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GRAVITÀ E DECORO DEI ROMANI ANTICHI

                         

 

 

GRAVITÀ E DECORO DEI ROMANI ANTICHI

 

 

   Quindi appare che nella scena o tragica o comica non si possono acconciamente produrre se non quelle nazioni che o nel grande o nell’umile siano da violenta passione signoreggiate. Perciò l’opere drammatiche riuscivano molto appresso i Greci, e poco appresso i Latini, quando, non greci, ma latini personaggi s’introducevano; poiché la gravità romana in niuna cosa o pubblica o privata era mossa da sì veemente affetto che avesse potuto nelle pubbliche somma compassione e spavento, e nelle private riso eccitare. Conciossiacosachè, per quanto il mondo si distende, solo il cielo di Roma produce gli uomini e le donne di moti sì composti, di sentimenti sì regolati e di sì temperati affetti, che i suoi figli portan dalla natura quel che gli altri appena impetrano dalla coltura e dall’arte. Dal che si può conghietturare la gravità e decoro de’ Romani antichi, a cui regolamento con la beneficenza della natura una esattissima disciplina, tanto civile quanto militare, concorrea. E non senza ragione, secondo osserva Dionisio alicarnasseo, fu questa terra detta saturnia, come quella ove giusta temperie sì degli elementi come degl’ingegni, che sotto Saturno fioriva, dal regno di Giove fuggendo, s’era venuta a ricovrare. Perciò Plauto e Terenzio ed altri comici dalla Grecia trasportavano in Roma i personaggi di costume alterato, da poter movere il riso. E l’opere dette preteste, ove s’ introduceano romani magistrati, come anche le togate, ove s’introducean persone private, non potean mai portar la romana scena alla perfezion della greca: onde dottamente Angelo Poliziano disse:

 

Claudicat hic Latium, vixque ipsam attingimus umbram

Cecropiae laudis: gravitas romana repugnat scilicet.

 

   E presentemente di ogni altra nazione, del comune commerzio s’è potuto cavare alcuno, anzi più personaggi ridicoli per le comedie, fuor che dalla romana; il di cui cortigiano affettato e lo sgherro eccedono sì poco la comune misura, che riescon freddi ed insipidi. Né si muove il riso se non che dal costume stravagante: il quale, né meno con la violenza del commerzio straniero ha potuto in questa nazione sì penetrare, che l’abbia tratta fuori di quella sua natural moderazione, dalla quale tutte le sue operazione sono d’onestà o composte o velate.

 

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   Lo scritto su riportato è tratto dall’opera Della Ragion poetica del giurista e letterato Gian Vincenzo Gravina (1664/1718), fondatore nel 1690, con il poeta G.M. Crescimbeni, del circolo letterario Accademia dell’Arcadia, schiera di studiosi sollecitata al recupero della classicità contro l’imperversante gusto del barocco. L’ eletto scrittore nel breve ma pregnante brano mette in evidenza una peculiarità essenziale che distingueva gli antichi romani dagli altri popoli, l’imperturbabilità. La tragicità non scuoteva l’animo del romano; ugualmente il comico ed il ridicolo non ne ledevano la ponderatezza e la consapevolezza della propria dignità. Sostiene il Gravina che tali specifiche caratteristiche erano nei romani congeniali, innate; con vigor di sintesi le definisce efficacemente “gravità e decoro”; a tal naturale virtù, non manca Egli d’osservare, s’aggiungeva da parte dei romani anche “un’esattissima disciplina, sia civile che militare”.

