SUPERSTITIOSE VIVERE CONSTANTINO REGNANTE
SUPERSTITIOSE VIVERE ↔ CONSTANTINO REGNANTE
La veneranda maestà dello Imperio, dalla invitta virtù di Cesare primieramente fondato in Roma, stabilito da Augusto, e da trentadue altri principi appresso, in anni trecentottanta diversamente accresciuto ed augumentato; si mantenne in somma grandezza ed in riverenzia dello universo, sino a tanto che Costantino, di che sempre dolere si debbe la bella Italia (qui epuriamo il Giambullari rifiutando il suo cesaropapismo), invaghitosi delle antiche rovine di Tracia, per fondare una terra nuova negli estremi liti della Europa, abbandonò la universal regina del mondo, e preponendo i paesi strani ai domestici, i servi a’ signori, i vili e incogniti rivi al celebratissimo Tevere, e la ambiziosa volontà sua alle vestigie santissime di quelli spiriti virtuosi che avevano condotto Roma a ‘l supremo de’ sommi onori, trasferì la sede in Bisanzio, ed agli ultimi confini della Grecia, se ne portò tutto quello che la già gloriosa Roma, con tanta virtù e con sì onorate fatiche, lungamente aveva acquistato. Il che di quanto momento fusse alla rovina dell’occidente, assai chiaro ce lo dimostrano i tanti diluvj delle barbare nazioni, che non solamente inondarono nella Europa, ma e nell’Africa ancora, con sommo danno dello universo, e massimamente dello Imperio stesso romano. Il quale trasportato dove manco si conveniva, ed in trentanove principi, che ne’ seguenti quattrocento anni o circa lo governarono, degenerato da sé medesimo, venne finalmente a una debolezza tale e si fatta, che la poverella Italia a tanti barbari lasciata in preda, non perdé solamente la gloria e la onoratissima fama sua, ma la virtuosa semenza ancora di quegli animi chiari ed illustri che l’avevano fatta sì grande.
Le righe trascritte sono l’inizio della ISTORIA D’EUROPA del fiorentino Pierfrancesco Giambullari, scrittore della prima metà del cinquecento. È molto significativo che uno scrittore di quell’epoca inizi una storia d’Europa aspramente rimarcando l’abbandono di Roma da parte di Costantino e con grande risalto. Infatti il Giambullari rileva e sottolinea quell'avvenimento inopinato che causò la rovina dell’occidente con sommo danno dello universo. È inconfutabile che questo sommo danno si sia protratto nel tempo e durerà fin quando il nome di Roma, come idea e volontà romana, non si affermerà di nuovo nello universo. Per chiarire cosa intendiamo qui per idea e volontà romana, occorre rifarci, seppur brevemente, a quei tempi e indagare sulla esecrabile diserzione e sulla personalità di colui che tradì la virtuosa semenza di quegli animi chiari ed illustri che avevano fatto sì grande Roma, la bella Italia e posti i fondamenti della civiltà europea.
Lo storico bizantino Zosimo circa duecento anni dopo la morte di Costantino così ne tratteggia la figura e il carattere: “Costantino, nato dall’unione dell’imperatore Costanzo con una donna di oscure origini, aveva ormai il pensiero fisso al potere. La sua brama era cresciuta da quando Severo e Massimino avevano ottenuto la dignità di Cesare.” E più oltre: “Proprio in questo periodo morì l’imperatore Costanzo. I soldati di corte giudicarono che nessuno dei suoi figli legittimi fosse degno dell’impero, ma vedendo che Costantino aveva prestanza fisica ed essendo nel contempo stimolati dalla speranza di grandi doni gli conferirono la dignità di Cesare.” Lo storico greco sottolinea le oscure origini della madre, la brama di potere e il conferimento della dignità di Cesare da parte delle truppe stimolate dalla speranza di grandi doni; ne conseguirà poi, come Zosimo racconta, che quando ebbe tutto il potere nelle sue mani, dopo sanguinosissime battaglie: “Costantino, che non celava più la sua natura malvagia, si abbandonò ad ogni sorta di licenza. Celebrava ancora le cerimonie tradizionali, non per ossequio, ma per interesse; per questo obbediva anche agli indovini, avendo sperimentato che avevano previsto tutti i suoi successi; e quando giunse a Roma, pieno d’arroganza, pensò che bisognava dare prova di empietà cominciando dalla famiglia. Senza tenere in alcun conto le leggi naturali, uccise infatti il figlio Crispo (326) elevato alla dignità di Cesare, per il solo sospetto di avere una relazione con la matrigna Fausta. Poiché Elena, la madre di Costantino, era indignata per un simile gesto e riteneva insopportabile l’assassinio del giovane, Costantino, quasi per consolarla cercò di rimediare al male commesso con un male più grande ancora. Ordinò di scaldare un bagno oltre la temperatura normale e, immersa Fausta, la tirò fuori quando ormai era cadavere. Consapevole di questi crimini e di non aver rispettato i giuramenti, si presentava ai sacerdoti, chiedendo loro sacrifici espiatori per le proprie colpe; ma poiché essi risposero che nessuna purificazione era in grado di cancellare simili empietà, un egiziano (trattasi di Ossio di Cordova; detto l’egiziano, costui era in contatto con l’imperatore dal 312, anno in cui si presume Costantino s’avvicinasse al cristianesimo; Zosimo ritiene che la conversione definitiva avvenne nell’anno 326), giunto a Roma dall’Iberia ed entrato in familiarità con le donne di corte, incontratosi con Costantino gli assicurò che la religione cristiana annullava qualsiasi colpa e conteneva in sé anche questa promessa, di liberare subito d’ogni peccato coloro che la praticavano. Costantino fu assai pronto ad accogliere le sue parole; trascurando i riti tradizionali e partecipando invece a quelli proposti dall’egiziano, cominciò a nutrire sospetti verso la divinazione; poiché infatti grazie ad essa gli erano stati predetti molti successi, che si erano poi realizzati, temeva che il futuro potesse essere rivelato anche ad altri, che chiedevano responsi contro di lui, e sulla base di questa opinione decise di proibire queste pratiche. E quando venne il momento della festa tradizionale, nel corso della quale l’esercito doveva salire sul Campidoglio e celebrare i soliti riti, Costantino per paura dei soldati partecipò alla festa, ma l’egiziano gli suggerì una visione che condannava senza riserve l’ascesa al Campidoglio; allora si tenne lontano dalla cerimonia sacra e si attirò l’odio del senato e del popolo. Ma non sopportando di essere biasimato da tutti, cercò una città che fosse pari a Roma, dove costruire il suo palazzo”. Lo storico svizzero Franςoise Paschoud sostiene che Costantino si distaccò gradualmente dalle cerimonie tradizionali, quando nel 315, giunto a Roma per i decennalia, si rifiutò di salire sul Campidoglio; così il Paschoud: “Allora i Romani cominciarono a dimostrare verso Costantino quell’odio di cui parla Zosimo e che si manifestò soprattutto nel 326 in occasione della successiva visita dell’imperatore a Roma; i recenti drammi familiari rimasti oscuri non contribuirono certo alla popolarità dell’imperatore, che abbreviò il suo soggiorno nella capitale d’Occidente e non vi ritornò più.”
