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LA GENTIL NINFA SAGACE

                        

La lince - Segreto, solitudine, silenzio -
La lince - Segreto, solitudine, silenzio -

 

LA GENTIL NINFA SAGACE   

 

 

  Nel mondo tradizionale la natura era non "pensata" ma vissuta come un gran corpo animato e sacro, "espressione visibile dell’invisibile". Le conoscenze intorno ad essa erano date da ispirazioni, intuizioni e visioni, e venivano trasmesse "iniziaticamente" come "misteri" vivi.                                              

J.EVOLA

 

  

   L’aggettivo fiero, nella lingua latina fĕrus (entrambi connessi a fĕraae, f., fiera, bestia selvaggia), ha in italiano il senso positivo di dignitoso, sdegnoso, ardente, altero e anche severo; e poi, in senso negativo, nell’uso letterario, di terribile, spaventoso, orrendo, selvaggio.

   L’aggettivo feroce, nella nostra lingua ha soprattutto il significato di crudele, inumano, spietato, violento, brutale. Nella lingua latina fĕrox, ocis, qualificativo 1) di uomini, in senso buono, impetuoso, fiero, ardito, valoroso, forte, intrepido, baldanzoso; in senso cattivo, feroce, inferocito, duro, orgoglioso, superbo; 2) di animale, indomito, selvaggio, focoso; così nel vocabolario latino. Nella lingua latina, e quindi negli autori antichi, predominava il senso di animoso, prode, altero, orgoglioso sull’altro di crudele, sanguinario, ritenuto secondario. Nella lingua italiana ha prevalso il senso negativo riferito alle inclinazioni e ai costumi umani, mentre il senso positivo si è conservato nel vocabolo fiero. L’aggettivo fĕrus, a, um, invece si riferisce soprattutto agli animali selvaggi, indomiti e feroci, e si connette, nel senso, strettamente al sostantivo fĕraae; così anche fĕrālis, e.

   Da quanto su espresso, ne consegue che gli aggettivi fiero, feroce, in latino fĕrox, vengono perlopiù usati, sia nel senso buono che nel senso cattivo, per caratterizzare moti e disposizioni dell’indole umana, specie nel loro esternarsi. Ed ancor più questo è evidente nell’ uso latino del qualificativo fĕrox. Infatti, se ben consideriamo, non possiamo attribuire alla natura tali qualificativi. A parte la constatazione che l’uomo moderno ha perso ogni contatto con la natura vivente, cioè “non ‘pensata’ ma vissuta come un gran corpo animato e sacro, espressione visibile dell’invisibile”, come scrive l’Evola, per cui i fenomeni della natura non hanno più per l’uomo d’oggi alcun “significato spirituale, fissati unicamente da relazione matematiche”, i qualificativi che stiamo esaminando, si ripete, le sono assolutamente estranei. Caratteristica della natura è la ‘spassionatezza’, non partecipando nei suoi ‘fenomeni’ (da ϕαίνω, apparisco), anche i più straordinari e sorprendenti, di alcun sentimento; né essa agisce in base a preferenze, apprensioni ed altro. La natura non è né l’uno né l’altro, essa è neutra, in tutto e per tutto. Se quest’oggi miriamo contenti un cielo sereno, è semplicemente perché esso è senza nuvole, così all’opposto proviamo raccapriccio per un fosco rannuvolamento. La natura soddisfa solo alle ‘sue leggi’. Anche la perturbazione atmosferica, quello che definiamo brutto tempo risponde a leggi meteoriche, vale a dire che si pongono in essere o hanno luogo in alto. Quanto detto analogamente vale, inoltre e sul piano più elementare, per i comportamenti istintivi, per esempio quelli di una bestia selvaggia; essa sarà mansueta se non viene spaventata, ma diverrà aggressiva se in preda al timore, prevalendo, nel caso, in lei illimitato l’istinto di sopravvivenza, un automatico precipitarsi contro, un repentino scatto. Inavvedutezza della vittima, soprattutto se fornita di ragione. La Natura non può essere messa in discussione, è una realtà oggettiva, incontestabile, in sé completa. L’uomo moderno incapace di liberar la sua mente dall’ ottusità dei sensi corporei, tenta di avvicinarne le leggi, con gran dispendio di materiali e di energie, basandosi sui dati fornitigli dal suo grossolano materialismo e dalle sue incerte, probabilistiche scienze.

