducendo una vita limpida e fruttuosa, fossero essi i soli rimasti della stirpe del re Saturno.
Initia si chiamavano in specie i sacrifici che si offrivano a Cerere: Initia, altra conferma della remota antichità della cultura dei campi!
Varrone presenta la conoscenza e la pratica agraria, peritia ruris, come un’arte risalente ai remoti inizi ed evoluta e perfetta sin dalla prima manifestazione, perché concessa dalla divina natura di cui l’uomo era allora partecipe; una pratica sapienziale che spinge e innalza l’uomo alla conoscenza del proprio intimo sé, mentre muove la natura, nel suo stato dinamico, a cooperare con l’uomo operante. Questo è il mistero dell’uomo sapiente dei primordi e della natura vivente, ed è il mistero celato nella Saturnia Tellus.
Subentrò un’età più grossolana e più instabile, una seconda progenie di genti che con “ars humana aedificavit urbes”, da quel momento l’uomo ebbe a disposizione solo la natura nella sua condizione statica, non più vivace coadiutrice. La roccia viva, cioè allo stato naturale, da lavorare per farne la pietra quadrata; il tronco d’albero atterrato, da segare, sbozzare, lisciare; e la fatica di adattare, sistemare, assettare, fabbricare, comporre. E la materia terra, ora secca e arida, da dissodare, da coltivare. E, in fondo all’anima, quel cruccio, quel tormento di sentirsi esule, fuori dalla terra natia. . . E la ricerca, la ricerca di Gianicolo, di Saturnia, le famose città del sole, le città giardino involate alla vista umana e dove non era ombra d’artifizi.
Il ricercatore regale, Romolo, spinge l’urvum/urbum, aratrum circumducet, riappare l’ORMA primigenia, R O M A è.
SATUR FU FERE MARS
O Italici, la vostra agricoltura! la vostra libertà calpesta e derisa! Neve lue rue Marmor, sins incurrere in pleoris. O Italici respingete la barbarie! Limen Salii sta berber.
O Italici, ritornate all’aratro! Riprendete, Italici, la vostra agri colendi disciplina, riprendete la ricerca della ruris peritia, la ricerca dell’arte di coltivare il proprio campo, per coltivarsi! Enos Marmor iuvato, e sia la ricerca di quel lume, quel
lume di nobiltà verace antica,
ricordo integro d’un retaggio custodito nella Saturnia Tellus, che, inconsunta fiaccola, attraversa i secoli. Antica verace nobiltà del Romano agire, del Romano Governo.
PRO SALUTE POPULI ITALICI ATQUE EUROPAE POPULORUM
TERRARUMQUE ORBIS