Costantino trascurò anche di celebrare nel 314 i Ludi Saeculares che si tenevano ogni centodieci anni. Zosimo: “Finché venivano celebrati questi riti l’impero romano si conservava intatto e continuò a tenere sotto di sé, per così dire, tutto il nostro mondo; ma appena Diocleziano rinunciò al potere, la festa venne trascurata: l’impero decadde lentamente e quasi senza accorgersi fu conquistato dai barbari, come gli stessi fatti ci hanno provato. Ora avvenne che, mentre Costantino e Licinio erano consoli ormai per la terza volta, si compiva l’intervallo di 110 anni, nel quale bisognava celebrare la festa come era stato fissato; ma poiché la cerimonia non si svolse, era inevitabile allora che le cose degenerassero, sino alla sventura che oggi ci opprime.”
Molti storici, anche contemporanei, hanno osservato che Roma e il suo rituale religioso, tutta la sacralità romana, non ebbe mai un ruolo preminente nei pensieri e nei progetti di Costantino. Già dopo la sconfitta di Massimino Daia, con il quale Licinio divideva l’impero d’Oriente, nell’aprile 313, era stato promulgato, circa due mesi dopo l’editto di Milano, il rescritto di Nicomedia, il cui testo ci è stato tramandato da Lattanzio:
Noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede (liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset), affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia (quod quicquid est divinitatis in sede caelestis), a noi e a tutti i nostri dia pace e prosperità.
Quanto a Licinio Augusto, Zosimo argutamente ce ne parla: “Licinio proclamatosi cristiano per mossa politica sin dal periodo della sua rivalità con Massimino Daia, cominciò progressivamente ad inimicarseli, adottando politiche insensatamente ostili a questi, ritenendo, probabilmente non in maniera del tutto infondata, che costoro appoggiassero il suo rivale Costantino. Avviò per tanto una serie di attività discriminatorie, così che se li trovò contro nella fase decisiva del suo conflitto con Costantino.”
Licinio, figlio di umili contadini Daci, era di circa nove anni più anziano di Costantino e fu da giovane commilitone e amico di Galerio, e con lui dal 308 al 311, anno in cui Galerio muore, divise l’autorità imperiale. Alla morte di Massimino Daia nel 313 si trovò a dividere l’impero con Costantino che dal 306 era l’Augusto d’Occidente. Licinio non aveva mai ritenuto Costantino legittimo imperatore a tal punto che si nominò a collega Aurelio Valerio Valente e pertanto si venne allo scontro e dopo la battaglia di Mardia del 306, in cui le truppe diedero da entrambe le parti prova di valore ed anche in considerazione delle gravi perdite, i due addivennero ad un accordo e il primo marzo 317 fu firmata la pace; Licinio fu costretto a cedere l’Illiria a Costantino che gli intimò di condannare a morte Valente. La pace durò sette anni. “Costantino però, osserva Edward Gibbon, era in tale stato di esaltazione e di gloria da non potersi assolutamente ritenere che riuscisse a sopportare un altro imperatore associato a lui nel dominio. Fidando nella superiorità del suo genio militare e della sua potenza, decise, senza aver subito nessuna offesa, di farne uso per la distruzione di Licinio, la cui età avanzata e i cui vizi impopolari sembravano offrire una facile vittoria. Ma, ridestato dall’imminenza del pericolo, il vecchio imperatore deluse le aspettative di amici e nemici e facendo appello a quello spirito e a quelle capacità con le quali si era guadagnato l’amicizia di Galerio e la porpora imperiale, si preparò alla contesa.” Nel 324 le ostilità tra i due ripresero e il 3 luglio di quell’anno si combatté la battaglia di Adrianopoli. Zosimo: “Ci fu un grande massacro; caddero circa trentaquattromila uomini. Al tramonto, Costantino riportò indietro le sue truppe e Licinio, radunati tutti quelli che poteva, mosse attraverso la Tracia, per raggiungere la flotta.” Era Crispo l’ammiraglio della flotta di Costantino, mentre quella di Licinio era sotto il comando di Abanto. Sempre Zosimo: “Verso mezzogiorno il vento del nord si placò e cominciò a spirare un forte vento dal sud, e avendo sorpreso la flotta di Licinio presso la riva asiatica faceva arenare alcune navi, ne sbatteva altre contro gli scogli, altre ancora affondava con l’equipaggio: in questo modo morirono cinquemila uomini.” Il dramma sta per concludersi, non ci resta che lasciare la parola allo storico ancora una volta: “Scoppiata tra Calcedonia e il promontorio Sacro una violenta battaglia (la battaglia fu combattuta a Crisopoli, a nord di Calcedonia, il 18 settembre 324), le forze di Costantino erano di molto superiori e piombate sui nemici con violento slancio, inflissero tali perdite che su centotrentamila uomini ne poterono fuggire a stento trentamila.” Licinio vinto si recò da Costantino impetrando il perdono e porgendogli la porpora lo proclamò imperatore. Con questo atto Costantino diveniva il signore di tutto l’impero d’Occidente e d’Oriente. Ma il “pio” imperatore, pur avendo promesso a sua sorella, moglie di Licinio, che lo avrebbe risparmiato, “consegnò Martiniano (generale di Licinio) alle guardie perché l’uccidessero; quanto a Licinio, lo mandò a Tessalonica, perché vivesse là al sicuro, ma non molto dopo, calpestati i giuramenti, gli era abituale, gli toglie la vita impiccandolo.” È quest’ultimo il malinconico commento di Zosimo a conclusione della tragica vicenda, che aveva visto perire centosessantanovemila uomini. Battaglie combattute e sangue sparso non certo a salvaguardia della Civiltà romana, ma per soddisfare tracotanti ambizioni. E così la trista e triste storia continua.
