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RUGGINOSA VIRTUDE DELL’ITALA NATURA

                         

 

RUGGINOSA VIRTUDE DELL’ITALA NATURA

 

 

O monti o terra giusta e venerata,

Che patiremo? (EschiloSupplici)    

            

 . . .   . . .   . . . Anime prodi,

 ai tetti vostri inonorata immonda

 plebe successe . . . (Leopardi, Ode ad Angelo Mai)

 

 Questa ἑτεραρχή, vocabolo forse poco corrente nell’uso greco antico ma congruo e calzante oggi da noi per indicare la fraudolenta “Signoria”, e invero il non tanto dissimulato controllo di superpotenze straniere sulla nostra Penisola! Queste terre italiche, alienate e ridotte ad arsenale militare atomico di eventuali iniziative belliche decise dalle menti pentagonali d’oltre oceano o persino dal criminale farneticamento dei più riposti pentadecagoni, rabici parassiti, Râbâb-bi annidati sull’intero Globo terrestre, al di qua e al di là d’ogni mare ed oceano! Tal tirannica eterarchia, or dunque, incontra la passività e l’indifferenza, se non il comodo e il tornaconto di gran parte dei novelli “collaborazionisti”; il troiaio politico italiota di questo sventurato Paese (!), come loro lo definiscono; denominazione “paese” peraltro prettamente democritica, e non c’entra per nulla Democrito.

   Premettiamo alcune opportune considerazioni. La democrazia, ogni specie di democrazia, sarà sempre e dovunque deficitaria, nei regimi democratici non si otterrà mai l’ottimazione d’alcunché, ci si accontenta del generico, dell’approssimato; il compiuto, il perfetto, ciò che eccelle, soprattutto nel campo dell’arte, delle virtù umane, dell’estro creativo, dell’eticità, viene sminuito, limitato, se non addirittura impedito. Le democrazie, così come le conosciamo, incrementano e lusingano le masse sottomesse, che accettano i più sgradevoli obblighi e fideisticamente s’abbandonano alle promesse futuribili. Nelle democrazie, così come modernamente strutturate, non pare ci sia posto per popoli virtuosi e prosperi, autori e promotori di sé stessi nell’elevazione civile, culturale e politica. L’impronta ideologica delle democrazie è il materialismo; fine precipuo la vita materiale, le necessità materiali delle masse, i vantaggi per esse dell’utilitarismo. All’opposto, con il termine aristocrazia originariamente s’intendeva esprimere la pienezza e la potenza della virtù, che rendeva l’uomo nobile e valoroso, sicché, ma solo successivamente, si volle significare “il governo dei migliori”. Dopodiché s’intromisero le oligarchie mercantili, del denaro, e infine il demos con l’idolatria del aequale informe che voracemente consuma e quindi il kràtos inteso soltanto in senso materiale come un potere economico e politico-utilitarista; insomma un demos imbrutito nell’ignoranza materialista. Nel mondo antico i saggi operavano per render puro il demos, come esposto nel precedente nostro scritto “Aristocrazia e democrazia”, onde toglier via ogni macchia e vizio, liberarlo dalla cecaggine del cupo, oscuro collettivo, redimerlo dalla inettitudine, allontanarlo da ogni avidità e dall’istintività ribellistica; cosicché il romano Cicerone poteva decisamente affermare “Potestas in populo, auctoritas in senatu sit.” Tanto abbiamo già riportato in un nostro precedente scritto “Il male del democratismo”, così commentando: Ciò sosteneva Cicerone nel De Legibus ritenendo il senato, il consiglio degli Ottimati, arbitro delle pubbliche decisioni; quindi per un giusto equilibrio dei diritti e per mantenere lo Stato in condizioni normali e di concordia era stato appunto stabilito risiedere il potere nel popolo e l’autorità nel senato, osservandosi sempre con legge che “Questo ordine sia esente da difetti e di esempio agli altri”.  S P Q R  –  Senatus Populus Quirites Romani – Una sola unitaria aristocrazia!  Il pregevole, il valente, l’eccellente, che regolarmente si manifestava anche attraverso il kràtos, la forza e il potere del popolo: il Populus Quirini. Maestosa fondazione, mirabile societatis constitutio! Realtà oggidì inconcepibile, e nella quale allora vigeva, sempre Cicerone, consiliorum omnium societas, una piena concordanza di opinioni, di idee.