 Eudaimonia, atarassia, la filosofia del giardino, lo stoicismo, giungeranno a Roma tardi con gli appassionati di cultura greca, ai tempi di Lucrezio o addirittura di Seneca, frutto di un’alta speculazione filosofica, richiesta o ausilio etico di animi tesi a sottrarsi ad una sopravveniente angoscia esistenziale; mero luogo comunque della intellettualità. Tutt’altro se ci si riferisce alla pura romanità: …per quanto il mondo si stende, sotto il cielo di Roma produce gli uomini e le donne di moti sì composti, di sentimenti sì regolati e di sì temperati affetti, che i suoi figli portan dalla natura quel che gli altri appena impetrano dalla coltura e dall’arte. Il Gravina delinea qui il modo e la forma sostanziale di essere dei Quiriti. Il romano ha dentro di sé un sovrano, superiore principio, una autonoma auctoritas che nel mondo esterno si manifesta per l’appunto nel sembiante grave e decoroso del Vir, nel modo di apparire gentile e onesto delle nobildonne. Il temperamento ingenito, profondamente radicato e direttamente scaturente da antichi predecessori, i discendenti di stirpi iperboree.

   Riportandosi a ciò che scrisse Dionisio di Alicarnasso il Gravina afferma che questa terra italica fu detta saturnia perché quivi dura una “giusta temperie sì degli elementi come degli ingegni”, cioè una suprema naturale capacità nel comprendere e nel realizzare dell’intelletto umano, oltre al dimorare in un ambiente provvidenzialmente temperato, ove non si verificano eccessi. Pertanto, neanche era dato sulla scena, o tragica o comica, “acconciamente produrre” opere drammatiche che avessero “potuto nelle pubbliche somma compassione e spavento, e nelle private riso eccitare, quando, non greci, ma latini personaggi s’introducevano.”  Per il rispetto del decoro e della gravità romana i poeti tragici e i grandi comici come Plauto e Terenzio ed altri “dalla Grecia trasportavano in Roma i personaggi di costume alterato”. Tale consuetudine drammatica è pervenuta anche nella letteratura italiana, come già il Poliziano annotava ai suoi tempi: non abbiamo nemmeno attinto all’ombra della fama Cecropia. Alla letteratura italiana sono mancati infatti i grandi comici eccitatori di riso e sono mancati dei grandi tragici; ad eccezione dell’Alfieri che la scena tragica se la impose. Tramanda Aulo Gellio che il poeta italico Nevio, dimorante in Roma e che, alla maniera dei poeti greci, aveva la spregevole abitudine d’insolentire ed oltraggiare illustri cittadini della repubblica, venne per ordine dei triunviri messo in prigione. Scrisse in carcere due commedie per riparare a quelle sue colpe e alla petulanza con cui aveva offeso la dignità delle persone. Per tale sua resipiscenza fu liberato dai tribuni della plebe e la pena del carcere gli fu commmutata nell'esilio.

  In sintesi, i Romani salvaguardavano la loro austerità, la dignitas, aureo retaggio primordiale, e impedivano, con rigorose prescrizioni e un’opportuna tutela, le pubbliche offese, punendo “qui malum carmen incantassit” per sprofondare altri, seppur di corretto ed esemplare costume, per astio, odio o personale vantaggio nell’ infamia e nella vergogna. Si riteneva giusto infliggere la pena di morte se con il malum carmen si giungesse addirittura ad operare un vero e proprio maleficio. La Romanità era una reale forza evocatoria, una realtà solare, all’interno della quale imperavano potenze divine. A tali supreme tensioni metafisiche erano tenuti ad elevarsi i Quiriti e indefettibilmente e indeclinabilmente i Reggitori de l’Urbe. Un intero popolo dedito ad una esattissima disciplina. Con interna spontaneità, congeniale, il vir romanus assumeva a regola, per realizzarle nella propria vita e a vantaggio della Civitas intera, quelle norme superiori, le norme del Mos Maiorum.

 

   Ed il tempo è trascorso, una innumerabilis/annorum series, la oraziana fuga temporum, ma nulla mai ancor s’è visto maggior di Roma! La innata religiosità e dignità dei suoi figli sono nella memoria del mondo; e ancor, l’impresa sovrumana d’aver riportato in un mondo in declino, che andava imbarbarendosi ed oscurandosi, l’ordine divino, il potere della giustizia e la luce della civiltà. E fin quando sono uomini che a tanto aspirano, con gravità e decoro la Romanità vive.