   Contestabile invece è il comportamento umano, che può distinguersi da individuo a individuo e esser soggetto a variabilità pur nel singolo. Una condotta irreprensibile, spontanea o studiata che sia, non sarà mai censurata. Una condotta impulsiva, un agire sconsiderato, senza riflettere, può provocare reazioni o conseguenze addirittura pericolose. Nell’uomo, a meno che non abbia raggiunto uno stato di imperturbabilità, si agitano istinti, passioni, ambizioni, sentimenti mutevoli, volubilità, incostanza: gli svariati io, sovente in lotta tra di loro. Si può trovare l’uomo fiero, ardito, valoroso e l’uomo invece duro, orgoglioso, superbo; come anche una mescolanza di valore e superbia. Ma, se la condotta umana eccede ogni giusta misura e sbocca nell’irresponsabile hybris, l’individuo precipita nell’istintività belluina, nel brutale, nell’inumano. S’ asservisce a ferino stato; perde il privilegio d’ esser libero, si trova nella condizione di schiavo. La modernità, come ancor più si mostra nei tempi ultimi, ha propinato all’uomo filosofie e ideologie perniciose e scientemente perfide, onde pervertirne l’animo e indebolirne la volontà. Una volontà fiacca non mira ad alti ideali, non alimenta virtù, non mantiene vive e attive le coscienze. Si sventola senza ritegno la bandiera del disimpegno; si supplisce incongruamente con il proprio comodo e con un falso benessere! Il disordine più non spaventa. La perversione e i comportamenti anormali vengono celebrati; quotidie proclamati, festeggiati con solennità in ricorrenze annuali; con spocchioso anglicismo, Pride Parade. L’efferatezza viene commiserata, considerata con indulgenza di pena.

   Dov’è la libertà? Sregolatezza è abuso! Malcostume e libertinaggio raffigurano il veneficio d’una comunità civile. Veleno per le menti, per l’immaginazione, per i buoni propositi, per la riflessione pacata, quindi per la ragionevolezza, per il giusto equilibrio. E in questo disfacimento, nella dissoluzione di ogni sano ambiente sociale dovremmo ravvisare la libertà?

   Questa sarebbe la libertà degli umanitari, dei filantropi, degli illuminati democratici, dei fautori dell’assolutismo democratico? Dei bellicosi, più adeguato sarebbe dir belluini, efferati esportatori del verbo democratico? Fautori ipocriti del livellamento a oltranza, e d’ogni sorta di promiscuità, anche la più putrida, la più ferale.

   Lo studioso americano Moses Israel Finley nota come l'isola di Chio, che secondo Teopompo fu la prima città ad organizzare un mercato degli schiavi, fu coinvolta in un precoce processo democratico (VI secolo a.c.) e conclude affermando che «un aspetto della storia greca, in poche parole, è l'avanzare passo dopo passo della libertà e della schiavitù». (Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. SCHIAVITU’ NELL’ANTICA GRECIA)

   Non conosciamo gli scritti dell’etnologo statunitense, ma la notizia è indubbiamente esatta avendola egli attinta dallo storico Teopompo che nacque a Chio circa due secoli dopo l’avvio del processo democratico, né meraviglia che con la democratizzazione si avviasse anche un formidabile business di traffico e mercato degli schiavi .D’ altronde, anche con Solone, che non molto tempo dopo porrà le basi della democrazia ateniese, s’incrementò un sistema economico schiavistico per la sopravvenuta necessità di affrancare le classi lavoratrici, onde ottenere una più massiccia partecipazione popolare. Anche prima di questi fatti, nell’antica Grecia esisteva la condizione servile, ma il servo era a tutti gli effetti un membro della casata e per nulla ritenuto una presenza spregevole.  Diamo un’occhiata ai tempi omerici.