   Per lo svolgimento del presente scritto abbiamo ritenuto non indifferente né estraneo all’argomento che si andrà trattando, rimarcare in sintesi, ancora una volta, gli espressi concetti già sviluppati ampiamente nella pagina “Tra le bianche betulle”.

 

 

*

 

    Nell’anno 1700 moriva senza eredi Carlo II di Spagna della Casa d’Asburgo. Fu designato erede, con testamento dal defunto  Carlo II, Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV  di Francia che appoggiò la candidatura del nipote e questi  infine venne proclamato re con il nome di Filippo V; inglesi, olandesi e austriaci che vedevano nell’evento il verificarsi d’un disequilibrio tra potenze sul continente europeo dichiararono nel maggio 1702 guerra alla Francia, la così detta guerra di successione spagnola; il lungo conflitto si concluse nel 1714 con la pace di Rastatt che portò ad un riassetto degli equilibri europei.

   Nella sciagurata previsione che l’Italia potesse essere trascinata in guerra, il letterato e versificatore tosco- fiorentino, napoletano di nascita, Lodovico Adimari (1644 – 1708) indirizza nel 1702 al Re di Francia una serie di poesie con le quali “Consiglia l’Italia a chiedere al gran Re Luigi XIV che voglia lasciarla nella sua pace”, iniziativa indubbiamente lodevole contro cui nulla c’è da obbiettare: Chiedi, ch’Ei porti i nembi suoi crucciosi/ Tuonando altrove. . . etc. Ed è pienamente legittimo per una nazione non lasciarsi trascinare in guerre che  soddisfino i cruenti altrui capricci di potenza.  Ciò precisato, riguardiamo insieme l’altro sonetto dal titolo “Italia prega il Gran Re a lasciarle godere la presente sua pace

 

   La Donna Augusta, ch’a l’Ausonia impera

Già Regina del Mondo alta e felice,

De i magnanimi Eroi famosa altrice,

Possente un tempo in terra, e in mar guerriera,

   Prostrata a Te, Gran Rege, in veste nera

Dal profondo del cor sospira, e dice:

Perché volgi al mio sen la spada ultrice?

Qual vuol ragion, che senza colpa io pera?

   Mira lontan quai tributarie some

M’impose il Fato, e da pietà sospinto

Cerca d’allor più degno ornar Tue chiome.

   Lascia, ch’io pianga il mio gran lume estinto,

E se pace a me dai, basti al tuo Nome,

Ch’a l’umiltà cedesti, e amor ti ha vinto.

  

   A tal punto la prevedibile domanda: cosa ha a che vedere questo sonetto con l’argomento di cui al titolo del presente scritto? D’accordo, siamo tenuti a rinvenirne l’attinenza! Ebbene, facciamolo insieme!

   La prece al Re viene introdotta con stile grave e grandioso, ma facendo ricorso al gramo rimpianto d’un passato eroico e di potenza guerriera in terra e in mare, rimpianto desolatamente nostalgico, difatti il tutto è fatalmente confinato, ristretto nella trascorsa possanza, “possente un tempo”!  Consumato cioè dal destino ineluttabile. La richiesta si degrada a implorazione e addirittura si fiacca in prostrazione luttuosa: “prostrata a TE, gran Rege, in veste nera”, con l’invocazione a rivolgersi indietro e a guardare a quel tempo ormai lontano, in cui “tributarie some/ m’impose il Fato. . .” onde d’essa Italia si abbia pietà; per ingaggiar battaglia il bellicoso sovrano cerchi un suolo più degno per ornar d’alloro le sue chiome.  Ed infine il lancinante singulto: “Lascia, ch’io pianga il mio gran lume estinto”!