Riferiamoci ancora al Gibbon: “Con la vittoria di Costantino il mondo romano venne ancora una volta riunito sotto l’autorità di un solo imperatore, a trentasette anni dal giorno in cui Diocleziano aveva diviso il potere e le province con l’altro Augusto Massimiano. Le tappe successive dell’ascesa di Costantino, dalla sua prima assunzione della porpora a York alla rinuncia di Licinio a Nicomedia, sono state narrate con una certa minuzia e precisione non soltanto perché si tratta di eventi a un tempo importanti e interessanti, ma ancor più perché contribuirono alla decadenza dell’impero per la grande perdita di sangue e di denaro e per il continuo aumento dei tributi e delle forze militari. La fondazione di Costantinopoli e l’affermarsi della religione cristiana furono le conseguenze immediate e memorabili di questa rivoluzione.” E a proposito della fondazione di Costantinopoli leggiamo ancora queste significative considerazioni del Gibbon: “Roma…e il paese dei Cesari erano guardati con fredda indifferenza da un principe dedito alle armi, nato nelle vicinanze del Danubio, educato nelle corti e negli eserciti dell’Asia e investito della porpora dalle legioni della Britannia. Gli italiani, che avevano accolto Costantino come loro liberatore, obbedivano docilmente agli editti che qualche volta egli si degnava di rivolgere al senato e al popolo di Roma, ma ben di rado erano onorati dalla presenza del loro nuovo sovrano.” Questo il motivo per cui egli rivolse l’attenzione alle contrade d’oriente e ivi trovò il luogo per la sua capitale, che volle esteriormente sfarzosa e a cui dedicò tutte le sue cure. Una capitale per un impero, che non era più l’impero augusto della Res Publica Romana Universa, ma nel cui ambiguo cavilloso grembo sarebbero maturati tutti gli elementi preparatori per una rivincita asiana sulla Rupe Capitolina.
Citiamo ancora da DECLINO E CADUTA DELL’IMPERO ROMANO: “A ogni anniversario della città la statua di Costantino, che reggeva nella mano destra una piccola immagine del Genio del luogo, veniva issata su un carro trionfale. Le guardie, che portavano in mano ceri e indossavano l’uniforme di gala, accompagnavano la solenne processione che si muoveva lentamente nell’Ippodromo. Quando il corteo passava davanti al trono del regnante, questi si alzava dal suo seggio e con grata reverenza adorava la memoria dei predecessori. Alla festa della dedicazione un editto, inciso su una colonna di marmo, conferì alla città di Costantinopoli il titolo di Seconda o Nuova Roma. Ma su quell’onorevole epiteto ha prevalso il nome di Costantinopoli, che ancora oggi (Gibbon scriveva nel 1700), dopo quattordici secoli, perpetua la fama dell’uomo che la creò.”
La Città d’Oro come, per il suo abbagliante sfarzo, veniva chiamata Costantinopoli era stata una volta l’antica Bisanzio, Βυζáντιον, fondata 659 anni avanti questa era da coloni di Megara, città dorica dell’Attica. Βυζáντιον fu inaugurata consultando l’oracolo di Delfi che, secondo quando tramandato, consigliò anche il luogo della fondazione. Costantino ampliò enormemente l’antico centro e pare che lo inaugurasse con un rituale etrusco. Vi fu anche l’intervento di aruspici etruschi e di astrologi caldei? Sono supposizioni ma che non stupiscono, posto il suo disinvolto sincretismo. E a questo punto forse è il caso di entrare nel mondo delle affabulazioni costantiniane ed entriamoci con il Gibbon: “In una sua legge egli tenne a informare i posteri di aver gettato le eterne fondamenta di Costantinopoli in ottemperanza ai comandi di dio, e sebbene egli non si degnasse di riferire in quale modo gli fosse stata comunicata l’ispirazione celeste, il vuoto lasciato dal suo modesto silenzio fu colmato generosamente dall’inventiva di numerosi scrittori, i quali descrivono accuratamente la visione notturna apparsa alla fantasia di Costantino mentre questi dormiva entro le mura di Bisanzio. Il genio tutelare della città, una veneranda matrona cadente sotto il peso degli anni e delle infermità, fu trasformato da un momento all’altro in una fanciulla in fiore, che Costantino adornò con le proprie mani dei simboli della grandezza imperiale. Svegliatosi, il monarca interpretò il fausto presagio e obbedì senza esitare al volere del cielo.” Saltiamo alcune righe e riprendiamo con Gibbon: “A piedi, con una lancia in mano, l’imperatore guidò di persona la solenne processione e indicò la linea da tracciare come confine della predestinata capitale, finché gli astanti, notando con stupore la grande ampiezza di quel perimetro, si azzardarono a rilevare come fossero già stati superati i limiti di una grande città. ‹‹Andrò ancora avanti›› rispose Costantino ‹‹finché Lui, la guida invisibile che procede innanzi a me, riterrà opportuno fermarsi.››” A questo punto, acme dell’affabulazione, ci siamo ricordati del cosiddetto “l’Egiziano”, Ossio di Cordova, il consigliere cristiano-gnostico di Costantino, l’occulto suggeritore, l’affascinatore e artefice di sottilissime suggestioni rasentanti la trance ipnotica. Ossio di Cordova, detto “l’Egiziano”, uno dei tanti plagiari di una vendicativa latria che andava diffondendosi purtroppo, mentre gli uomini involgariti si allontanavano dalla luminosa solare romana religio, tra queste torve turbe l’ambizioso, il crudele ma “pio” Costantino detto il Grande. La sua comparsa, una colossale proiezione sul piano storico dell’ombra cupa del Grande Disgregatore! La statua colossale di Costantino ritrovata, ironia della sorte, nella basilica voluta da Massenzio, ora ai Musei Capitolini, ben rappresenta la sua infausta megalomania che in limine mortis meritò il baptismum dal suo consigliere (ancora un altro!) e biografo Eusebio vescovo di Cesarea, anche costui sincretista come il suo monarca, consustanziali entrambi e seguaci di Ario nel contempo.
