L’ANTRO DEI LUPI L’ANTRO DELL’UOMO
L’ANTRO DEI LUPI
L’ANTRO DELL’UOMO
Tertia post Idus nudos Aurora Lupercos
Aspicit et Fauni sacra bicornis eunt.
Ovidio
“Si dice che già allora si celebrasse sul Palatino il nostro Lupercale e che il monte fosse chiamato Pallanzio, poi Palatino, da Pallanteo, città dell’Arcadia. Là Evandro, che discendeva dalla stirpe degli Arcadi e aveva occupato da gran tempo quei luoghi, introdusse tale festa portata dall’Arcadia con l’usanza di giovani che correvano nudi celebrando Pan Liceo, i Romani lo chiamavano Inuo, con giuochi sfrenati.” Livio,I,5.
“Lupercalia dicta quod in Lupercali luperci sacra faciunt. Rex, quom ferias menstruas Nonis Februaris edicit, hunc diem februatum appellat. Februum Sabini purgamentum, et id in sacris nostris verbum; nam et Lupercalia februatio, ut in Antiquitatum libris demonstravi.” Varrone,VI,13. “Ego arbitror Februarium a die februato, quod tuum februatur populus, id est Lupercis nudis lustratur antiquum oppidum Palatinum gregibus humanis cinctum.” Varrone,VI,34.
In forma sintetica Varrone scrive che il giorno dei Lupercalia era da considerarsi februato, perché februo nella lingua sabina ha il significato di purificazione e in tale festività si celebravano riti purificatori:februatur populus, si purificava il popolo. I Luperci girando ignudi intorno all’antico oppidum Palatinum vi purificavano i luoghi, gli uomini, le gregge.
“Hoc, quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est,
ante Phrygem Aenean collis et herba fuit;
atque ubi Navali stant sacra Palatia Phoebo,
Evandri profugae concubuere boves. […]
Tarpeiusque pater nuda de rupa tonabat,
et Tiberis nostris advena bubus erat. […]
Curia, praetexto quae nunc nitet alta senatu,
pellitos habuit, rustica corda, Patres.
Buccina cogebat priscos ad verba Quiritis:
centum illi in prato saepe senatus erat. […]
Verbera pellitus saetosa movebat arator,
unde licens Fabius sacra Lupercus habet.”
da Properzio, Elegie, L. IV, 1
Forestiero, dovunque oggi vedi estendersi la grande Roma, prima del frigio Enea erano colli erbosi; e dove è il tempio a Febo Navale sul Palatino sacro, si sdraiavano nel riposo i buoi dell’esule Evandro. La Curia, superba oggidì delle eleganti preteste senatorie, conobbe allora Padri rusticamente vestiti. Una buccina chiamava alle adunanze gli antichi Quiriti: erano spesso in cento su un prato, il Senato. Vestito di pelli, l’aratore avventava colpi con la sferza di cuoio, donde l’ardito Fabio Luperco oggi celebra i suoi riti.
Ciò cantano, liberamente da noi tradotti, i versi di Properzio.
Livio, Varrone, Properzio, dovendo narrare dei Lupercalia, sono costretti a volgersi indietro e a tempi molto remoti rispetto ai giorni in cui vivevano; a quei rustici vecchi tempi in cui l’antiquum oppidum, quel che sarà il Palatino, era un colle erboso frequentato da pastori con le loro gregge e poi popolato dagli Arcadi dell’esule Evandro. Quegli Arcadi s’incontrarono con le genti del luogo e Pan, antichissimo dio d’Arcadia, non si trovò a disagio in luoghi aprichi affollati di gregge e ronzanti di api mellifere; anzi, quel dio dei primordi, ascoltando il suono dell’amata siringa risuonare nei pascoli solatii e tra selve fitte e segrete, si sentì avvolgere da un’aura fresca e luminosa, e lo schietto labbro sorrise. Da millenni egli era stato anche il dio di quei luoghi, anzi vi aveva felicemente regnato in figura aurea e regale, prima che gli uomini, presumendo pompose vanità, lo avessero raffigurato con zampe di capro e paniche corna. Lui, Inuus, colui che proteggeva le vegetazioni, i selvatici branchi e le mandrie e gli armenti; lui, Fatuus, colui che, sommamente sapiente, conosceva la frase appropriata, la parola fatata, oracolare, il discorso che convince, la predizione che prepara al giusto e opportuno agire. Lui, lo sposo di Fauna, che i saggi con voce più estesa e armoniosa chiamano Fatua, la fata che suggerisce il destino e l’assegna a misura, perché essa è l’anima ancestrale, l’antenata, l’amata che non può mentire. Lui, in quei luoghi era di casa; vi aveva regnato ed in tempi mitici, quando gli uomini non erano ancora stati presi dalla boria della storia e pertanto vivevano una vita luminosa, non angosciata dal precipizio del tempo, non ristretta nell’angustia spaziale. Lui il terzo re, dopo Saturno, suo nonno, e Pico suo padre. Lui, che proveniva dalla terra di Licaone e di Zeus Liceo, il lupo celeste; lui, giunto da quella remotissima terra delle metamorfosi, che era stata abitata da uomini più antichi della luna, le genti del sole, non trasaliva ascoltando le narrazioni del regno di Saturno, l’avo latente, il re dell’età dell’oro; non si meravigliava ascoltando le singolari storie di questa pur prodigiosa terra, non si stupiva delle ardite gesta d’uomini fieri al par di lupi. Lui, sì, era Fauno, un dio con i suoi adetti, i giovani alacri e impetuosi Luperci.