   Ulisse, approdato finalmente a Itaca, si è fatto riconoscere dal padre Laerte. Gioiosi si preparano al banchetto che si terrà nel rurale albergo del vecchio re, dove Telemaco con i servi pastori Filezio ed Eumeo stanno preparando una festosa cena. Sedevano già tutti a mensa, quando apparve, oppresso dagli anni, Dolio con i figlioli stanchi dal lavoro. Ulisse e Dolio si riconoscono immediatamente e l’eroe invita il servo a sedere alla mensa, “affrettati, gli dice, abbiamo tutti fame, ma non volevamo cominciare la cena senza voi”. A quella mensa sedevano dunque i principi di Itaca, la fantesca Sicula che accudiva la modesta dimora e i famigli che condividevano con Laerte la mensa e il sonno. Tra essi il vecchio Eumeo, che rapito al padre, re dell’isola di Sirìa, ancor fanciullino da predoni Fenici, era stato venduto a Laerte e cresciuto nella casa del re insieme a Ctimène, la figlia di Laerte e Anticlea. Omero descrive Eumeo come un servo virtuoso e modesto, in armonia con il mondo divino e lo chiama apposta il ‘divino porcaro’. Questo racconto potete leggerlo nel canto XXIV dell’Odissea. Ma già nel XVII canto Omero aveva descritto la schiavitù come una disgrazia, facendo parlare così il servo regale, δῖος ϕορβός : “Zeus dall’ampio sguardo/metà del pregio suo toglie al mortale,/allor che servil giorno/sulle spalle duro gli grava.”

   Il servile giorno è duro, perché toglie all’uomo il pregio della virtù. La fatica fisica, ma pure quella cerebrale o d’impegno mentale che dir si voglia, protratta nell’arco della giornata, dei mesi, degli anni, illimitatamente assoggetta l’uomo che a sua volta vi si adatta o addirittura vi si sottomette. In tal modo l’uomo finisce col nutrirsi solo di terra. Senza coltivare la capacità di collegarsi ad una influenza superiore, al divino, e quindi di conquistarsi il proprio carattere, quello che orienta la realizzazione di una volontà piena e idonea ad affermare la propria interiore libertà, quel fuoco dell’intelletto – Νοῦς – che non si rassegna a subire il destino, si è in schiavitù.  Eumeo, figlio di re, si era lasciato catturare dai predoni, così proprio come l’uomo moderno; con una differenza però, il ‘divino porcaro’ non si nutriva di spirito ribelle, ma riconosceva la opportunità di avere un interiore Reggitore o, in mancanza, di servirlo nella persona di un Padrone con assoluta fedeltà per serbarsi in armonia con il mondo e con il divino. Il sublime medico Teofrasto Paracelso, nella prima metà del ’500, sosteneva che la scienza degli antichi fu di gran lunga superiore alla nostra: “Essi riponevano infatti il loro tempo nell’immaginazione e nella fede, ed in quel modo trovarono e dimostrarono molte grandi cose. Ma ora non si trova più tra gli uomini tanta immaginazione e fede, perché l’uomo si è rivolto a quel che giova alla carne e al sangue e fa quel che vogliono gli appetiti, occupandosi solo di quello.” In queste righe Paracelso delineava la condizione dell’uomo-schiavo quell’andrapodo, oggi pullulante e impudente,ma anzitutto privo di viva immaginazione e di fede conoscitiva.

