Discorso IX (sul grande Pan)
Discorso IX
(sul grande Pan)

P A N
…gridò verso la terra, come aveva sentito:
“Il grande Pan è morto.” Plutarco
Vivo? Morto?
Lui, sempre! Ió, Pan!
Perché di Pan mai
Reperita fu residua spoglia?
Finzione per Pan esser vivo?
Finzione per Pan esser morto?
Finzione! Finzione! Pan è sempre…
Lo zoccolo del capro
Ed il ghigno del capro,
Una sottil punta di barba
Sul mento incolto, e sotto la criniera
La fronte rugosa e aspra
Rudimentalmente cornuta.
Separar la finzione del vivente,
Presente qui e ora,
Dalla finzione della morte
È arduo, come incomprensibile
Al mortale illuso è l’indole di Pan.
Fibra di filosofo non ha Pan,
Raggiante figura boschiva
Circuiva le Ninfe,
Recitava rozzi carmi
E affidava al vento il suo pathos
Con il suono della siringa,
Cara agli antichi pastori.
Oggi, di rado visita il bosco,
Dipartite le Ninfe, e preferisce
Abitar l’urbana intricata selva;
Tra quei grovigli insinua
La sua fronte aspra, rude e cornuta
E il suono inasprito della siringa.
Un vecchio vagabondo,
Inquilino dei ponti
E della nebbia dei mattini,
Racconta d’avere udito
Nello stridio delle ruote
Del vecchio tramvai,
Quasi un grido di strige,
Il suono della siringa di Pan!
Nel tranviere, racconta,
D’aver raffigurata la fronte
Cornuta del dio e, sul mento,
L’aguzza, caprigna barbetta.
Sul lungofiume, nell’alba brumosa!

Epiterse, mio concittadino, raccontò che una volta, navigando verso l'Italia, si era imbarcato su una nave che trasportava merci e molti passeggeri; di sera, ormai presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave, trasportata dalla corrente, giunse nei pressi di Paxo; la maggior parte dei passeggeri era sveglia, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo; all’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, sembrava pronunciasse a gran voce Tamo, tanto che tutti restarono sbalorditi. Tamo era un pilota egiziano, ma a molti dei passeggeri non era noto quel nome. Per due volte, dunque, chiamato, lui stette zitto, ma alla terza rispose al chiamante; e quello, alzando il tono di voce, disse: “Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto”. Al sentire queste parole, Epiterse diceva che a bordo restarono sbalorditi. Quando dunque arrivò a Palode, Tamo, gridò verso la terra, come aveva sentito: “Il grande Pan è morto”. Ed egli non aveva quasi finito, che si levò un gran gemito – non di una sola, ma di molte forse persone – pieno di stupore. E siccome molti uomini erano presenti, ben presto la notizia si sparse per Roma.
(PLUTARCO De defectu oraculorum)
Questo racconto di Plutarco, tramandante un prodigio, ha il colore d’una leggenda e un tono romanzesco; vi son tutti gli ingredienti: il viaggio per mare, il vento che cade di colpo, la nave trasportata dalla corrente, i passeggeri in preda all’euforia di una lauta cena innaffiata di buon vino; e pennellate esotiche: la voce sconosciuta, che pronuncia forse il nome di Tammuz (il dio babilonese della natura), come sostiene il poeta e saggista britannico Robert Graves, il pilota egizio, e lo stesso grido pieno di enfasi drammatica, che secondo Graves sarebbe da intendere: “L’onnipresente Tammuz è morto”. Eusebio di Cesarea l’agiografo di Costantino, nella sua Praeparatio Evangelica, interpretandolo in tal modo e poiché l’episodio risaliva ai tempi di Tiberio, sotto il cui regno suppongono la morte del Cristo, sostiene che quel prodigioso grido proclamasse la fine dell’era politeista e l’avvento di quella cristiana.
A nostro parere la narrazione prodigiosa, così come la leggiamo, nel senso letterale, romanzata, sottende un sentire fatalistico, una emotività ‘apocalittica’, tipica del mondo mediorientale e di cui era indubbiamente ben partecipe il vescovo Eusebio. Plutarco, greco tardo, accoglie acriticamente questa leggenda, certo nell’intento di racchiudervi un valore allegorico. Il grande Pan, o l’onnipresente Tammuz, rappresenterebbero la fine di quel mondo antico, con alle spalle millenni di storia, che giunto, dopo un lungo crepuscolo, al declino, era sul punto di tramontare per sempre e d’essere sostituito da un avanzante rivoluzionarismo; il movimento rivoltoso è quello cristiano. Questo movimento rivoltoso, fermentando, dopo aver covato a lungo, andava espandendosi proprio in quella vasta area, quel bacino di decadenza, che si estendeva dall’Egitto alla Mesopotamia fino alla Persia, contagiando poi, più ad ovest, la Siria e il mondo ellenico orientalizzato. L’Egitto, già dapprima dell’avvento del faraone Akhenaton (anno 1335 a.c.), figlio della straniera Tyi, entrambi fautori del monoteismo, subiva sotterraneamente un processo corrosivo a stento contenuto dal potente clero tebano. Il crollo di quel vecchio mondo, che inutilmente aveva tentato il reimpiego di culti religiosi logorati dai millenni, il nuovo culto di Iside, culto di Serapide etc., fu facilmente soppiantato dallo spuntare minaccioso del settarismo gnostico-cristiano, animato da fanatismo messianico. Questo sommovimento minacciava da presso lo stesso impero romano. La cagione di ciò era triplice. Roma aveva incorporato nell’impero gran parte di quelle regioni, con popolazioni non omogenee alla spiritualità e alla stessa natura della civiltà romana; aveva, inoltre, all’interno della stessa Urbe ammesso infine culti stranieri; culti orientali, come quelli di Cibele, Serapide, Iside, Sabazio, culti siriaci ed altri. Ed a nord e a nord-est non era giunta a romanizzare le numerose tribù germaniche e le altre genti anche nomadi che premevano sui confini. Pertanto quella minaccia era reale; ma noi dobbiamo fermarci, altrimenti ci allontaneremmo troppo dal nostro argomento e perciò torniamo a Plutarco e a quel fatidico grido che risuonò nell’Egeo.