SIMULACRUM IMMANI MAGNITUDINE
Fu proprio il mediorientale Eusebio che nei Tricennalia di Costantino pronunciò il suo panegirico e lo appellò ‘il Grande’, mai ciò era accaduto prima; nessun principe romano avrebbe permesso tal cosa, perché era tenuto ad osservare romanamente il rispetto dei limiti imposti dal senso della misura. La smoderatezza non era nel costume romano. Se si ha occasione di contemplare i volti della statuaria romana, di Scipione, di Catone, di Cesare, di Augusto, di Tiberio, di Marco Aurelio e tanti altri, si noterà nella naturalezza e nobiltà dei tratti, una umana misura, un espressivo distacco penetrato di calma ed equilibrio. Nulla di eccessivo, di smisurato. Il volto in marmo che apparteneva alla statua colossale di Costantino, cui abbiamo accennato sopra, è tutt’altra cosa. Vi è rappresentata una fisionomia estraniata da ogni proporzione e verisimiglianza umana, distolta dai tratti vivi, naturali, trasposta in un mondo alieno, la raffigurazione imprecisa di un idolo, vuoto strumento di un’astratta, improba onniscienza. La mostruosa figura marmorea volge al cielo gli occhi enormi che si empiono di vuoto e di attesa, sì che la vista di quel marmo non trasmette in chi l’osserva alcuna emozione, non lascia alcun intimo segno, anzi smorza ogni caldo sentire, come si fosse alla presenza d’un’opera intenzionalmente artefatta. Davanti a questo gigante di marmo ci si trova come alla presenza d’un proscritto e proscritto per sempre.
Sappiamo di Ossio di Cordova, l’Egiziano occulto, cristiano-gnostico, e sappiamo molte più cose del vescovo di Cesarea, l’apologista professante soprattutto il Vecchio Testamento e ammiratore di Ario, Eusebio il biografo di Costantino; questi due personaggi mediorientali frequentavano la sua corte ed erano risaputi suoi consiglieri, pertanto si può ben comprendere il gigantismo costantiniano e quel che esso rappresenta, e certo non ci riferiamo qui alla sua prestanza fisica e nemmeno alle sue notevoli doti militari e alla genialità politica. Infatti, se la sua prestanza e la sua energia come militare e come politico fossero state al servizio della romanità, nulla avremmo da eccepire, perché ci risulterebbero, ancor oggi, pur esse vestigie santissime di quelli spiriti virtuosi che avevano condotto Roma a ‘l supremo de’ sommi onori.
Orbene noi sosterremo senza mezzi termini che Costantino I, unificatore nella sua persona di tutto l’impero romano, d’Occidente e d’Oriente, non fu un romano; egli trasbordò l’impero di Roma, come scrisse il Giambullari, dalle rive del celebratissimo Tevere a incogniti rivi, con rovina dell’Italia e dell’Europa. Ma questo è solo un riferimento geografico, il peggio è che egli trasbordò quel mondo dalla santità della religio romana nel demonismo asiano, ribellistico e irrazionale, che le legioni di Roma avevano tenuto a bada sempre vittoriosamente e che ora tumultuava e aveva come epicentro il bacino mediorientale, in cui si era sviluppata e andava progredendo una aggressiva latria completamente estranea, anzi avversa, alla spiritualità romana. Una latria proponente una elementare astratta concezione del mondo e dell’uomo, tendente all’inaridimento della natura e dell’umano consorzio, alla desertificazione.
Il Mos Maiorum e la Virtus Romana avevano istradato la volontà umana al superamento della hybris, cioè di un’agire smisurato per fini egoistici, onde trascendere la condizione umana per entrare in relazione col divino; la latria che si manifestò e a cui l'egoarca Costantino dette slancio è, all’opposto, nemica dell’uomo, la cui libertà intesa a coltivare sé stesso, viene annichilita e sottoposta al controllo di una entità tirannica che lo vuole misera inetta insignificante creatura, incapace d’ ideare, impotente a liberarsi da tanta schiavitù. Frattanto, in concomitanza con tale tirannica volontà usurpatrice, vanno sviluppandosi una scienza aridamente materialistica e tecnologie la cui gigantesca hybris appare irrefrenabile, mentre l’uomo s’impicciolisce sempre di più e corre il rischio, a cagione del suo declino spirituale, di far scomparire, imbarbarito androide, dalla faccia della terra perfino la sua specie. Tutto questo è allegorizzato nella statua gigantesca di Costantino I; sconosciuto è l’anno in cui fu realizzata, ma in essa ancor si può leggere l’opera intenzionalmente nefasta del desertificante artefice che guidò la mano dello scalpellino.