   Da Omero veniamo a tempi a noi più vicini, andiamo a dare una sbirciata alla dimora della ‘familia rustica’ di Cato Maior il Censore, ai tempi di Roma antica; di quel Catone, che a noi è tanto simpatico, tra l’altro combatté contro Annibale, il “nemico incessante”; di quel Catone che per la sua estrema rettitudine civile si attirò tante antipatie e la nomea di schiavista. Tutti sapete che il termine qualificativo catus ha il significato di accorto, abile, in Ennio e Varrone anche di acuto. Un signore che vien tramandato e ricordato con tale qualificativo, potete mai ritenerlo un volgare schiavista? Lui, scrupoloso e fedele osservante del Mos Maiorum? Plutarco, che non era uno storico e tendeva al romanzesco, nella biografia catoniana dissemina, nonostante pagine esaltanti, molte malevolenze, anche volgarmente grossolane, raccolte in quei due secoli e mezzo circa che lo separavano dai tempi del Censore. Cicerone, più prossimo al nostro, ne celebra nel De Senectute la romana austerità e ne ricorda il suo apprezzamento per la “severità condita di cortesia” di Fabio Massimo, il Cunctator al cui seguito il giovanissimo Catone aveva combattuto; tra le tante gli fa pronunciare anche queste nobili parole: “verum etiam quia conscientia bene actae vitae multorumque bene factorum recordatio iucundissima est.”    

   Nell’opera LA RELIGIONE ROMANA ARCAICA, trattando della dea Feronia, Dumézil annota: “Lo schiavo è un uomo? La sua riduzione in schiavitù lo ha reso incapace, come un morto, di ogni azione giuridica: servitus morti adsimilatur, diranno i giuristi. Secondo un’opinione riferita da Varrone (R.R.1,17,1), gli ‘strumenti’ dell’agricoltura sono di tre tipi: instrumentum genus vocale et semivocale et mutum, vocale in quo sunt servi, semivocale in quo sunt boves, mutum in quo sunt plaustra. Si rilegga soprattutto il terribile capitolo 21 del Catone di Plutarco, e si comprenderà ciò che rappresentava la liberazione dalla schiavitù: un vero e proprio passaggio giuridico dal nulla all’essere, il passaggio morale da una forma superiore di animalità alla condizione umana.”

   Il capitolo 21 della biografia scritta da Plutarco non rende giustizia a Catone, quel Catone plutarcheo, schiavista e insensibile, non è il vero Catone, che al contrario si preoccupava della salute degli schiavi, delle giuste razioni di cibo anche in proporzione alla fatica che essi sopportavano, al loro abbigliamento estivo e invernale, e soprattutto alla loro educazione. Acquistava i piccini per tirarli su bene ed educarli onde potessero raggiungere la consapevolezza di sé e quindi con l’età uscir fuori da quella triste condizione; è falso che li trattasse come cuccioli o puledri come sostiene il poligrafo greco. Ma vero è, come già sopra accennato, che fosse terribile la condizione dello schiavo. Terribile ieri, ma non più di oggi. Si comprende anche cosa potesse rappresentare la liberazione dalla schiavitù: un vero e proprio passaggio giuridico dal nulla all’essere, da una forma superiore di animalità alla condizione umana. Questo è vero, c’era a quei tempi questa possibilità, i casi erano anche frequenti: il miracolo dei ‘divini porcari’! Per il verificarsi di tal evento, ieri come oggi, però occorre che si confermi un ritorno indispensabile dell’uomo alla viva immaginazione e alla fede conoscitiva di cui parlava Paracelso; perché, ancora a suo dire, non è sufficiente il solo spirito naturale, questo infatti guida solo l’intelligenza naturale, ma occorre che venga opportunamente suscitato, perché l’Uomo sia, lo spirito divino che in lui guida la conoscenza divina; è questo secondo spirito che dà la vera vita.

   Ma nelle tenebre del materialismo o peggio nel caos del nichilismo anarchico, in un tempo in cui il Reggitore, sia interiore che al di fuori, è assente, in cui il libertinaggio è contrabbandato come libertà ed è vietato di operare al giusto Censore, chi si salverà dalla forzata bieca schiavitù dell’epoca oscura? ‹Posseggo la potenza del nucleare, assoggettatevi, schiavi! Io sono il vostro dio, non avrete altro dio al di fuori di me! Dormite, dormite e faticate! Faticate e poi consumate, consumate, consumate, sia questo il vostro riposo e il vostro dopolavoro! Così la pax nucleare vi sarà assicurata e, se volete, anche l’ibernazione›.