S’era a metà del mese februato e i pastori, gli aratori, Pastores, Aratores, che formavano le fratrie lupercali, cinti i lombi di pelle di capra, avevano fatto schioccare nei campi le februa a mo’ di frusta, due strisce di quella pelle caprina; gli schiocchi, piccioli tocchi sonori sparsi qua e là per i campi, s’erano come adunati in un sol rombo di tuono; la voce del dio dell’etere s’era fatta udire su quei luoghi; ora i campi e la gente dei villaggi, il popolo di Pallante e le gregge e le mandrie erano tutte februate, purificate. I Luperci avevano compiuto i sacrifici.
Avevano dapprima sacrificato il cane; agl’inferi ciò che è infero. Cave canem, guardati dal volgo! È fondamentale proteggersi dalla bassezza e dalla trivialità; e ciò a beneficio soprattutto della civitas, affinché il sordido non s’insinui nell’ animo del popolo sconvolgendone i sobri, semplici costumi; occorre scongiurare che una popolazione schietta, senza malizia, si muti in volgo, in informe moltitudine, in una truce massa.
Avevano sacrificato la capra, l’animale scontroso e testardo, che voracemente divora i giovani virgulti e i teneri viticci, simbolo del selvatico, ma pur simbolo di fertilità e di vita; simbolo dei passaggi, della chiusura e dell’apertura dei cicli vitali; dei ritmi di espansione e contrazione, di ascesa e declino, di morte e rinascita. Simbolo della spontanea, perpetua energia della natura, che emette, libera e sparge, fertilità e vita. Ed era appunto anche il momento della iniziazione. L’uomo terrestre doveva aprirsi alla vita e alla visione cosmica, elevarsi ad una superiore consapevolezza. Scrive infatti Plutarco: “Fatti avanzare due fanciulli di nobile famiglia, alcuni toccano loro la fronte con una spada insanguinata, altri subito gliela detergono con un batuffolo di lana imbevuto di latte. Dopo la detersione i fanciulli debbono ridere.”
L’ordine, il nitore cosmico, s’ annuncia con il sorriso della fanciullezza.
Anche Evandro, il signore del Palatino, aveva assistito dall’alto del poggio alla magica cerimonia ed aveva intravisto correre tra gli ululi della folla e gli schiocchi delle februa agitate dai pastori e dagli aratori, la figura possente e regale del terzo re di quelle antiche genti, Fauno Luperco. Un breve attimo, fuor da ogni limite e tempo, ed Evandro ritrovò i suoi anni di fanciullo e i monti dell’Arcadia più arcana e nell’alta sacrale figura riconobbe il dio della sua fanciullezza. Ripresero sull’alto poggio, sui colli intorno e per tutte le valli i sonori schiocchi delle februa agitate dai villici trasfigurati dal divino empito, e di nuovo s’udì l’ululo del lupo celeste e ancora, nel rigore del tuono, la voce del sommo dio. Evandro sentì il rinvenuto fanciullo gioire dentro di lui, nell’intimo del suo animo, e pensò, se può pur definirsi pensiero il volo d’un alacre uccello dall’ala dorata: “Felice il vivente che sbalzato fuor dal tempo e dall’esiguo spazio, pur se per brevi istanti, intravede il suo dio, la divina lucente realtà ancestrale, perciò non teme la rude possanza del nume della natura e il misterioso lussureggiare della selva, che all’ improvviso, e in un sol fascio, può levarsi al cielo ardendo in fiamme, la vita ridando che presa aveva in prestito dall’inesauribile fucina del sole”.