  Questa secondo l’Adimari era la condizione dell’Italia all’inizio del XVIII secolo. L’irreparabile Fato aveva da secoli fatto cadere nell’oblio l’antico splendore e l’antica gloria; quell’alto saggio consiglio, quell’ opera divina, sapiente, che aveva illuminato il mondo, il GRAN LUME, era scomparso, anzi estinto. La Donna Augusta, la Regina del Mondo altrice d’Eroi, alta e felice e possente un tempo, era stata travolta dal Fato. Il destino, inesorabile potenza! Una potenza cui a niuno è dato sottrarsi. Una potenza che falcia le generazioni degli uomini, i loro imperi, le nazioni più possenti, e ogni gloriosa opera disperde come fa il vento in autunno con le caduche foglie. Intravediamo larghi squarci d’antica Etruria e sullo sfondo la goffa figura di Chronos con il falcione poggiato sulla spalla sinistra, la temporalità etrusca, il decadente secolo etrusco che recide le stirpi, divora le generazioni e paesaggi ameni trasforma in interminabili sepolcreti. E laggiù, sotterra, ossame, e il vuoto insonoro. L’Etruria! La nazione fatidica, la nazione predisposta dal Fato e quindi esposta al suo fato in ogni giorno, in ogni ora, in ogni momento, capace di rivelare e anche di predire a sé stessa gli inevitabili eventi, i destini. Pullulava quella terra di vaticinatori e di aruspici, i menzogneri nemici della romanità; i Quiriti sprezzantemente li chiamavano harioli. Si tramandavano una magia ctonia, con simbologie e ritualità involute, che avvolta di mistero vantavano potentissima e, con essa, divinità ctonie e soprattutto demoni ctonii orripilanti, di cui ha fatto man bassa il cattolicesimo per arricchire i suoi altrettanto spettrali inferni di diavoli e satanassi. Il cattolicesimo che, prestate attenzione, non per caso, ma per filiazione diretta deriva dal giudaismo, la religione degli israeliti. Aruspici e profeti! Israele, appunto, è l’altra nazione fatidica, la Nazione biblicamente predestinata, attraverso la voce dei suoi profeti e vaticinatori, a fatidicamente giudaizzare il mondo terrestre da un capo all’altro dei suoi continenti.  Ammenoché. . .

  

   Ammenoché non si riesca a sradicare una volta per sempre l’aruspicina maledizione e il catastrofismo biblico. Un unico datato influsso; un radicato contagio. Il cattolicesimo giudaico è il successore e il prosecutore in questa maxi-opera di ormai ultra-millenaria intossicazione della coscienza degli individui e dei popoli; né intendiamo tralasciare le confessioni protestanti, ortodosse, le centinaia di sette cristiano- giudaiche, comprese quelle di professione marxista e ateo-scientista e tutti i credo incardinati sulla monolatria biblica. Con ciò ovviamente non intendiamo colpire o contrastare idee, simboli, miti, dottrine, sacertà e quant’altro discendendo da principi metafisici vi s’invera, in tal realtà non subendo storicamente alcuna alterazione né mondana ideologizzazione né l’aberrazione di dogmatismi intolleranti, tantomeno l’arbitrarietà d’un umanitarismo sconfinato, propalato dai profeti della filantropia buonista. Buonismo sotto terrore nucleare! Con sfrontatezza una fanatica pretaglia, adeguandosi alla mondanità e alla futilità dei tempi, va dissacrando, offuscando, onnubilando i cieli reali. E noi questo intendiamo contrastare, questa mostruosità saccheggiatrice di anime, questo influsso menzognero, oscuratore delle coscienze, corruttore d’ogni norma e ordine umano, sfregiatore di secolari civiltà e culture. E dovunque, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, profeti e profetesse che istericamente strillano i loro aruspíci. Questi tirannelli/e del cavastivali che impongono di credere al loro domani! Mandateli tutti a farsi friggere, questi abbindolatori/trici. Ma che malanimo vanno insinuando? Cosa vogliono? Faccian pure la volontà del Gran Despota, il loro incontentabile idolo e padrone esigente. Sappiamo bene noi che tra questo pretume, chiercuto e converso, cioè chierco-laicista, non vi sono ingenui, soprattutto nel senso originario, vero della parola, ma incorreggibili bugiardi innanzitutto con sé stessi; e a dir poco. Da parte nostra: irrideamus aruspices! servi dell’Eterarchia, vanos, futtiles esse dicamus.  Alla fin fine, non sono poi una gran folla e sono sempre gli stessi e inscatolati dal Gran Scatolaio, sempre lui il dispotico, nel pandemonio dei mass-media, nell’infesta tivvù.