Plutarco era un greco, che pur avendo acquisita la cittadinanza romana e dal tempo di Vespasiano sino a Traiano benemerenze e la stessa dignità consolare e quindi vissuto a Roma per molti anni, non riuscì bene ad apprenderne la lingua e quindi la profondità dello spirito romano e della religiosità romana. Roma aveva riportato nel mondo (dei crepuscoli e delle barbarie) la luce Iperborea, mentre in Grecia tale luce s’era ormai affievolita del tutto e quando i romani vi giunsero, ad attenderli e favorevolmente, trovarono solo quei pochi greci che mantenevano in sé la fierezza dorica. Plutarco, più che altro, dovette apprezzare la politica e la morale romana e questo gli bastò per comprendere che ‘la morte del grande Pan’ si sarebbe trascinata dietro anche quel grande impero. Ed infatti questo accadde.
L’allegoria plutarchea, celata nella fatidica narrazione, racchiude, infatti, il rimpianto per lo spegnimento della luce Iperborea nel mondo e di conseguenza dell’armonia dell’uomo con la natura in cui egli vive e della quale vive e quindi della desertificazione dell’animo umano e conseguentemente dell’ambiente in cui si svolge la sua vita. Certo, questo intendeva Plutarco allegorizzando con la morte di Pan la fine di un mondo.
Pan era un dio greco, genito da greche divinità; forse precedeva la venuta degli olimpici, ma per i Greci fu il dio della pastorizia e della fecondità, un dio fantastico per come veniva raffigurato, sempre ebro d’amore per le Ninfe ed una di esse, Siringa, egli immortalò nella siringa, il flauto a sette o a nove canne tenute insieme da una cordicella di vimine e caro ai pastori antichi. Un dio davvero simpatico, fece persino ridere l’assemblea degli Olimpi, un musico dio, che tutt’oggi trasmette la musica della Natura; perché la Natura non muore, si rigenera, morte e rinascita, essa è la divina veste della dea Terra ed è con essa una con il Cielo. E Pan? Ma lo troverete dappertutto, basta saperlo cercare e non lasciarsi prendere dal timor panico; persino, lo troverete in giro per le squallide vie di un trascurato suburbio; anche quelle strade, quelle piazze sono per l’appunto natura; un giorno furono bosco, selva, e potranno ritornar tali… e quella fontanina? certo, una sorgente!
Signori, e soprattutto voi Signore, rianimatevi, restituite vigore al vostro coraggio, grazia e armonia all’ambiente in cui vivete! Vedrete! la Natura vi sorriderà e riudrete, forse dapprima un po’ stridula, poi sempre più chiara e armoniosa, dentro di voi, in fondo ai vostri cuori ridesti, risonare gl’ineffabili accenti di Siringa, la Ninfa amata follemente dal Dio!
E Roma? Rinunciò a quell’Impero, ma non alla sua Religio e alla sua Aeternitas; e non ha tralasciato di trasmettere alla posterità l’ORMA indelebile e l’elevato modello della sua virtù civilizzatrice. La Natura divina non è soggetta al dissolvimento. Attende il risveglio dell’Uomo. Attende che il Risvegliato riedifichi il Tempio della Concordia. Il Risvegliato, colui che nel silenzio coltiva il F i o r e d ’ o r o , che di perenne, etereo aroma sparge il suolo della solar Patria avita.