   La fatica! Radice del termine è fats/fets; fètsus-fèssusstanco, spossato, prostrato, indebolitofatiscor, eris, fatisci, fendersi, dissolversi e fig., mancare, venir meno, esaurirsi, stancarsi. E a qual fine? ... Ancora la voce aliena: ‹Frammisti e stanchi, dissolvetevi nel caos, cari fratelli e sorelle!›.

   Plutarco era già uomo del mondo moderno, da tempo i Greci erano nella modernità, e non era in grado di ravvisare la terribilità di questa condizione cui abbiamo testé accennato; egli era lontanissimo dall’ immaginarne i rimedi, eppure aveva tra le mani o meglio sotto gli occhi l’esempio del Censore, il quale certamente non voleva un mondo popolato da grandi masse di schiavi e cercava, per quel che era in suo potere, di rimediarvi aiutando e sforzando i suoi schiavi a sottrarsi alla condicio et fortuna servorum, accompagnandoli dalla lor sorte selvaggia allo stato civile. Ricongiungiamoci al Dumézil: “Feronia non è una divinità specifica della liberazione degli schiavi, per la quale Roma disponeva di appropriate procedure (vindicta, censu, testamento); poiché però consente in ogni cosa una domesticazione dell’elemento selvaggio, essa presiede religiosamente a un mutamento sociale che può presentare dei pericoli sia per colui che era instrumentum vocale, sia per il gruppo in cui ora esso si integra.”

   Feronia era quindi, a ben dire di Dumézil, l’ente divino che poneva le forze della natura selvaggia al servizio della civitas, ‘neutralizzandone i pericoli’.

   Abbiamo constatato come i qualificativi fiero, feroce, indicanti, soprattutto per i latini, moti e disposizioni dell’indole umana, venissero adoperati sia per le nature buone che per quelle cattive, avessero quindi la proprietà di mutare il senso.  E questo, perché? L’uomo può uscir fuori dalla selva oscura; dalla selva selvaggia e aspra e forte/che nel pensier rinova la paura!.  E viceversa, l’uomo può tralignare fino a perdere, all’estremo, caratteri e qualità umane.

   I luoghi di culto della dea Feronia si trovavano lontano dagli abitati, sovente presso corsi d’acqua, nei boschi, e sempre le veniva dedicata una fonte d’acqua salutifera. Raro un silenzio, un solitario orrore/D’ombrosa selva mai tanto mi piacque.  In questi sereni versi del Petrarca si può avvertire l’eco d’un ambiente silvestre animato da un culto relativo ai misteri di Feronia, ove gli uomini un tempo incontravano la Dea, che lieve, senza gravità, veniva fuori dal solitario orrore della natura selvaggia a procurar loro salute e diletto. Questo è Feronia, un cambiar di stato interiore, e, nel caso espresso dal poeta, più semplicemente quel silente, solitario tescum toccò il suo stato d’animo, la sua condizione di spirito. Feronia d'altronde è anche una Ninfa delle fonti salutifere. Per ritrovare infatti il proprio sé smarrito, per ricongiungersi al nucleo ‘geniale’ della propria coscienza, bisogna anche rintracciarne la fonte, quell’unica da cui sgorga l’acqua della salute.