  

   Ammenoché, inoltre, – e riterremo ciò molto significante e indicativo – i nostri amici e lettori prontamente, d’impulso, non respingano disapprovandolo il sonetto dell’Adimari e approvino invece riaffermandolo e in esso riconoscendosi il viril sonetto del Mascheroni, dedicato a I CONSOLI ARATORI, in questa pagina su riportato nello scritto “Romano Agire”.

  

   Il lume, lat. lumen, la luce, lo splendore, la vista, e, in senso figurato, l’esempio o il consiglio luminoso, il pregio del senno, la gloria. Ebbene, a dire dell’Adimari, l’Italia ormai da lungo tempo, gravata dal Fato di tributarie some, aveva visto scomparire ogni suo lustro e spengersi il suo gran lume. Questo aveva scritto l’Adimari, accreditando quel vil fatalismo di cui abbiam detto, nei primissimi anni del XVIII secolo. Ma, prima che quel secolo spirasse, ben altre parole e con italici accenti, erano state vergate da Lorenzo Mascheroni. Mani aratrici, mani di consoli romani valorose in guerra, mani di legisperiti e quindi severe domatrici dei vizi e dell’usura, assunte nei suoi versi a simbolo vigoroso dell’ancora illeso lume di nobiltà verace antica; volendo così il poeta testimoniare ancor presente ai suoi tempi, e integra, la vivente virtù romana tra le genti italiche. Non grava sui versi sonori l’ansima soffocante della fatalità.

  Più o meno nello stesso tempo che il Mascheroni componeva quei preziosi versi, Vittorio Alfieri con fermezza scriveva in un suo sonetto:

 

   Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui

Redivivi ormai gl’Itali staranno

In campo audaci. . .

   Al forte fianco sproni ardenti dui,

Lor virtù prisca ed i miei carmi avranno:

Onde in membrar ch’essi già fur, ch’io fui

D’irresistibil fiamma avvamperanno.

 

  L’Alfieri quindi, coetaneo del Mascheroni, trova inestinta la virtù prisca, l’irresistibil fiamma, nella gentilità italica e ritiene possibile ridestarla e rinverdirla attraverso l’esempio e il ricordo. Eppure egli, nato e vissuto nelle seconda metà del XVIII, quel secolo lo aveva fieramente in gran disdegno:

 

   Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

Mende non veggia. . .

Ma non mi piacque il vil secolo mai. . .

 

   A noi, che di mende ce ne vediamo addosso a bizzeffe, compresa quella, grave per i tempi, d’esser patriotti, anche a noi non piacciono le vili generazioni, le passate e le presenti, ma, rassicurati dalla parola dei nostri vati, non temiamo il peggio per il futuro d’Italia. Ritornati alla prisca virtù, l’irresistibil fiamma di quell’illeso lume di nobiltà verace antica, rigermoglieranno coraggio e fierezza, gl’Italici rinasceranno a nuova vita; afferma l’Alfieri:

 

   Gli odo già dirmi: O vate nostro, in pravi

Secoli nato, eppur create hai queste

Sublimi età che profetando andavi.