PAN PASTORE D’ARCADIA E IL BECCO DI MENDES
Il nostro lettore ha ragione, ma, e ci perdoni, solo in parte. Abbiamo sostenuto, nel nostro precedente scritto, che Pan è un dio greco e l’amico interlocutore accenna, con discrezione, ad una probabile provenienza egizia del dio. Una nostra furbata per non mandare troppo in dietro nei millenni il nostro discorso? Confessiamo, ci faceva comodo un punto iniziale e, forse per pigrizia, a scansar fatica, non tanto remoto. Però…
Si sa che il dio amava pascolare le greggi ed allevare le api tra i monti dell’Arcadia, nel cuore del Peloponneso, e questo avveniva in un’epoca molto remota. Greggi e Api… intendete! per simboli. Questa regione aveva preso il nome da Arcade, un personaggio molto antico, mitologico, figlio di Zeus e della Ninfa Callisto, che la gelosissima Hera trasformò in un’orsa. Arcade, amante della caccia, un dì che batteva i boschi, rischiò di uccidere sua madre; come poteva riconoscerla così conciata, da orsa? E Zeus opportunamente pose in cielo Callisto e ne fece l’Orsa Maggiore e trasformò Arcade in Orsa Minore. Callisto, la donna orso, tra l’altro era la figlia di un malfamato licantropo, appunto il re dell’Arcadia, e figlio di Pelasgo, Licaone che aveva fondato in quelle terre il culto di Zeus Liceo, cioè Zeus Lupo. Ancora spigolando in quella arcaica mitologia (in buona parte pelasgica?) troviamo che Callisto (nome derivante dal superlativo dell’aggettivo ϰαλóς, ή, óν il cui significato è bello, avvenente), quindi la bellissima, era un appellativo di Artemide, così onorata in Arcadia. Ebbene, quei tempi come volete definirli se non remotissimi? Tempi in cui gli uomini si riconoscevano in simboli teriomorfi o astrali, ed erano in tal stretto contatto con i loro dei che la metamorfosi da uno stato ad un altro avveniva, appunto, per opera divina, secondo il principio che dentro di sé l’uomo aveva coltivato e suscitato. La teriocefalia, la teriantropia, non spaventavano alcuno e se la civetta si presentava a parlar loro nei crepuscoli, l’ascoltavano perché era la messaggera di Atena, la dea sapienziale; immaginate l’antichità di tal mondo sciamanico, fluido, amico, non ancora precipitato nell’oscurità dell’odierno materialismo. Una scienza profonda, un’arte sacra dominava quei tempi e dava accesso alle alte sfere dello spirito. Volete trovarci l’ingenuità delle fiabe in quegli antichi miti e in quelle meravigliose leggende? Benissimo, coltivate il genuino dentro di voi, quel famoso fanciullino, quel genietto con la barba di neve. Erano quelli i tempi in cui gli uomini non schiudevano le labbra se non per orare; un tempo oracolare. Era il tempo felice in cui gli uomini non pronunciavano mai discorsi vani; amavano molto il dire, mostrandolo con segni che fossero indelebili, sacri: sak - sac, queste radicali contengono il senso di ciò che aderisce e quindi imprime un’impronta che accosta al divino. Erano i tempi in cui il significare era tutto, sconosciuto il vaniloquio. Nulla regge con il vaniloquio, un esempio nei giorni nostri: i parlamenti che non concludono nulla e la transitorietà, la labilità dei governicchi e del gigionismo dei politicastri. Ma ciò solo di sfuggita, ed è anche troppo!
L’Arcadia dove scorre il Ladone che si getta nel Alfeo, ricco di acque; il fiume presso il quale Siringa si mutò in un canneto, perché non volle cedere alla furia amorosa di Pan; eppure quel folle amore non fu sterile, generò uno tra i più antichi strumenti musicali, la siringa, ovvero il flauto di Pan. L’Arcadia, dove si dice che i pastori componessero poesie e canti panici al suono di quel flauto e che i poeti hanno sempre idealizzato, da Teocrito a Virgilio, da Virgilio al Sannazzaro fino all’inglese John Keats e agli Accademici dell’Arcadia. Ebbene in Arcadia il dio più venerato era Hermes, veniva chiamato con antichissimo nome “Hermes Aroia”, cioè Hermes ariete, gli proveniva dalla remota antichità micenea. Pan era nato, come narra l’Inno omerico ad Hermes, proprio da questo dio e dalla dea Persefone. Hermes, il dio dalle caviglie alate era l’araldo dell’Olimpo ed anche il dio psicopompo; il dio che viaggiava tra il cielo e la terra e tra la terra e gl’inferi, e viceversa. Hermes era quindi un dio antichissimo e aveva ricevuto un culto da tempi remoti su quel territorio dell’Arcadia. Da tempi altrettanto remoti Theut o Thot, dal volto di Ibis, riceveva culto sulle terre d’Egitto. Altrettanto antica è la identificazione di Hermes con Thot, il grande sapiente, autore del Corpo Ermetico, detto Ermete Trismegisto. Messaggero degli dei Hermes, ed altrettale Thot; Hermes psicopompo e così anche Thot. Entrambi, ma diciamo pur ch’erano un’unica divinità, Signori della saggezza, conciliatori degli opposti in divina armonia. Raffrontando l’Arcadia di quei tempi remoti e l’Egitto di quei millenni, troviamo le tracce di un unico mondo, somigliantissimo. Le tracce dell’Atlantide, di cui narra Platone? Le tracce di un mondo che doveva abbracciare più terre e più genti. Mondi, abbiamo detto, oracolari, quindi i mondi della saggezza. Il serpente piumato Quetzalcoatl al di là dell’Atlantico, nell’estremo occidente, il Caduceo, qui, nelle terre del Mediterraneo, una verga su cui si avvolgono in regolate spire due serpenti e sormontata in cima da un paio d’ali. È il mondo che custodisce la segreta magia, quella divina, il mondo della Tradizione Ermetica. A quel mondo non era estraneo Pan. In Egitto era Ptah Tanen, dio appunto della Magia, della saggezza, della conoscenza; era esso anche ritenuto la personificazione della materia primordiale (l’essenza matrice, germinativa), per questo era rappresentato in un sol blocco con tutte le membra legate nel marmo, simbolismo remotissimo. Ma noi rifacciamoci a tempi più vicini e leggiamo quel che ci racconta Erodoto delle vicende di Pan in Egitto. (450 circa a.c.)