   Varrone (L.L.7,10) scrive: “et quod loca quaedam agrestia quod aliquoius dei sunt, dicuntur tesca.” E spiega che tesca o tuesca deriva da “tuēri, perchè vi si fanno o vi si custodiscono i misteri.”  I misteri di come da una natura orrida ci si apra il varco a una natura ridente, amena. Tra desolate sponde/scorre agl’inizi il fiume,/orride, incolte sponde!/Con instacabil corso/dirozzerà quella selvaggia proda;/affioreranno da cupe scogliere/tra le scoscese rupi/dolcissime riviere;/da allor, lunghesse,/piene d’incanto/siepi odorose/s’aduneranno, in fiore. E ogni grande, rinomato fiume, a monte, ha la sua essenziale sorgiva. Da quell’inesauribile sorgiva il genio fluviale, nel lungo suo corso, attinge di continuo l’energia atta a dirozzar la selvaggia sua natura e, serbando in sé sempre il primitivo vigore, a modellar le orride rupi, sì da farne amene, incantevoli riviere. Questo, Feronia insegna all’uomo ancor oggi, e un tempo gli offriva nei suoi adorni ninfei anche l’acqua della salute. Simbologie grandiose, attraverso le quali saggi Uomini, interpreti e rappresentanti del divino, manifesti rendevano i mirabili segreti alle genti ben disposte.

   Feronia…un suono che profondamente conturba, anche perché l’orecchio vi pone assoluta attenzione…Trepida il battito del cuore…la mente si carica di apprensione; sta per accadere qualcosa! … Sta per balzar contro, dalle fila dell’oste nemica, il figlio mostruoso…Erilo! Il figlio a cui la madre nascendo aveva dato tre vite…Che per tre volte poteva distendersi sulla terra…cadavere prodigioso, e tre armi poteva maneggiare! … Tutto rimane sospeso, in un silenzioso solitario orrore… Urge mutar condizione… cambiare   vita; come un abito vecchio e consunto gettar via il vano orpello, il falso io di ieri, la falsa apparenza di quest’ultima ora… Perché venga incontro benevola e favorevole la Madre, colei che sempre si rallegra del suo verde bosco, occorre ucciderne, così come racconta Virgilio fece Evandro (Aen. 8, 563-567), il figlio, il  prodigioso mostro regale, togliergli le tre vite, spogliarlo della triplice arma e spingerlo impietosamente nel Tartaro.

   È questo il motivo per cui rimane difficoltoso porsi ad esaminare etimologicamente il nome Feronia. Il Dumézil ne deduce l’etimologia dal comportamento della stessa divinità, che, a suo parere: “…induce a far derivare il suo nome dalla parola che in latino è fĕrus, con la ĕ breve, ma che in tutte le altre lingue indoeuropee in cui compare presenta una ē lunga, gr.ϑήρ, ϑηρίον, antico slavo zvĕri, lituano žvėrὶs: anche la ē di Feronia è lunga (le varianti greche con ε, ο, sono palesemente suggerite da etimologie erronee), e possiamo pensare che, a differenza dal latino, il linguaggio italico, sabino senza dubbio, in cui il nome si formò, avesse generalizzato il vocalismo lungo, come il greco e il balto-slavo. Il primo significato di ferus è ‹‹non cultus, non domitus›› (Thesaurus), ‹‹agrestis, silvester, indomitus, nullo cultu mitigatus›› (Forcellini), e Paolo Diacono glossa ferus ager con ‹‹incultus››.” E infine, lo studioso si chiede se “non ci si trova, a tal punto, nell’ambiente gradito a Feronia, ove essa orientava le forze a beneficio degli uomini?”.

   Noi non contrasteremo questa dotta analisi del Dumézil, ma ci sovviene anche d’altro racconto. In tal caso è Dionigi di Alicarnasso (Antiq.Rom.L.II,49) a raccontarci che, quando Licurgo dette agli Spartani le sue rigorose leggi, un gruppo di questi emigrarono in cerca di una nuova patria. Stanchi del viaggio, invocarono gli dei perché indicassero loro un buon approdo. Sbarcati presso Pomezia, chiamarono Feronia quei lidi selvaggi; li chiamarono così perché ut huc illuc ferrentur, cioè erano stati là trasportati dai luoghi da cui provenivano. Ivi elessero a Feronia un tempio.

   Qui ci troviamo a fare i conti con tutt’altra etimologia: ferrentur, terza persona plurale dell’imperfetto congiuntivo nella forma passiva del verbo latino fĕro, fers, tŭli, lātum, ferre, che ha i significati di portare, trasportare, trasferire, trascinare, condurre, e poi anche mostrare, palesare, manifestare, nutrire ecc.