 

 

   Qual differenza tra i versi del fatalista Adimari, il poetante etrusco dalla mano servile, e i dardeggianti accenti, la voce dell’Alfieri! Nell’italico nessun abbandono alla fatalità, nessun piglio profetico, cioè nella direzione del profetismo di qualunque specie; la stessa espressione ‘profetando andavi’ ha il senso d’un ‘celebrando andavi’; profetare etimologicamente significa ‘preannunciare, dire in anticipo, predire’; d’altra parte quel gerundio, sapientemente appoggiato al ‘create hai queste sublimi età’, evidenzia la ponderazione poetica che appunto forma, genera, educa (e ducere, trarre fuori) e agendo sulle menti e sugli animi suscita  con la ricordanza il sublime, quella virtù che eleva, che porta in alto. La Musa educa. Scopriamo quindi che il vate si rivolge primariamente alle generazioni del suo tempo, è soprattutto su esse ch’egli vuol incidere, lasciare il segno, è quello il terreno da arare onde poterlo poi coltivare, render fertile, rigenerare; e il poeta ispirato presente e prevede, così, fattosi presago, ha reale conoscenza delle cose, con il canto crea e annuncia. Annuncia la rigenerazione, la nascita del novus ordo virgiliano, le età sublimi. Non è da poco imporsi, come fece l’Alfieri, un virtuoso, reciso “volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”.

 

 

*

 

. . .    . . .   . . . Ancora è pio

Dunque all’Italia il cielo; anco si cura

Di noi qualche immortale:

ch’essendo questa o nessun’altra poi

l’ora da ripor mano alla virtude

rugginosa dell’itala natura . . .      

 

  Sono versi dell’Ode “Ad Angelo Mai – Quand’ebbe trovato i libri di Cicerone Della Repubblica”, Ode composta da Giacomo Leopardi nel 1820, diciassette anni dopo la morte dell’Alfieri. Da quest’ode, e non per caso, abbiam tratto il titolo di questo scritto. Andiamo infatti riguardando poeti che han con forza riaffermato le virtù italiche sostenendo che esse, tramandate nei secoli, son giunte illese alla posterità; ma non sempre le generazioni dei nipoti han voluto o saputo impersonarle e realizzarle nel loro tempo e spesso nemmeno han saputo esprimerle e neanche voluto consapevolmente realizzare una società operosa e valente, lasciando che si protraesse il vil secolo, tollerando la soverchieria e i soprusi dell’inonorata immonda plebe, e versando in tant’oscura oblivione e mancanza di patria da strappare al Leopardi questa dolorosa esclamazione: “Di noi serbate, o gloriosi, ancora/qualche speranza? in tutto/non siam periti?”   

   Mancanza di patria, assenza di patria, l’oblivione che oscura la memoria, che toglie all’uomo, e ai popoli quindi, il lume della ricordanza, l’apprendimento per mezzo del cuore. Eppure la patria è il presente, ma soprattutto è il passato che fu degli avi e il futuro che sarà poi dei nipoti e delle generazioni che seguiranno nel tempo; nella patria all’uomo è data la possibilità di conoscere il suo passato; in essa approda alla consapevolezza del suo presente e sa con fidente lungimiranza provvedere al futuro. E l’uomo deve, potendo, conoscere il passato, anche quello più remoto e, attraverso ciò che gli è stato tradito o affidato, construere in sé, riordinare e serbare anzitutto il mito del proprio, reale passato. Il mito è realtà arcaica e odierna che insegna e guida se si è svegli e si è davvero sé stessi, scienti, e non in balia dell’estraneo o in sua servitù. Saviezza vuol libertà! Il patrio mito è quel lume di nobiltà verace antica di cui abbiam detto, dal momento che lo lasci estinguere provochi la distruzione della patria, la perdita di tutto il tuo atavico sapere, fossi pure analfabeta, e la perdita di te stesso. Diventi un estraneo.

   Sappiamo di essere dei reietti; scrivere così mastodontiche corbellerie, son le parole del volgo, nell’epoca della globalizzazione!

   Ma noi siamo una particolare stirpe di patriotti, non abbiamo nulla a che vedere con i patriottardi dell’ottantanove francese e i loro epigoni; noi pretendiamo di venire da molto lontano, da tempi arcaici ed arcani; tempi in cui il volgo della globalisation non potrà mai ficcare il naso, per cui questa nostra patria arcaica ed arcana resterà inviolabile. Essa infatti è una patria invincibile; una patria che accoglie soltanto reietti, i veri ribelli.