Quegli Egiziani di cui abbiam detto non sacrificano le capre e i capri per le ragioni seguenti: i Mendesii ritengono che Pan sia uno degli otto dei, e dicono che questi siano esistiti anteriormente ai dodici dei. Pittori e scultori modellano l’immagine di Pan al pari dei Greci, con il volto e le zampe di capro, pur non ritenendolo tale, ma simile agli altri dei. Per quale ragione poi lo raffigurano in siffatta maniera, non mi piace dirlo. I Mendesii venerano le capre, e i maschi più delle femmine e maggiori privilegi ricevono i pastori di quelli. Fra i caproni ne venerano soprattutto uno, che quando viene a morte, in tutto il nomo Mendesio è imposto il lutto. In egizio sia il capro che Pan hanno il nome Mendes. In questo nomo, ai tempi della mia gioventù, avvenne il seguente fatto straordinario: un caprone si univa pubblicamente ad una donna, e questo era divenuto uno spettacolo pubblico. (Erodoto, L.II, 46)
Qualunque cosa si voglia dire o commentare sulla vicenda del becco di Mendes e sugli accoppiamenti bestiali, non possiamo dubitare della testimonianza di Erodoto, discorsi vari sulla stregoneria od altre cose del genere, è da ritenersi che quei fatti dovevano rappresentare la degenerazione di culti diretti a propiziare la fertilità, probabilmente perché quel distretto egizio, nomo Mendesio, si era assoggettato all’influenza di oscuri culti orientali. Quell’antico, antichissimo mondo, come abbiam già detto nel precedente scritto, andava subendo una logorante strania influenza “medio orientale” che causò il deterioramento dei culti aviti e quindi anche il traviamento di alcune classi sacerdotali, se non furtive infiltrazioni; dai tempi di Akhenaton, il faraone sovvertitore figlio della ‘straniera’, al racconto di Erodoto era trascorso il logorio di circa nove secoli. E quante talpae, non ci riferiamo ai piccoli mammiferi insettivori, avevano lavorato, sotterraneamente, in tutto il bacino del Mediterraneo? E ancora oggi continuano, nel loro ostinato lavorìo di sgretolamento…
E su questo punto vi lasciamo, amici, alle vostre attente considerazioni; noi frattanto torniamo ad Erodoto.
In Grecia si crede che i più recenti degli dei siano Eracle, Dioniso e Pan. In Egitto invece credono che Pan sia molto molto antico e uno degli otto che son detti i primi dei. Eracle uno dei secondi, che si dice siano in numero di dodici. Dioniso, poi, appartenga ai terzi, quelli che nacquero dai dodici dei. Quanti anni poi gli Egizi dicono contarsi da Eracle al faraone Amasi, l’ho già detto prima; si dice che da Pan ce ne siano ancor molti di più; invece di meno da Dioniso, e calcolano precisamente che ci siano ben quindicimila anni da lui fino ad Amasi. Gli Egizi affermano che queste notizie sono esatte, perché essi son soliti calcolare e poi assiduamente registrare gli anni. Da Dioniso invece, il dio che si dice nato da Semele figlia di Cadmo, son circa mille anni fino ai giorni nostri, e da Eracle, il figlio di Alcmena, circa anni novecento, e da Pan figlio di Penelope, infatti molti tra i Greci dicono che da costei e da Hermes sia nato Pan, ci sono meno anni che dalla guerra di Troia, circa ottocento. (Erodoto, L.II, 145)
In questo passo Erodoto afferma la remota antichità di Pan e considera in quindicimila gli anni che van da Dioniso al faraone Amasi I (circa 1550 a.c.), e sempre da Amasi I a Eracle così calcola:
L'Eracle egiziano è certamente un dio antico; come essi stessi raccontano fra il regno di Amasi e l'epoca in cui gli originari otto dei diventarono dodici (Eracle secondo loro era uno di questi dodici) sono passati diciassettemila anni. (Erodoto, L.II, 43)
Pan, uno degli otto che son detti i primi dei, è ancora più antico. Abbiamo riscontrato che l’antichità mitologica di Pan in Arcadia è anch’essa remotissima e in parallelo non dovrebbe discostarsi dal calcolo dei sacerdoti egizi. È scettico, infatti, Erodoto sulla credenza di un Pan nato da Penelope e da Hermes, questo mito dovette radicarsi in tempi molto recenti e, scettici anche noi, riteniamo che dovette apparire e soprattutto affermarsi tra genti immigrate sul suolo greco in un tardo periodo post-omerico.
Per narrare, ci piace qui usare questo verbo, di Pan bisogna però astenersi dal fare filosofia. I filosofi, non ci riferiamo ai presocratici, né a Platone, quello divino, oracolare, e così neanche a Plotino e, a parte Nietzsche e quelli che lo hanno capito, i filosofi, usano il procedimento dialettico e per convincere sé stessi e il pubblico ricorrono alla cosiddetta abilità dialettica e spesso, per concludere argomenti che non collimano, all’imbroglio della diallage. Tutte cose che stanno nel loro cervello e nei cervelli degli illusi e lì restano; fino a quando? Qui ci sovviene di una poesia di un anonimo cinese del XII sec., che abbiamo tradotto e, in verità, molto liberamente, così:
IL FILOSOFO E L’ASINO
Il filosofo, poi che si diparte
Da questa terra per le cieche spiagge,
Oblia tutte le filosofie…
L’asino griso ha lunghe orecchie
E sterminata memoria,
Memoria di erbe grasse sui prati,
Memoria della semioscurità dei fienili,
Per lunghe, immemorabili stagioni…
Valutata, a modo nostro e esclusivamente a nostro fine e per le nostre mire, tutta la moderna filosofia e, come è logico, il rischio di assimigliare all’onagro, ce lo assumiamo tutto, bastonature e contumelie, torniamo sereni all’argomento che stiamo trattando.