BELLUM INTESTINUM AC DOMESTICUM
Lo storico svizzero Jacob Burckardt ebbe a dare del vescovo apologeta e consigliere di Costantino Eusebio un giudizio molto negativo, definendolo “il primo storico interamente disonesto dell’antichità.” Se questo giudizio è giusto, ancor più ne viene travolto il ‘consigliere’ e l’apologeta, e con ciò vogliamo esprimere tutta la nostra antipatia per gli apologisti, antichi e moderni. Ma noi, più modestamente torniamo al nostro Zosimo di cui apprezziamo la sensibilità e le capacità intuitive. Dopo l’acclamazione di Costantino e poi di Massenzio alla carica imperiale e le vicende e i torbidi che ne seguirono, Zosimo chiama alla ribalta Massimiano Erculio. Massimiano, che aveva retto l’impero con Diocleziano: “Nel frattempo, anche Massimiano Erculio, mal sopportando i disordini che turbavano lo Stato, si reca da Diocleziano, allora a Carnutum, città della Gallia, e cerca di persuaderlo a riprendere la guida dell’impero e a non trascurare che quel potere, per la cui salvezza aveva sacrificato tanto tempo e affrontato tante fatiche, era stato concesso a giovani sconsiderati e vacillava per la follia di coloro che vi si erano insediati. Diocleziano non acconsentì a tali richieste, ma antepose la propria tranquillità alle preoccupazioni (forse anche prevedeva la confusione che avrebbe sconvolto le cose, in quanto era stato sempre devoto al culto della divinità).” Massimiano era stato un grande condottiero; fu il primo a muoversi in profondità nel territorio germanico ottenendo strepitosi successi, tanto che si poté dire “tutto ciò che si vede oltre il Reno è romano”. Uomo d’armi di grande intelligenza, aveva servito con somma dedizione lo Stato romano; ma tanto era abile e valoroso in guerra quanto sprovveduto di fronte agli avvenimenti politici. Massimiano Erculio non era affatto un politico. Il soldato Massimiano si era distinto al servizio di Aureliano, manus ad ferrum, combattendo dall’Eufrate al Reno e sotto Probo in Britannia. Quando si unì a Diocleziano nel governo dello Stato, egli prese il titolo di Erculio in quanto uomo di azione mentre, Diocleziano quello di Giovio quale supremo politico reggitore. Un generale della statura e dell’esperienza di Massimiano era certamente in grado di conoscere al fiuto gli uomini e quindi di giudicarli a prima vista; certo, con la rapidità intuitiva dell’uomo di guerra, s’era immediatamente reso conto di prossimi avvenimenti disastrosi per lo Stato romano e difficilmente sanabili in considerazione del temperamento dei nuovi giovani protagonisti. Egli aveva visto giusto, lo si intende dalle sue parole trasmesse da Zosimo. Purtroppo si ebbe il rifiuto di Diocleziano e quando decise di passare all’azione si rivelò tutta la sua insipienza politica; fu un disastro! Una volta morto se lo contesero il figlio Massenzio e il genero Costantino, entrambi lo divinizzarono per un loro calcolato interesse. Il buon generale, l’Erculio che aveva servito il Marte romano sempre col disinteressato intento di difenderne e serbarne l’imperio, aveva avvertito il pericolo insito in quello scontro tra i due ‘sconsiderati giovani’, il figlio Massenzio di cui aveva constatato amaramente la pochezza politica e l’inettitudine militare, e Costantino, del quale aveva ponderato con raccapriccio l’egoarchica, sfrenata ambizione politica e guerresca. Il primo, Massenzio, il “patito” di Roma, pieno d’entusiasmo ma senza la stoffa e la virtù del vero romano; l’altro, Costantino, gran politico e uomo di guerra, ma dall’ambigua emotività, distante, indifferente al romano sentire. Questo fu certamente il dramma che si consumò nell’animo del vecchio soldato e che poi si svolse e concluse a Ponte Milvio dove Massenzio, il ‘romano’, abbandonato dagli dei dell’Urbe perì e vinse l’ambiguo, il figlio della cristiana Elena donna di oscure origini, colui che avrebbe definitivamente abbandonato Roma. E, il Senato? Prima approvò l’autoproclamazione imperiale di Massenzio, poi approverà quella di Costantino, il vincitore.
Nell’anno 2005, undici anni fa, in una fossa scavata in un vano sotterraneo alle pendici del Palatino ci fu un ritrovamento; si scoprì che erano le insegne imperiali, tra cui uno scettro intatto, appartenute a Massenzio, l’ultimo imperatore che intendeva risiedere a Roma. Chi le aveva nascoste? Un senatore (o più?) romano, amico forse del defunto Massimiano, uno che sapeva e prevedendo non voleva che le insegne finissero nelle mani dell’ambiguo, ma nemmeno che fossero deposte nel corredo funebre dello sventurato Massenzio?
Sulla battaglia che si concluse a Ponte Milvio, Michael Grant fa le seguenti considerazioni: “In seguito la battaglia fu veduta dagli storici cristiani come la vittoria della loro fede sul paganesimo; ed era effettivamente così. Infatti, sebbene Massenzio per acquistare popolarità avesse mostrato moderazione verso i cristiani, giungendo perfino a restituire le proprietà della Chiesa precedentemente confiscate, le sue monete rivelano un tono indiscutibilmente pagano. Ma l’elemento più importante fu il costante richiamarsi a Roma, che era la capitale di Massenzio, e che, nonostante il trasferimento del potere al nord, rimaneva sempre il punto di riferimento di tutte le più venerande tradizioni dell’impero.”
Massenzio, qualunque fossero state le sue inclinazioni e intenzioni (ma determinante è l’agire e la fonte da cui esso scaturisce), era stato ormai vinto e ucciso; Costantino da lì a poco sarebbe stato l’istauratore del cristianesimo come religione ufficiale dello Stato. Rapidamente per suo impulso la struttura dell’impero romano si sarebbe modificata, cristianizzandosi e travolgendo sul piano istituzionale il Mos Maiorum e la Religio dei Padri. Il Gibbon osserva che contemporaneamente Costantino diveniva un monarca sempre più crudele e dissoluto i cui “vizi contrastanti e pur conciliabili della rapacità e della prodigalità contribuirono a provocare la segreta ma universale decadenza in tutto l’impero”. E ancora il Gibbon non trascura di mettere in evidenza gli odiosi accadimenti che seguirono la morte dell’imperatore: nemmeno era sceso nella tomba che i suoi successori iniziarono a combattersi e a depredarsi a vicenda. Il figlio Costanzo produsse addirittura un falso testamento che fu sufficiente a dargli il pretesto di un massacro indiscriminato che colpì parenti, amici e sostenitori. Ci furono ancora dispute religiose, lotte e guerre per la divisione dell’impero tra i tre fratelli. Costantino il maggiore trovò la morte combattendo contro il fratello Costante che a sua volta fu abbattuto da una rivolta scoppiata nella Gallia. Costanzo combattendo contro Magnenzio imperatore secessionista dell’Occidente dal 350 al 353, riuscì vincitore e riunì l’impero sotto la sua autorità, all’esito però di una contesa civile che costò l’uccisione di cinquantaquattromila uomini, una enorme perdita di veterani che indebolirà l’esercito e le cui conseguenze si faranno sentire per decenni.
Quel bellum intestinum ac domesticum che sconquassò l’impero romano “con sommo danno dello universo”, per rifarci al Giambullari, dai giorni di Costantino ai nostri tempi non è mai cessato e sotterraneamente covando ancor continua, anche se ormai l’Europa, senza Roma, la sua Pietas e il lume della sua Iustitia, è addivenuta a una debolezza tale e siffatta che rischia di perdere per sempre “la virtuosa semenza che l’aveva fatta sì grande”. Questo calamitoso stato viene specificato come “radici cristiane” dell’Europa; una Europe, quod valde dolendum, maxime aegrota est.