   E Feronia non è forse l’ente divino che porta, trasferisce, guida da uno stato ad un altro? E, ancora, fĕra, la fiera e tutto ciò che è fĕrus nel senso di selvaggio, impetuoso, violento e quindi crudele non è forse quel che viene trasportato o si lascia trascinare da irriducibile, irriflessivo istinto? Oppure accade che questi etimi si incontrano fondendosi tra di loro, e quali allora possono essere i rapporti di derivazione? Qual è la radicale prima?

   E infine, son cose queste che avvengono quando ci si trova ad affrontare i passaggi, ai valichi di confine, alle stazioni di transito? Tutto ciò può altresì verificarsi quando ci si deve aprire un sacro varco verbale o necessita invenire la parola di passo?

   La ricorrenza di Feronia è indicata nel calendario romano alle Idi di novembre; l’autunno è la stagione del raccoglimento, stagione di riflessione, d’affinamento. Stagione adatta a scuotersi di dosso il torpore e propizia ad esercitare le menti nella vivente profondità de l’immaginare, all’autoregolamentazione, cioè alla disciplina delle volontà e degli animi, per bastare a sé stessi e sfuggire così a ogni sorta di schiavitù. Se l’uomo vuol conoscere sé stesso, venir fuori dall’ ottusa inconsapevolezza, deve vincere il torpore che l’ha ridotto in catene, deve guardare alla libertà quale mero strumento di un superiore agire umano, diretto primieramente a temprare le forze dello spirito e a spingerle verso l’alto, per la realizzazione luminosa della propria coscienza e per una ordinata rinascita del vivere umano. Per far questo, occorre innanzitutto che ci si liberi da ogni strania influenza e soggezione; occorre ci si faccia artefici della propria fortuna.

   Ricorreva alle Idi di novembre anche la festa dedicata alla Fortuna Primigenia; per tale argomento rinviamo a quanto scritto precedentemente (Fortuna Manens – L’INAUDITO PLAUSIBILE, nuova pagina); aggiungiamo soltanto una annotazione etimologica. Fortūna, ae, f. (fors), fortuna, sorte – derivano da la radice di ferre (indoeuropeo BHAR – FHAR – FAR – FER), portare, trasportare, trasferire, condurre, nutrire ecc. È un caso che Feronia e Fortuna si trovino abbinate nella ricorrenza del 13 novembre? E anche permetteteci una esclamazione gioiosa. Ma, perdinci, è Feronia che ti conduce, ancora una volta, in uno stato salutare, quello della tua Fortuna Primigenia! Sei risalito all’origine, ma da questo momento tocca a te, e a te solo, far della tua sorte la tua Fortuna Manens. Perdinci, hai realizzato una grande vincita al lotto! Sei sfuggito per sempre ad ogni sorta di schiavitù. Devi forbiti e lussureggianti serti di fiori alla leggiadra gentil Ninfa sagace.

 

 

Una Ninfa già fu, delle propinque

selve leggiadra abitatrice, ed era

il suo nome Feronia.

...   …   …

Sotto la mano della pia cultrice

ricevean nuove leggi e nuova vita

le selvatiche madri, e, il fero ingegno

mansuefatto e il barbaro costume,

del ciel cangiato si godean superbe.

Ed essa la gentil Ninfa sagace

con lungo studio e paziente cura

i tenerelli parti ne nudria,

castigando i ritrosi, e a culto onesto

traducendo i malnati.

V.MONTI, FERONIADE, c.I

 

 

   Il trono di sasso nel bosco di Feronia, accanto alla chiara e fresca sorgente, attende i ritrosi e i torpidi, e pure il tempo di tradurre i malnati a culto onesto.

   Queste righe abbiamo voluto scriverle nude e crude, senza retorica e fuor d’ogni retorica, e dedicarle agli intelligenti ricchi di viva immaginazione e di fede conoscitiva.

 

LA FERONIA
LA FERONIA