Un mondo che pur fu arcaicamente sapiente e solare, avviandosi sulla via del crepuscolo e di una ineluttabile decadenza, finirà col darsi decrepite istituzioni e, perfino disponendo di avanzate tecnologie e raffinatezze culturali cui si aggiungono armamenti micidiali, con l’imbarbarirsi e subire quindi l’inciviltà interna e la di fuori barbarie.
Le genti precipitano nel materialismo e in oscure larvali superstizioni; l’uomo si allontana dal divino, si svuota di luce stellare, diviene sterile, la sua anima si inaridisce, predata dal demone del deserto. La stessa natura intorno a lui si disanima. All’estremo, la divinità si allontana da lui, irraggiungibile. Tutto si corrompe nel caos, degenera, imbastardisce.
Così avvenne in quel mondo. Quelle genti si dispersero. Nazioni antichissime scomparvero, sostituite da popoli estranei; mutarono le istituzioni, le fedi. Solo continuò l’ingenerata discordia e, nonostante messianici annunci di pacifismo e fraternità, l’anonimo (ma non tanto) guerrafondaio sostiene a tutt’oggi e subdolamente caldeggia lo stato di guerra. Guerra oscura, livellatrice, sterminatrice, desolante.
*
Lucus erat longo numquam violatus ab aevo,
obscurum cingens conexis aera ramis
et gelidas alte summotis solibus umbras.
Hunc non ruricolae Panes memorumque potentes
Silvani Nymphaeque tenent sed barbara ritu
sacra deum; structae diris altaribus arae,
omnisque humanis lustrata cruoribus arbor.
(Lucano, Farsaglia III)
Cesare e i suoi legionari s’imbattono in un bosco sacro, da lungo tempo inviolato, intricato, tenebroso; non abitato da agresti Pan, né Silvani o Ninfe ma infestato da oscuri riti a barbarici dei. Le are erano altari sinistri e gli alberi idolatrati venivano purificati con sangue umano. La sinistra descrizione continua ancora per molti versi e termina dicendo che quando la notte è fosca il sacerdote stesso teme di entrarvi e di imbattersi nel ‘sovrano’ del bosco. Cesare dette ordine di radere al suolo quella foresta a colpi di scure. Ma tremarono le mani dei coraggiosi legionari, vinti dalla verenda (che incute timore) maiestate loci. Cesare, vedendo che il terrore immobilizzava le coorti, afferrata una bipenne, per primo colpì una quercia: “Nessuno più esiti, disse, ad abbattere la selva, ritenete il sacrilegio compiuto da me.” A tal punto la truppa obbedì all’ordine, per niente rassicurata, ma, sempre nel timore, soppesando la collera di quegli dei barbarici e quella di Cesare.
Questo episodio, raccontato da Lucano, avveniva in territorio celtico e ci tramanda un caso di culto druidico degenerato. In quella selva si sacrificavano vite per lustrare con sangue umano idoli arborei, deità stravolte da oscura superstizione. Questo avveniva in territori europei; erano riti barbari, di popoli imbarbariti e in preda ai timori di una religione perversa. Popoli del settentrione che avevano perso il contatto con la luce iperborea. Roma possiede quella luce. Nell’avvenimento riferito Cesare rappresenta Roma che fa giustizia della prava superstizione e dell’idolatria, liberando la natura e il Genius loci da tanta abominazione.
Nella terra dei Faraoni, già alcuni secoli prima, nel nomo di Mendes, ai tempi di Erodoto, avvenivano bestiali accoppiamenti; anche lì sconci rituali, e una antichissima deità stravolta da una abietta superstizione, straniera a quelle terre in tempi ordinati, morigerati e felici. Il becco di Mendes, per tal pratica stregonesca di zooerastia, diventò il diavolo dei cristiani, con l’aggravamento che in tal personaggio il loro superstizioso clero ha imprigionato la natura intera, ritenuta da essi nemica della ‘santità’. Il becco di Mendes non era però l’antico dio Ptah Tanen/Pan; quel dio si era allontanato per sempre dalla gente di Mendes e dal suo clero che lo aveva tradito. La saggezza non dimorava più nel nomo imbarbarito di Mendes.
Ma noi rifacciamoci dal principio. Roma fu ritorno ai primordi e quindi fu Civiltà aurorale, integra, piena e luminosa. Riportò la luce nel mondo che s’imbarbariva e l’uomo riprese consapevolezza di sé e del divino; la natura tornò ad essere ospitale e lieta e l’uomo ritrovò in essa perfetta armonia e salute. Roma non è da confondere con quel mondo in declino che la circondava; dovette usare il gladio in giusta guerra, mai more barbarico, per imporre leggi civili, dovunque era selvaggia barbarie o barbaro oscurantismo o degenere particolarismo. E vinse.
Roma è l’Idea immortale che rinnovata torna e risorge nel cuore dell’Uomo pio, religioso e giusto, inesorabilmente armato contro il barbaro.