 

 Deinde ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit.

 

   Narra Livio “che l’Urbe ormai s’era ingrandita e, onde non lo fosse invano, per accrescerne la popolazione Romolo usò l’accortezza dei fondatori di città che attiravano gente oscura e umile facendo credere che fosse prole di quella stessa terra; a tal fine dispose in un luogo tra due boschi e difeso da una siepe un asilo; ivi si rifugiò, avida di novità, gente d’ogni risma e senza alcuna distinzione anche tra liberi e servi. Quello fu il fulcro iniziale della ventura grandezza”.

   Livio si rivolge con la sua Storia al grosso pubblico, per cui in questo breve passo egli procede narrando sotto metafora; va inteso nel senso che, allorquando c’è da realizzare un’opera che non sia un’opera qualunque, ordinaria, consueta come si suol dire, ma un’opera grande, straordinaria, occorre trovar gente non comune, fuori della norma e perciò, liberi da pregiudizi, accompagnarsi anche ai reietti e ai ribelli. Certamente i lettori noteranno l’espressione qualificativa obscuram atque humilem riferita da Livio al gran numero di persone che accorrevano all’asilo-rifugio; ebbene non si tratta di una incongruenza, Livio riferisce di gente non celebre, di persone non popolari, ma sconosciute e semplici che affluivano al richiamo del sacro luogo. Coloro che intendono realizzare un’idea universale e quindi calarla nella realtà fisica, nel mondo degli uomini, protendono lontano la loro vista interiore sugli albori dei primordi per scorgervi l’apparire d’un’epoca nuova. Per un nobile inizio, per dar forma pregiata all’opera, i fondatori necessitano di cera d’api, cera vergine. Preziosi invero, per indigena originalità, erano e sempre sono, gli ingenui, perché quei tempi pullulavano di saccentoni etruschi e levantini, pedanti, dicaci e dalla doppia parlantina. Tempi di decadenza, ieri come oggi, carissimi italici lettori!

   Sul luogo di rifugio, l’asylum romuleo, abbiam trattato nello scritto intitolato “UNO SGUARDO NELLA PREISTORIA”, alla fine, precisamente nel paragrafo “Gli enigmatici Lucaria”; ivi troveranno, i lettori interessati, la probabile realtà racchiusa nella leggenda del luogo inviolabile, l’asylum- refugium del bosco sacro sul Campidoglio (lo scritto è alla pagina: L’Inaudito plausibile. Continuat iter). Trovar rifugio, nel bosco sacro! Rifuggire dal marasma d’una decadenza estrema, dalla bassezza d’un mondo che s’abbandona ai dubbiosi crepuscoli in una insanabile involuzione volgente al disumano, all’immane. . . l’uscir dai limiti, lo sconfinare! Rifuggire, ancora, la protervia e la saccenteria di costaggiù, riparando in un luogo inviolabile dalla stolta e inetta razzumaglia senza dio, senza patria, senza famiglia, senza padre, senza madre, senza progenie, senza stirpe, senza origine, sine genere virili, sine muliebri genere, sine populo.

    Un rifugio inviolabile dai confini ben difesi, ove, fortificando spirito e mente con seria disciplina, ci si prepari a lottare. E vinta la passività, trascuranza e ignavia, si riaffermi, integra e illesa, l’italica virtù. Deterso infine l’animo dalla corrosiva ruggine, ci si adopri per sollevare il popolo italiano dall’estremo scadimento; per liberarlo dal servaggio spirituale, culturale, militare, politico; dall’ipocrita ormai millenario bigottismo; la salvezza dell’uomo scaturirà da questa non mendace, ma vera lotta di liberazione. Impresa schiettamente liberale, cioè puramente liberatoria. Senza ottimismo e senza pessimismi occorre saper valutare la realtà degli accadimenti e gli effetti che possono derivare dagli eventi che vanno succedendosi; da dove, da chi provengono e a qual fine diretti. Buon intento, quindi, è superare gli egoismi, mettere a tacere individualismi e particolarismi, stringersi in concordia. Non sentimentalismi, sdilinquimenti romantici, sterili nostalgie; lungi dal cieco dottrinarismo, dalla degradante servilità devozionale; ma imperturbabilità, senso della distanza, decisione, fermezza e soprattutto esser risoluti a vincere, perché, quando si è pronti, il degenere, l’indignus et corruptus, è già sconfitto in partenza.