PRAVA AFFABULATIO
vel potius
PEREGRINA SUPERSTITIO
Eppure “all’ora meridiana del sole” Costantino ebbe la visione della croce, e alla stessa ora la sua anima salì a Dio. Mai, così si proclamava, “lo splendore del sole” aveva irraggiato un più grande sovrano. In virtù dell’incarico divino a lui affidato l’imperatore pensava di eliminare la miseria e il pericolo in ogni paese illuminato dal sole. Il sole e la luna, è detto in uno scritto, seguono un corso stabilito da Dio. Sono il segno della ferma volontà di Dio. Del venerdì santo Costantino parla come della luce che splende più chiara del giorno e del sole. Il “giorno del Signore” diventa il giorno della luce, e come tale, festa del Signore. Frasi come “dalle tenebre alla luce, dall’errore alla verità” e simili tornano diverse volte”. Abbiamo testé citato Franz Altheim, il quale, attingendo ad Eusebio, così continua: “Nelle più fitte tenebre della notte Dio ha fatto risplendere una grande luce nel suo servo Costantino è detto altrove. Egli comparve davanti ai padri riuniti al concilio di Nicea, come un celeste messaggero di Dio, avvolto nello splendore del suo mantello di porpora, che brillava come un raggio di luce, circondato di lingue infuocate, ornato d’oro scintillante e di gemme preziose. In battaglia lo scudo e le armi di Costantino mandavano barbagli d’oro, l’elmo scintillava di pietre preziose.”
A questo punto facciamo intervenire anche il Gibbon, il quale respinge nei labili mondi della favolosità la visione della croce vista nel cielo da Costantino e sarcasticamente obbietta “che se a volte gli occhi degli spettatori sono stati ingannati in modo fraudolento, molto più spesso l’intelligenza dei lettori è stata offesa dalle fantasticherie”. Eppure queste fantasticherie che si narravano in giro, mentre il sangue umano scorreva a fiumi, potenziarono lo zelo e l’autorità di vescovi e apologisti cristiani, ne fecero i confidenti e i consiglieri del trono mentre la Chiesa si arricchiva anche di terre e beni materiali, e persino legalmente per volontà delle autorità; c’era addirittura una gara aperta a lasciare i propri beni alla Chiesa, la quale veniva anche sovvenzionata con il denaro pubblico. La potenza della Chiesa assorse al punto di intimorire le più alte autorità dello Stato con la minaccia della scomunica.
Citiamo ancora l’Altheim: “Costantino, prima di convertirsi al Cristianesimo, era un seguace del dio del sole e pensava di fondare su di lui l’idea del suo impero … Già Aureliano si credeva guidato nelle sue azioni dal dio del sole. A lui attribuiva il suo potere; era il dio che concedeva ai sovrani la porpora e determinava la durata del loro governo … Aureliano compiva il suo ufficio come rappresentante terreno del sole. In tal modo veniva anticipata l’idea fondamentale della monarchia costantiniana. L’imperatore è servo, anzi schiavo di Dio. Dio lo ha prescelto fra gli altri come strumento; egli è il “tonante araldo di Dio.” “Dio ha scelto il mio servizio come adatto al compimento del suo dovere, è così io, proveniente dall’oceano britannico (si badi bene, non da Roma; neretto e parentesi ns.), dove il sole è destinato dalla natura al tramonto, e superando tutti i pericoli grazie a un potere superiore, sono giunto ai campi dell’Oriente, che implorava da me un aiuto tanto più efficace quanto più gravi erano i mali sotto il cui peso anelava.” Così scrive Costantino dopo aver vinto Licinio, e continua: “Che io sia debitore al grande Iddio di tutta l’anima mia, del mio respiro, dei miei più intimi pensieri è la mia fede incrollabile.” Eusebio aggiunge che Dio chiamò Costantino al trono imperiale e ne stabilì il tempo del suo regno in tre decenni e più.
Prescindendo dal senso cristiano che quelle parole venivano ad assumere, anche Aureliano avrebbe potuto dirle. Ambedue gli imperatori si consideravano organi esecutivi del loro Dio, si sentivano posti nelle mani di un Onnipotente, che attuava la sua volontà nel mondo e nella storia. Per Costantino questa consapevolezza prese forma sensibile nella visione della croce.”
Qui, però, noi intendiamo distinguere la personalità di Aureliano da Costantino I; Aureliano, proclamato imperatore nell’anno 270, coltivò interiormente l’ideale unitario dell’impero romano, nella esclusiva e autentica tradizione di Roma, e tal sommo ideale sostenne sempre manus ad ferrum. La sua virtù guerriera non permise ai barbari e a chi attentava all’unità dello Stato di prevalere sulle armi romane e a tal fine riuscì, unificati sotto il suo comando gli eserciti di Roma, a celebrare la Concordia Militum. Per tali alti servigi il Senato di Roma concedette ad Aureliano il titolo di Restitutor Orbis e di celebrare anche il trionfo.
In un nostro scritto precedente dedicato a ‘La Terra del Sole’ abbiamo accennato all’ancestrale culto latino-italico del Sol Indiges, per comodità del lettore ne riportiamo qui un breve brano.
Nel De lingua Latina Varrone così scrive: “Sol, vel quod ita Sabini, vel quodsolus ita lucet ut ex eo dies sit.” Sole, o perché così i Sabini, o perché da sé splende e così da solo basta a far giorno. Sol, contrazione di ausel aveva il suo culto nella Sabina da cui proveniva la gente Aurelia, che discendeva dagli Auselii, gli Ausoni, il popolo del sole. Il culto del Sol Indiges aveva quindi origini remote, proveniva da progenitori che avevano coltivato Sol, quel unico che siffatto splende e pertanto da solo basta a far giorno. Magia della lingua latina che in breve tratto di frase ci illumina su un remoto culto ancestrale. Indugenitum, indiges poi, è quel Sole che nel Cielo interiore da sé stesso genera e rigenera il suo splendore e sorge al giorno della sua stessa luce: il Vir, l’Uomo Sole. Avo primordiale, colui che nello splendore del suo Cielo interiore concepì tutta una stirpe solare; Capostipite, il Padre di una gens nobile ed eroica. Nell’immensa consapevolezza del Cielo che avvolge la Terra, l’astro fulgente, il Sole, nel giorno che da sé solo genera e rigenera, ne è, nella natura visibile, il possente folgorante simbolo.