IO, FAUNE! IO, PAN!
Abbiamo in precedenza esposto come nell’antico Egitto si andassero da tempo manifestando segni di decadenza nelle istituzioni, nelle antiche culture e tradizioni e, per l’appunto, quanto riferito da Erodoto sui depravati comportamenti cultuali in quel famigerato nomo di Mendes; nel contempo, anche quanto narrato da Lucano nel poema Farsaglia sui sanguinosi culti panici nell’oscura e orrenda selva druidica in cui Cesare s’imbatté, percorrendo le terre dei Celti. Entrambi questi episodi sono da attribuirsi allo scadimento e corruzione, già da lungo tempo in atto, di culti antichissimi che avevano modellato un mondo sommante migliaia e migliaia d’anni. Un mondo che, è stato scritto, derivava da un più antico assetto e, forse, relitto di una grande catastrofe. Calamità naturale che aveva generato immense rovine e anche il tracollo, caduta, di una natura umana sopraffatta da un cambiamento irreversibile. Scampate a quel crollo, nazioni e popoli dispersi, che di riflesso ne erano stati colpiti subendone considerevoli conseguenze, riuscirono a ricostruire civiltà e quindi sistemi culturali, politici e religiosi sulla base di una metanoia non totale e quindi liberatrice e catartica, ma restando ancor in parte contaminati da quella smodata hybris, celatasi or, e non meno insidiosa, nelle segrete profondità dell’essenza umana; hybris che aveva provocato la crisi d’un ordine spirituale e civile con la conseguente scomparsa. Ne restò l’immensa ombra, vestigio d’un mondo remoto, dunque, e nel mero significato d’un ordine, già mondiale, superato, cristallizzato, irrigidito, in via di perdere di continuo vitalità, perché incapace di rinnovarsi, quindi inetto ad attingere a una superiore natura, a raggiungere l’originaria sostanza spirituale. Un mondo che perderà sempre più di chiarezza, e imprenderà prima o poi ad agitarsi, a muoversi per vie tortuose. Un mondo senza direzione. Quante migliaia d’anni? Ottomila, dieci/dodicimila? Migliaia d’anni, come ieri!
C’era e vi fu coltivata una grande sapienza? Per secoli vi ha retto indubbiamente una elitaria sapienza, rispettata come sacra, ma umana, troppo umana, direbbe Nietzsche. Un sacerdozio politicamente sagace, oculato, potente; ed esperto nell’occulte scienze? Residuale, comunque, la sacralità. Osiride, Iside, i Faraoni germani, primi civilizzatori; lui, divinità della vegetazione e quindi re dell’oltretomba; lei, Iside, divinità della fertilità; sono entrambi parte dell’Enneade, il pantheon egizio, tendenzialmente primitivo, orientaleggiante; grandiosità monumentale e poi, l’immenso regno della morte… maestosità delle tombe, e tombe, tombe, sarcofagi… mummie… (oggidì ibernazione)! E tutto in uno sforzo magico religioso, uno sforzo opaco, continuo in millenni, per conservare la vita… anche, persino nella tomba… e uno sforzo di tal genere, serbare l’individualità nella bara, è già una trista innaturale propensione a ritenere assolutamente prevalente l’interesse particolare; tal delirante protratta condotta trascina con sé l’individualismo (qual fabbriceria!!), una chiusura ermetica, con tutte le conseguenze patologiche, egocentrismo, egoismo, egotismo, egolalia… sino alla consunzione dell’Ego e al suo ridursi alfine in pappa psicanalitica. Vien spontaneo comparare l’egizio all’etrusco; entrambi fastosi residui d’una più alta realtà remota e rimossa, entrambi affetti da individualismo e particolarismo, quindi per loro natura, e non è che un’apparente contraddizione, inclinati al cosmopolitismo. E l’individualismo e il cosmopolitismo anticipano il messianismo e predispongono i tempi all’intransigente fanatismo cristiano e primariamente alla sua matrice, lo gnosticismo giudaico-alessandrino. S’avvia la lugubre conversione, con la triste ottusa serie degli -ismo o -esimo…
Tuttavia venne Alessandro, ma lui il grande Condottiero macedone fu solo una meteora; l’Egitto attrasse la sua attenzione e volle fondarvi una grande città cui impose il suo nome, Alessandria. In questa città dalle ampie vie sarà sepolto per volere del suo diadoco Tolomeo, che ne farà appunto la capitale del regno dei Tolomei. In Alessandria si affermerà una cultura raffinatissima, l’alessandrinismo, cultura cosmopolita appunto in cui ebbe gran parte il numeroso e agguerrito elemento ebraico; la città divenne anche un fiorente e importante centro commerciale. Gl’interscambi commerciali s’unirono formando un tutto unico con quelli culturali, religiosi, filosofici, in modo che vi s’annodarono sincretismi spuri , con profitto delle pullulanti sette gnostiche, giudeo-cristiane, intese a farne un centro di diffusione della nuova turbolenta credenza monoteistica, sia perché gli Egizi erano predisposti a quel tipo di religiosità mercantilmente cosmopolita, sia perché la città si prestava come luogo di passo tra l’ oriente, per natura inclinato alla mistione, e l’occidente tutto da conquistare.