   È l’ora di por mano, restituite a voi stessi, o Italici, la prisca virtù!  Quella vostra e distintiva, non rugginosa, quella d’un tempo e di sempre. Siete in grado di farlo. Ponetevi mano! Viva la bella Italia nostra! Viva l’Itala gente!

 

 

*   *   *

 

   Con questo scritto siamo andati forse un po’ troppo per le lunghe e anche un po’ troppo indietro nel tempo, gli amici lettori non ce ne vogliano. Del resto, e questo a nostra scusante, l’amico Tom, l’affabile collezionista di francobolli, appassionato di storia, ci ripete spesso che i tempi, quindi i secoli, i millenni, le ere, si rincorrono e si rimpiazzano volentieri tra di loro e che la generalità degli uomini, nella più supina incoscienza, di ciò non ha alcun vago sentore; nemmanco minimamente gli umani s’accorgono di questo gigantesco avvicendarsi epocale, di questo cosmico giravoltare, né s’avvedono ch’ essi stessi si ripetono di generazione in generazione, trovandosi ad essere sempre gli stessi sul proscenio del mondo. Monotone repliche, stucchevoli riproposizioni? . . . Ma Tom sostiene che se il mondo e con esso il tempo non girassero in tondo, non si prodigassero in un tal torneare, non ci sarebbe sufficiente spazio sul terrestre globo per le moltitudini delle umane genti e quindi non vi sarebbe altra trovata, tranne questo perenne ruotare, per mantenere il perfetto equilibrio; in breve, la reiterazione di tutto in un insonne continuum. . .

   Siamo rimasti tutti a bocca aperta, non immaginavamo neppure lontanamente che il collezionar francobolli, potesse fare d’un uomo un pozzo di sapere; e che sbalorditiva sintesi! Ma semplice è il mondo, dice Tom, e la cosa più semplice che esiste nel mondo non è altro che il mondo stesso. . . Anche l’uomo è qualcosa di semplice, ma l’uomo s’è inventato il cervello, che di per sé non sarebbe un male, ma l’umanità nel suo insieme, che presunzione in quest’accozzo!, ne ha fatto un sistema così complicato e defatigante che ora intende sostituire quel pesante macchinario biologico con un più leggero organo bionico. Meglio così! Tom è contento, ne ha piene le scatole di clerici, intellettuali, intellettualoidi e cervelloni. Oh, i tempi felici dell’analfabeta sapiente!

 

*

 

   Sono miti quest’ultime giornate di dicembre e i campi ed i poggi si son ripresi del gelido vento e delle lunghe piogge; il sole scorrazza con i suoi raggi per tutta la valle, se ne rallegrano gli uccelletti e festeggiano questo novello sole. È bella la valle nel sole con il suo mirabile sempreverde sotto l’azzurro leale del cielo, bello questo lembo gentile d’Italia! Bella è questa giornata solstiziale, giornata d’inverno che gode del vigore splendente del giovine astro! Il nostro cuore si gonfia di gioia nella fiorente luce di questo italico dì. Sentiamo quest’empito solare slanciarsi nel verde e nell’azzurro, abbracciare nel suo giro l’orizzonte intero e con esso tutta l’amata Patria.

 

   Amici carissimi e benamati lettori, auguri!   

 

 

 

   N.B. - Lo scritto può essere opportunamente integrato con la lettura del capitolo Ne Robigo occupet segetes sulla pagina “L’INAUDITO PLAUSIBILE. CONTINUAT ITER”