BEFANÌA AFRICANA
BEFANíA AFRICANA
Una comunità d’africani, forzati a migrare nel nostro paese e in preda a grande incazzatura, si è rivolta ad un rampante gruppetto di confrati macumbeiri, pur essi inconsapevolmente migrati in questa sfatta repubblica della Santa Accoglienza, per procedere con cerimoniali di magia nera nei confronti di una tal COSACCIA, così la definiscono, che ritengono responsabile della rovina loro. Questi malcapitati Afri fanno la fame e son costretti ad elemosinare proprio come i nativi, ormai qui ridotti con le pezze al sedere. Lamentano, questi ingenui Afri e con rimpianto, che, dimorando e tanto meglio nel loro paese, erano ben lontani dal sospettare così malvagio inganno. L’oggetto del loro odio è la letale mistica laica “integrazionista(?)” impeciata in stranii interessi demagogici e affaristici. Tal deformante COSACCIA ricopre un’alta scranna, onde inculca nelle masse dei gonzi, con marxvaticanesca ostinazione, manco fosse la papessa Giovanna, la suprema bontà della Santa Accoglienza. “È una maledetta scafata!” -ci dicono gli Afri- “Noi non riusciamo a sopportare quest’onta, vogliamo assolutamente vendicarci. Che vada ai cani!”. Insomma ci han chiesto un aiuto, perché intendono far conoscere al mondo intero, e dare così un esempio incisivo, la loro vendetta. “Partecipate anche voi” -ci esortano- “a questa macumba e fate intervenire i vostri amici e parenti. Più saremo e più efficace sarà quest’opera di ripristino della normalità. Il libro della natura è sconvolto, mette disordine l’abominevole megera!”. Ci hanno trasmesso il testo cerimoniale approntato dai maghi ingaggiati. Un testo che sfidava davvero gli orrori dei più spaventosi racconti di Lovercraft… Noi ci siamo rivolti a dei probi fraticelli, produttori d'un ottimo Malvasia, molto interessati allo spiritismo e altresì nemici d’ogni diavoleria espatriante e di fratricida sradicamento, che bonariamente, ma pur severe, hanno addolcito il macabro rituale macumbeiro, così:
MACUMBA ALLA MALVASIA
Cucite a mano una pupattola
Di pezzuole rose dai tarli e a toppe;
A BuffaLoffia appieno rassomigli,
Con laida smorfia e il risolin bugiardo.
Spruzzate poi d’aceto e d’olio rancico
Quell’intanfito concio!
L’arrazzata di bronx, di giungla e di far west
Tre volte nominate:
Puah! Via! Via! zombie zoccolante!
Strige, Stoppaccio, BruttaLoffia!
Poi gettate in un mare scoglioso
Quel cencio gualercio e inacidito;
Lasciate che il relitto pernicioso
Via se lo porti il mare, in gran burrasca!

A SCUOLA DAL PROFESSOR TEBOGO
Passeggiamo nel parco, tra vecchi lecci e olmi; non c’è vento, ma la giornata è fredda e il sole pallido non scalda. Uno scricciolo si leva in volo al nostro passaggio. Il professor Tebogo Oluwafemi Tani è una persona tranquillissima, conosce bene l’italiano ed è un ottimo filologo, scrive poesie in lingua kikongo, una parlata Bantu; attualmente vive in un villaggio di cui non siamo riusciti ad apprendere il nome, nella regione della foce del fiume Congo. Il professor Tebogo è un uomo colto e conosce le letterature di quasi tutta l’Europa. È piacevole stare ad ascoltarlo, dalla sua gola potente e dal suo palato vengon fuori accenti che ci trasmettono voci e suoni della natura tropicale. È serio, nel contempo non manca di essere anche un po’ faceto. Soggiorna in Italia, dall’Italia poi si recherà in Francia per motivi di studio. È rimasto molto turbato dalla vista dei suoi connazionali che migrano nel nostro paese senza una soddisfacente prospettiva. Si chiede amareggiato quale possa essere il loro futuro. Ma poi, sorvola; si lascia andare a considerazioni più vaste, per esempio, non gli piace la globalizzazione; “Sarà la rovina dei popoli”, -dice- “dei bianchi, dei neri, dei gialli”. Non comprende l’uso che si fa in Italia della parola “integrazione”. Integrare significa rendere integro, quindi mantenere nella loro natura, completa e intera, l’essenza delle cose e degli esseri viventi. Integro è ciò che non viene toccato, cui non vien tolto nulla della sua natura, perché nulla gli manca. Così ci sintetizza il suo pensiero. Al professor Tebogo non aggrada il commisto. L’integro è l’incorrotto, cioè il puro, lo schietto, ciò che non viene infranto, alterato. Il non corruptus… Sì, il professore ha pronunciato lui quel termine latino! Conosce il latino, ce lo conferma. E conosce anche la letteratura latina. “Disgrazia vuole” -esclama con una certa arguzia- “che tra i vostri politici e ideologi ce ne siano tanti che non conoscono il latino, e quindi parlano male l’italiano. E, perciò, usano a sproposito, tra l’altro, la parola integrazione. Promuovono, così, più facilmente e in modo precipitoso il disgregamento dei popoli, la frantumazione delle personalità e delle culture. A me, piace vedere la mia gente crescere, svilupparsi e progredire nel robusto sole dell’Africa. Non vi capisco”. Ci porge il suo biglietto da visita e ci congeda frettoloso con una calorosa stretta di mano.
Questo avveniva alcuni giorni fa in un parco romano; all’incontro eravamo in due, chi scrive e un amico giornalista che abita in quei pressi.
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5 GENNAIO - Questa notte, sulla valle, l’alta valle del Tevere, dopo l’intensa nevicata del dì, il cielo umbro ospita una folgorante Sirio e uno splendido primo quarto di luna. È una di quelle notti in cui, immaginavano gli antichi, nei cieli d’Italia volassero fatate immagini femminili. Abunda, Opulentia, Strenia, Laeta, Salubria, Venusta, Satia, Donora…e tante altre del corteo fascinoso della splendente Diana. Tutte generose largitrici di doni.
Il dono! Sia spontaneo! Il dono che si dà, si offre con il cuore, senza voler nulla in cambio, senza baratto.