Oggi, nei 'tempi moderni', tutto ancor torna, si ripresenta l’uomo di ieri, e infatti il modernismo è all’insegna del più selvaggio individualismo; e l’odierna società, nonostante i massicci e insultanti grattacieli e lo sforzo titanico del volo spaziale, è primitiva, tendente alla regressione, priva com’è di sacralità, di luce spirituale e sempre brancolante nelle più bieche superstizioni. Già il cosmopolitismo non rappresenta affatto la realizzazione di una nuova cosmologia, ma si smaschera nell’effettuazione di una strisciante, subdola, stregonesca barbarie; e dovunque, nelle istituzioni, sulle cattedre, tra le cosiddette autorità aumentano i barbassori, i rozzi demagoghi; scomparso è il vero sapiente, l’Uomo saggio. Con questo vogliamo dire che l’Egitto, se non altro, annoverava gloriosi faraoni, pii sacerdoti, come quelli di Sais, l’antichissima, dediti al culto di Neith, la dea della tessitura, e luminosi sapienti. Oggi, desolazione! Su questo deserto del nostro tempo, che non conosce le sponde d’un fecondante Nilo, regnano sovrani ‘i faraoni della finanza apolide’; celebrano culti ipocriti, spuri e corrotti, i Guru dell’affar mio e dell’affar tuo, capi mediatici più che pastori d’anime; scorrazzano i “Cleone”, i radical-democratici conciatori di pelle umana, bellicosi committenti intenti ad allargare i loro mercati e a stringer le loro borse, demagoghi dal ‘culo di scimmia’, come soleva dire il grande Aristofane del suo avversato concittadino, il famigerato vero Cleone, grosso affarista nel mercato dei conciatori di pelle, sulle scene ateniesi della commedia antica.
LE LUCERNE DI SAIS (Erodoto, Storie L.II) – Dopo essersi raccolti nella città di Sais per la festa, in una certa notte tutti accendono molte lucerne all’aperto in circolo intorno alla casa. Le lucerne sono costituite da vasi pieni d’olio e di sale e alla superficie c’è sopra il lucignolo, ed esso arde per tutta la notte e la festa ha il nome di “accensione delle lucerne”. Gli Egizi che non vanno a questa festa, aspettando la notte del sacrificio accendono anch’essi tutte le lucerne, e così non solo in Sais si accendono lucerne, ma anche in tutto l’Egitto. La ragione per cui questa notte ha ottenuto luce e onoranze, viene spiegata da un racconto sacro.
Così Erodoto narra la festa rievocante la sconfitta dei nemici dell’ordine e della luce per opera della dea di Sais, Neith; così scrive lo storico: “…una grande festa in onore di Atena nella città di Sais.” Era, in quella città, Neith rappresentata con nella destra lo scettro madj, un bastone magico figurante un lungo gambo con in cima un fiore di papiro, e sul capo uno scudo con in cima due frecce incrociate. Questa dea, portatrice di eterna giovinezza era anche spesso rappresentata con una civetta e una lancia, perciò Erodoto identifica Neith ed Atena. E Pausania, il geografo greco vissuto ai tempi degli Antonini, racconta che nel tempio di Minerva in Atene si trovava una lucerna d’oro inestinguibile che ardeva giorno e notte senza bisogno di essere alimentata per un anno intero. La lucerna è precisamente un’immagine dell’uomo; dall’involucro corporale, il vaso, che contiene l’alimento, l’olio, da intendersi come anima vitale, scaturisce la fiamma, vibra la luce, la realtà luminosa, spirituale cui l’uomo deve adergersi. Questa Neith, questa Atena, questa Minerva, auto-generatasi dalla mente del Padre, è l’intelligenza fiammeggiante circonfusa di luce eterna. La dea, a Sais, era ritenuta dea della caccia, della battaglia, della tessitura, delle arti. La dea, dunque, del vigore guerriero, perché l’uomo ch’è alla caccia di sé stesso deve pur sostenere la grande battaglia contro l’oscuro e ostinato nemico, per poter riportare una luminosa vittoria e raggiungere così la comprensione della divina, vivente tessitura del cosmo.
Trattando di Minerva, nella Religione romana arcaica, il Dumézil scrive: “Il nome della dea può essere italico (Menerua è la forma epigrafica latina più consueta) e derivare dalla radice indoeuropea *men- che designa tutte le attività intellettuali: Minerua dicta, quod benemoniat, si legge in Paolo Diacono, e Festo segnala nel carmen Saliare un verbo promeneruat con il valore di monet (o promonet?) che, nel significato di ‘istruire’, armonizza con l’unico servizio reso dalla dea.”
Dumézil nota l’assenza della dea nell’antico feriale e la semplicità della teologia, per cui si chiede se Minerva è propriamente romana. Chiarisce che tutto ciò “non è decisivo: solo, induce a pensare che nella Roma primitiva così come nell’India vedica l’artigiano non fosse un tipo umano differenziato. Le arti esistevano: le parole che a Roma designano il modellare la terra, la tessitura, l’arte del carradore, sono indoeuropee, e ciò presuppone un sapere tradizionalmente trasmesso, delle competenze specifiche. Quelle attività, tuttavia, erano sicuramente svolte in privato, nell’ambito di ciascuna famiglia, e Minerva la ‘insegnante’, se allora esisteva non aveva posto nel culto pubblico. Non bisogna quindi escludere la possibilità che la dea sia stata indigena.”