Nell’anno 274 Aureliano introdusse a Roma il culto del Sol Invictus e nel tentativo d’imporlo come culto dello Stato fece edificare un santuario dedicato a tale divinità e nel contempo proclamò il 25 dicembre giorno festivo, il Dies Natalis Solis Invicti, innestando la festa sui più antichi Saturnali. Se ne proclamò lui stesso sacerdote, sostenendo che ogni potere gli era concesso da quel dio. Un ricco simbolismo solare si era diffuso a quei tempi in tutto l’impero. Aureliano unificò quel culto e ne trasferì i simboli sulle insegne militari, anche perché ormai tribù germaniche e di altri popoli militavano nelle file romane. Seguiamo adesso ancora Franz Altheim: “Se quindi ammettiamo che i simboli solari furono accolti sulle insegne dell’esercito romano per opera di Aureliano, il suo atteggiamento acquista nuova luce. Il nuovo dio aveva, nonostante l’origine orientale, un carattere universale. L’imperatore, innalzando Helios di Emesa a dio dell’impero, lo creò ex novo in forma romana.” È evidente che nel Senato romano agivano ancora forze dall’alto, ligie (strettamente legate) al culto di Sol indiges, e l’ancestralità di Aureliano obbediva a tali forze. L’impero si era notevolmente esteso, nazioni diverse ne erano entrate a far parte, occorreva un elemento di coesione religiosa, culturale, politica e militare dell’impero. “Così – continua l’Altheim – al tempo stesso diede agli Illiri, ai Celti e ai Germani il dio che era loro congeniale. La crescente importanza che questi popoli avevano assunto nell’edificazione e nella difesa dell’impero, trovò rispondenza nel suo pantheon.”
Si narra nella biografia di Aureliano che quando celebrò il trionfo c’era un carro “trainato da quattro cervi appartenuto al re dei Goti. Su questo carro Aureliano giunse al Campidoglio per sacrificarvi i cervi. Infatti li aveva conquistati insieme col carro e li volle sacrificare a Giove Ottimo Massimo”. L’Altheim, a tal proposito, suggerisce: “Nelle rocce graffite della Scandinavia e nei reperti dell’età del bronzo nordica si vedono un cervo o una cerva che tirano la ruota del sole. Raffigurazioni del genere si trovano anche altrove fino in Val Camonica. [ … ] Aureliano non si serve degli altri carri, ma monta su quello dei cervi e offre i cervi come vittime a Giove Capitolino …”
Questa osservazione dell’Altheim, con il riferimento all’antico mondo indoeuropeo, è molto importante. Il culto romano non prevedeva sacrifici di cervi, ma Aureliano sacrifica i cervi a Giove Capitolino. Certamente quei Senatori in cui era ancora vivo il culto remotissimo di Sol Indiges, non dovettero trovare fuori luogo quel sacrificio, anzi dovettero concordare con Aureliano, che del resto aveva sempre agito consenziente il Senato. Aureliano, anch’egli, doveva esser ben cosciente che tra quell’offerta sacrificale e il Campidoglio intercorrevano remoti rapporti.
Abbiamo voluto così marcare di netto la distinzione tra Aureliano e Costantino. L’imperatore che visse, guerreggiando e trionfando nella luce di Roma, e l’egoarca imperiale che nulla mai comprese di Roma, tanto da portare un perenne conflitto, rovinando l’unità dello Stato e per i secoli a venire un continente intero. Il despota cancellò con il suo voltafaccia una lunga età gloriosa. Dal 275, morte di Aureliano, al 306 anno in cui Costantino fu proclamato imperatore erano trascorsi solo anni trentuno.
I despoti sono generalmente superstiziosi, specie quando commettono molti crimini. Costantino era in sommo grado superstizioso. Tra l’altro questa superstizione gliela alimentavano i suoi consiglieri più o meno colti, Ossio di Cordoba, Eusebio di Cesarea, e l’altro Eusebio di Nicomedia imparentato con la sua casa, tutti cristiani e sincretisti perché conciliavano Cristo, il Sole, Ario, l’Onnipotente del Vecchio Testamento, la Magna Mater e la Vergine dei Vangeli. Intrugli in cui sguazza, trovandosi a proprio agio, la sentimentalità mediorientale, incline al crimine, ma soprattutto al ‘visionarismo’ religioso. A Costantino fu suggerito dai suoi consiglieri che il divino sovrano solare in cui egli credeva non era altri che l’Onnipotente, “che attuava la sua volontà nel mondo e nella storia”. Costantino si abbandonò a questa credenza e rimase profondamente suggestionato dal simbolo della croce al punto da persuadersi che la croce gli era apparsa più volte in sorprendenti visioni, in sogno e da sveglio. Autoindotte allucinazioni visive, possibili in un temperamento che tende al primitivo, specie se sotto sotto opera l’arte astuta e suggestionante di Ossio di Cordoba unita alla magniloquenza affabulante dell’apologeta Eusebio. E chi può escludere, ammessa la sua acutezza di politico, che in Costantino ci fosse un precursore di Ciacotin, o che il Ciacotin in nuce fosse il signor Ossio di Cordoba?
Certamente la faccenda della croce fu studiata e studiata tanto bene da attecchire con tempestività e propagarsi nelle menti di vaste turbe, le masse di quei tempi. Propaganda e affabulazione ben collegate, un’accattivante trovata! Ossio di Cordoba doveva comunque essere un uomo di ingegno, altrimenti come avrebbe potuto confrontarsi con la inclemente genialità d’un Costantino?
Torniamo ad occuparci della visione ‘crociata’ e seguiamo l’Altheim: “Su questa visione ci sono pervenute due relazioni, ambedue nate nella cerchia degli intimi dell’imperatore. Secondo Lattanzio, prima della battaglia decisiva al Ponte Milvio, Costantino fu esortato a porre sullo scudo dei suoi soldati il ‘segno celeste’, e a cominciare così la battaglia. L’imperatore fece quanto gli era stato comandato: “Mettendo trasversalmente la lettera X (chi), ne arrotondò la parte superiore, e così riprodusse il monogramma di Cristo sugli scudi.” Questa è l’unanime tradizione, e qualsiasi cambiamento rischierebbe di falsare il contesto, di per sé molto comprensibile. La lettera X, posta di traverso, diventa una croce; la parte superiore viene piegata ad occhiello e diventa così una P (rho).