Tutto il mondo ora riluceva di purità. La serenità del cielo s’era distesa su la terra intera e tra gli esseri terrestri e gli umani in festa. L’Eroe gettò intorno uno sguardo, cercando la figura divina che gli si era così distintamente manifestata. Ma essa erasi ormai espansa in tanta serenità e potenza vibrante di vita: nelle selve, nei prati, nei campi, tra i colli, nelle valli, sui lontani monti innevati e tra le gregge e negli animi rasserenati degli uomini. Tutto in quel giorno era divino, perché gli uomini purificando sé stessi avevano tutto reso nitido e lucente e soprattutto fecondo. Puro il fuoco ardeva nel loro cuore e nel domestico focolare. Ed Evandro immaginò, o forse ebbe una visione, che qualcosa di grande, un divino disegno, stendeva la sua ala d’aquila sui vicini luoghi; vide perpetuarsi nei tempi a venire quel sacro rito e gli uomini, ancor guidati dal lupo celeste, percorrere i campi intorno al monte con la rituale, veemente scorribanda, decorati d’una solare reale nudità e impugnando le februa. Nuda ferant posita corpora veste. (Ovidio) Alteri e nudati, sì, per l’incessante, immane battaglia che il virtuoso deve condurre contro le fiere, annidate nella profondità trascurata e incolta dell’essere e che, se non dome, trascinano il perdente nel precipizio senza fondo del tempo ove lo spazio è ridotto a cieca prigione; nell’ angoscia tormentosa dell’informe. Il Signore del Palatino s’avviò verso la sua modesta regia e rivide per un attimo la figura rude, ma favolosa del padre del re Latino, il quarto re del Lazio dopo il regno di Fauno. Le genti frattanto defluivano dai dintorni del poggio palatino verso i villaggi e le loro dimore. Posò uno sguardo attento a piè del monte, là dove un misterioso antro s’apriva e notò, come sovente da fanciullo in Arcadia, il compiersi di singolari metamorfosi. Spiritali figure in forme di capri e di lupi assumere entrambi i sembianti e, al seguito d’ una superba lupa, rintanarsi nell’antro; e vide ancora una volta il duce di quei manipoli, il dio re, Fauno Luperco, suggellare quell’antro, agitando le februa con la destra mano, nel fragore del tuono, nello splendore del cielo.
Avviandosi deciso verso la propria dimora, luogo stabilitogli dal fato, gli parve di scorgere sulla soglia il figlio del dio, l’ospitale Latino, attenderlo con un benevolo e augurale sorriso. Gli avvenne allora di pensare alla nascita misteriosa di quel re. Era il figlio di Fauno e della dea ninfa Marica oppure del divino Ercole, cui per la bisogna Fauno aveva concesso la moglie? Ovvero era il figlio di Fauno e della iperborea Pallanto? Questo incontro di nomi lo fece riflettere. Pallanteo, la città d’Arcadia, da cui egli proveniva, quello di Pallanto, madre iperborea di Latino e la sua città di Pallanzio su quel colle laziale… Marica la ninfa delle acque splendenti… l’iperborea Pallanto… un sol destino di luce… Il mito, un continuum imperituro, forse, d’epoca in epoca, un oracolare canto, da non potersi spiegare con i mezzi del pensiero umano!
L’Arcade stava per rincasare; dalla sua commossa immaginazione era scomparsa anche la figura regale di Latino; con un sorriso si rigirò e prolungò lo sguardo sui colli intorno, sulle valli e sul fiume lontano; avvertì nel vento un tepido profumo e comprese che il pubblico rito purificatorio aveva giovato agli uomini e alla natura tutta. Guardò fiducioso nei giorni a venire e vide avanzare una primavera lieta e feconda e udì i saturni canti levarsi nella festività gioiosa di Pale; una nuova concorde adunata del popolo dei pastori e delle lanose gregge. Alla prossima, novella fioritura!