Nel Timeo di Platone, a proposito di Neith, leggiamo: “V'è in Egitto - disse Crizia - nel Delta, al cui vertice si divide il corso del Nilo, una provincia detta Saitica, e la più gran città di questa provincia è Sais, dove nacque anche il re Amasi. Secondo gli abitanti, l'origine della Città si deve a una dea, che nella lingua egiziana è chiamata Neith, e nella greca, com'essi affermano, Atena: ed essi sono molto amici degli Ateniesi e dicono d'essere in qualche modo della loro stessa Stirpe.”
Ermes-Toth, Pan-Ptah Tanen, non solo somiglianze, comparazioni, ma identificazioni divine; ne incontriamo ancora una, Neith-Atena-Minerva. Divinità indoeuropee in terra d’Egitto, e di remota antichità? Ma anche Atlante, il figlio di Giapeto e Climene o secondo Platone di Poseidone e di Clito, personaggio della mitologia greca, lo ritroviamo nel nord Africa, pietrificato nella catena montuosa dell’Atlante. In questo noi non riscontriamo stranezza alcuna, le nazioni e i popoli si sono sempre incontrati o scontrati, anche in seno a leggendari imperi; ci soccorre qui la narrazione del giovane Crizia nel Timeo di Platone.
Volete ritornare con noi alla misteriosa remota Arcadia, quella di Ermes Aroia, del dio capro, degli uomini lupo e delle donne orso? D’accordo, leggiamo nella Storia di Roma (libro I) di Tito Livio: “Dicono che già allora si celebrava sul monte Palatino la nostra festa dei Lupercali, e che da Pallanteo, città dell’Arcadia, quel monte fu chiamato Pallanzio, poi Palatino; che ivi Evandro, il quale discendeva appunto dalla gente degli Arcadi e già da gran tempo aveva occupato quei luoghi, istituì tale festa portata dall’Arcadia, in cui i giovani correvano nudi abbandonandosi a sfrenati lazzi in onore di Pane Liceo, chiamato in seguito dai Romani Inuus.”
Inuus, il fecondante…
L'AZIONE DEL SOLE – Macrobio (Saturnali, I,22): “Ma torniamo a discorrere del molteplice potere del sole. Nemesi, invocata contro la superbia, che altro è se non il potere del sole? Esso ha la proprietà di oscurare e sottrarre alla vista gli oggetti splendenti e di illuminare e offrire alla vista ciò che è oscuro.
Lo stesso Pan, che chiamano Inuo, sotto l’aspetto in cui è visibile lascia capire alle persone più sagge di essere il sole. Gli Arcadi venerano questo dio chiamandolo, τὸν τῆς ὔλης κύριον - il signore della hyle - non silvarum dominum sed universae substantiae materialis dominatorem significari volentes, cuius materiae vis universorum corporum, seu illa divina sive terrena sint, componit essentiam (volendo intendere non il padrone dei boschi, ma il dominatore di tutta la materia universale che costituisce l’essenza di tutti i corpi, sia divini che terreni). Perciò le corna di Inuo e la lunga barba pendente simboleggiano la natura della luce, con cui il sole illumina la volta superiore del cielo e l’emisfero inferiore; onde Omero dice di lui:
sorgeva per portare luce agli immortali e ai mortali.
[…] Ecco ora la spiegazione del quod in caprae pedes desinit. La materia che, distribuita dal sole, e fornita ad ogni sostanza, dopo aver formato i corpi divini, finisce nell’elemento terra (in terrae finitur elementum). Per rappresentare dunque questo termine estremo, si scelsero i piedi di questo animale, perché è terrestre e tuttavia pascendo tende sempre verso l’alto; appunto come il sole, che sia quando manda dall’alto i suoi raggi sulla terra, sia quando è basso sull’orizzonte, si vede sulle montagne. Amore e delizia di Inuo è ritenuta ‘Ηχώ, che non si lascia vedere da nessuno, simbolo dell’armonia celeste che è cara al sole in quanto reggitore di tutte le sfere da cui essa nasce, e che tuttavia non può mai essere percepita dai nostri sensi.
Saturnus ipse, qui auctor est temporum et ideo a Graecis immutata littera Κρόνος quasi Χρόνος vocatur, quid aliud nisi sol intelligendus est? Infatti l’ordine degli elementi si considera diviso dal ritmo del tempo, rivelato dalla luce, congiunto da vincolo eterno (nexus aeternitate conductus), distinto dalla vista: tutto ciò dimostra l’azione del sole.”
E così siamo tornati alla Saturnia Tellus, al Lazio, al Palatino, a Roma. Qui non manca il respiro, è da qui che s’espande nell’Universo. È qui che si torna all’origine del tutto. Al sacro inizio. Laddove l’Arcadia ritrova le sue radici più arcaiche e i suoi uomini lupo e capro insieme, e la bellissima dea orsa; vi si ritrova, volendolo, Pan, il caprigno pastore d’Arcadia, cultore d’api, il prisco Faunus Inuus et Fatuus, il sole fecondatore, il sole dei Vati.
Nume oracolare,
canit ac fulget,
è splendore, suono.
Io, Faune! Io, Pan!
Il latino Faunus/Pan, il vivente, è qui, in terra italica, perché mai vi tramonta il Sole di Roma; qui ed ora; e sarebbe bastevole riaccendere le lucerne di Sais.
Io, comites, vigilamus! Sol novus triumphat! Io, Faune! Io, Pan! Menerva Salus auxilium nobis fert.