Questa interpretazione presuppone che il ‘segno celeste’ fosse la croce. Ma Costantino non si contenta della croce: ne fa risultare il monogramma di Cristo. L’interpretazione è convalidata dal fatto che nel periodo costantiniano e post-costantiniano spesso il monogramma appare nella stessa forma di croce.”

Non sempre però nella simbologia dell’epoca croce e monogramma sono uniti, come risulta da Lattanzio, ma sovente il monogramma sull’elmo, la croce sullo scettro imperiale; inoltre a differenza di Lattanzio, Eusebio sostiene che la visione apparve a Costantino molto tempo prima e non alla vigilia della battaglia e che si trattò di due distinte visioni. Fuor dall’affabulazione vien da supporre che questa simbolica venisse attentamente studiata e preparata, per nulla improvvisata. Infatti, è importante sottolineare che si trattava d’ una innovazione totale; dalle insegne romane, dagli elmi, dagli scudi dei soldati venivano strappati i simboli rappresentativi di Roma e sostituiti con immagini cristiane; occorreva dar corso con prontezza e con apparenza di spontaneità, propagando un magnetismo allucinatorio, a un nuovo immaginario; un tale evento doveva certo esser suscitato con visionaria violenza, ma richiedeva anche una meditata preparazione.
Altheim: “Aureliano accolse in larga misura il simbolismo dei popoli nordici: Illiri, Celti e Germani. Il ruolo importante svolto da questi ultimi nel seno dell’esercito – e fu proprio Aureliano a compiere il passo decisivo – si esprime nel gran conto in cui sono tenuti. Anche nell’incorporare nell’esercito i Germani Aureliano fu precursore di Costantino. Questi ne seguì l’esempio, utilizzando i Germani per la difesa dell’impero e cercando di favorirne la formazione religiosa (in senso cristiano questa volta). Ambedue gl’imperatori si trovano così nel passaggio tra antichità e medioevo. Solo che nel “rinnovatore e distruggitore delle leggi tramandate e dei costumi antichi” [Ammiano Marcellino], i legami con la romanità già vengono meno, mentre Aureliano li aveva consapevolmente mantenuti.”
Nel consentire agli Illiri, ai Celti e ai Germani l’uso dei loro simboli, Aureliano si atteneva alle leggi e ai costumi antichi di Roma, che aveva sempre concesso alle popolazioni unificate nell’impero la conservazione regolata dei loro culti, dei loro simboli, delle loro civili usanze, purché non fossero contrarie all’ordine pubblico, non turbassero la concordia e non attentassero alla pace della Universa Res Publica.
Ancora riportiamoci alla trattazione di Altheim: “La conversione di Costantino al cristianesimo sembra significare, nel quadro della storia, qualcosa di totalmente nuovo. Per quanto riguarda il cristianesimo, il moto era andato fino allora dal basso verso l’alto. Questa volta il rivolgimento comincia dalla sommità. Il signore dell’impero romano, l’uomo più potente del suo tempo, ne favorì il progresso.”
Non solo ne favorì il rapido progresso, ma convenne con l’ingenito vizio, insopprimibile, dell’intolleranza di quella setta; molto esplicito il Gibbon: “La chiesa delle origini sdegnava come empia e idolatra qualsiasi forma di culto all’infuori della propria; e avveniva che i nuovi convertiti cristiani respingevano con disprezzo quelle che ritenevano le superstizioni della propria famiglia della propria città e della propria provincia e così si trovavano uniti in modo indissolubile a una comunità che assumeva ovunque un carattere diverso dal resto del genere umano.” Intolleranza, cioè la rigida chiusura nei confronti di tradizioni differenti da quella che si accetta come propria, se non addirittura l’insofferenza, il rifiuto. Costantino assecondò anche tutto questo, ch’era il rovescio della generosità e munificenza insite nella tradizione della gens romana. Era nel suo carattere dispotico favorire un culto intollerante, incoraggiando i prodromi d’una ossessione, d’un assillo che avrebbe traviato e sgretolato il mondo dell’ UOMO : la propaganda religiosa, la missionologia. Questi sono gli indizi, anzi i dati su cui si fonda il nostro convincimento che le visioni del terribile ‘santone’ non erano altro che raffinata propaganda cristiana studiata e prodotta in una dispotica corte e agghindata di orientaleggianti affabulazioni.

MONOGRAMMA TRATTO DALLE PRIME TRE LETTERE
DELLA PAROLA IHΣOYΣ SUI SEPOLCRI DEI PRIMI CRISTIANI

MONOGRAMMA COSTANTINIANO TRATTO DALLE PRIME DUE LETTERE
DELLA PAROLA XPIΣTOΣ SUI LABARI E GLI SCUDI DELL’ESERCITO
Per potersi dedicare alla nascente latria e farla progredire (a quel tempo i cristiani, anche se cresciuti di numero, non raggiungevano ancora il dieci per cento della popolazione in tutto l’impero) Costantino uscì dai confini sacri del pomerio di Roma, abbandonò l’Urbe e, come già detto, ampliò Bisanzio imponendo alla città il suo nome, Costantinopoli (dal 1930 il nome ufficiale è Istanbul, così volle Atatϋrk). Scrive Jacob Burckardt: “Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e la statua di Τύχη, personificazione divinizzata della città, dovevano essere oggetto di un vero e proprio culto.” Il superstizioso despota, sovvertitore della romanità, però non distruggeva gli antichi templi, li trasformava in musei. Ci chiediamo: nel tempio di Τύχη e alla sua statua, menzionate da Burckardt, veniva celebrato e dedicato ancora un culto? Erano quelli il tempio e la statua della dea protettrice dell’antica Βυζáντιον, la dea Fortuna dei coloni di Megara, solo che, a quei tempi, non esisteva più l’antica statua della dea dorica, ma un simulacro con il capo turrito, d’arte ellenistica, molto orientale; la statua aveva un bambino tra le braccia, ed era simigliantissima a una Vergine del nuovo culto. L’autocrate doveva esserne soddisfatto, perché quella statua non turbava il suo animo superstizioso e nel contempo appagava il suo sincretismo.
