TERMINALIA

UNA FESTA ROMANO - ITALICA
T E R M I N A L I A
FESTA AGRESTE DELL’UMANA CULTURA
ovvero
IL MISTERO DELL’UNIVERSO TERMINE
Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus
Romulus excipiet gentem Mavortia condet
Moenia Romanosque suo de nomine dicet.
His ego nec metas rerum nec tempora pono:
Imperium sine fine dedi.
Virgilio, Eneide I
Plutarco nella vita di Numa narra che questo re edificò per primo un tempio a Fides e a Terminus. Afferma che Fides presiedeva ai giuramenti solenni, mentre Terminus è da considerare un dio del confine; infatti si celebravano in suo onore sacrifici pubblici, ma anche privati presso i confini dei campi. A quei tempi si offrivano sacrifici incruenti, e non di animali vivi, perché Numa riteneva che il dio del confine doveva restare immune dal sangue essendo un dio della pace e del giusto comportamento. Il re riteneva il confine, per la propria forza, un vincolo se rispettato e quindi un sopruso la sua violazione. Pertanto Numa, volendo indirizzare il popolo verso l’agricoltura, ritenendola formatrice del carattere oltre che generatrice di ricchezza, divise il territorio in parti che venivano distinte e segnalate da pietre di confine. Riteneva il re di coltivare così unitamente il popolo e la terra. L’agricoltura infatti infonde nell’animo amore per la pace, ma nel contempo serba le virtù guerriere; per difendere la propria terra l’uomo infatti è determinato a combattere fino all’estremo.
Secondo Plutarco questo era il pensiero di Numa e il modo in cui operò a Roma il culto di Terminus, il dio che presiede ai confini, durante il suo regno. Richiama la nostra attenzione ora quando ci tramanda Tito Livio nel libro I della sua Storia di Roma.
Gli eventi risalgono al regno di Lucio Tarquinio soprannominato il Superbo, per le sue azioni o per l’innata superbia, come precisa Livio. Tarquinio aveva preso Gabi e concluso la pace con gli Equi, rinnovando l’alleanza con i Tusci. Si rivolse quindi agli affari interni. Poiché suo padre Tarquinio Prisco aveva promesso in voto a Giove un tempio sul Monte Tarpeio, il Superbo s’affrettò a realizzarlo, e precisa lo storico romano “in memoria del suo regno e del suo nome”. Riteneva il despota etrusco di eternare così il suo nome e quello del promittente padre. A tal fine il megalomane sovrano dispose la sconsacrazione dei santuari, dei templi e dell’are precedenti, per liberare il colle dalle altre divinità e destinarne l’area al tempio di Giove che voleva grande e sontuoso, secondo il suo sentire asiano e la conseguente particolare rappresentazione della divinità e del culto religioso. Livio narra la leggenda che gli auspici “furono favorevoli alla sconsacrazione di tutti i tempietti, riguardo al santuario di Termine non diedero il loro assenso; e questo fu inteso come un presagio e come un augurio nel senso che il non aver rimosso la sede di Termine e non avere escluso questo solo fra gli dei dal luogo a lui consacrato prometteva ferma e stabile ogni cosa”. A questo, racconta ancora Livio, s’aggiunse il ritrovamento del teschio umano con il volto intatto, da cui poi sarebbe derivato il nome di Campidoglio. Fu ritenuto questo un auspicio d’eternità e quella la rocca dell’impero, la capitale del mondo.
Sottende di certo la leggenda narrata da Livio l’accorta contrapposizione, ben preparata e decisa, del sacerdozio romano, soprattutto degli Auguri, all’ interessata decisione del re di ascendenza etrusca, rivelante la sua propensione orientaleggiante. Contrasto volto appunto a salvaguardare gli Dei Indigeti e il culto romano avito da alterazioni e influssi d’ una religiosità orientale, prevalentemente devozionale e tendente alla monolatria.
I sommari, periochae, che ci sono pervenuti, della parte perduta delle Storie liviane ci tramandano: “Tarquini Gabi direpti – Capitolium inchoatum – Termonis et Juventae arae moveri non potuerunt.” Sappiamo quindi che Juventas e Terminus resistettero sul Campidoglio. Alla prima fu dedicata una aedicula all’interno della cappella dedicata a Minerva nel tempio di Giove O.M. e a Terminus una cappella, sempre nel tempio di Giove e a tetto scoperto, onde la sua divina effige s’ergesse sotto il cielo e s’aprisse all’Universo intero.
Il Dumézil, nel libro La Religione Romana Arcaica, sostiene l’antichità di queste due divinità, “originariamente due ‘aspetti’ di Giove, destinati a divenire poi autonomi.” Afferma infatti: “il grande dio sovrano ha due accoliti che si occupano l’uno delle persone che compongono la società, l’altro dei beni che tali persone si spartiscono. Tale doveva essere, prima delle amplificazioni, il valore delle nozioni di iuventas e di terminus: la prima, personificata, controlla l’ingresso degli uomini nella società e li protegge finché si trovano nell’età più interessante per lo stato, iuvenes, iuniores; l’altra, personificata o no, tutela o segna la spartizione delle proprietà, non più mobiliari (soprattutto greggi), ma fondiarie, come è normale in una società definitivamente sedentaria. Può darsi che questi due interessi della sovranità abbiano determinato originariamente due ‘aspetti’ di Giove, destinati a divenire poi autonomi. Questo induce a pensare che l’analisi concettuale sia antica, precapitolina, e che Giove abbia portato con sé, nella sede definitiva del suo culto principale, due espressioni della sua natura, due mezzi della sua azione antichi quanto egli stesso.” Accettiamo questa precisa disamina del grande studioso francese; ma riguardo a “La leggenda degli dei ostinati”, com’egli li definisce, non riteniamo seguirlo e ci rifacciamo per conto nostro alla considerazione sul sottinteso leggendario cui abbiamo sopra accennato. Ancor vogliamo ricordare che l’evento si verificava in una Roma dominata da un sovrano usurpatore e, in soprappiù, etrusco, controparte con la quale non era forse possibile aprire un dialogo, poiché s’aveva a che fare con una concezione completamente diversa del divino e del sacro.
Continuando la sua indagine, Dumézil aggiunge: “D’altronde, fin dai suoi umili esordi, la pietra terminale era il segno di un diritto che derivava spesso da un contratto; essa dunque documentava i rapporti umani di vicinato, e quindi come poteva il suo culto non appartenere alla ‘prima funzione’? Tale culto, in fondo, non era altro che un caso particolare del culto della Buona Fede; i romani lo sapevano bene, dal momento che considerarono divinità prediletta di Numa tanto Fides quanto Terminus (oppure l’una e l’altro).” E più oltre: “Era naturale che una pietra terminale, ‘in certa misura, rappresentante ufficiale di tutte le pietre terminale’ (Latte), fosse collocata nel tempio del tutore della giustizia e della buona fede; naturale anche che una festa pubblica, i Terminalia del 23 febbraio, celebrati presso la sesta pietra miliare della via Laurentina, forse un’antica frontiera dell’ager romanus, onorasse tale importante simbolo dei rapporti umani. Anche nei riti privati di quel giorno, piacevolmente descritti da Ovidio, è in evidenza l’aspetto contrattuale, l’amicizia formata e custodita dal rispetto del diritto: i vicini sincronizzano i propri gesti, si riuniscono, celebrano lietamente in comune i meriti della pietra terminale.” Ed ecco i versi di Ovidio:
Termine, sive lapis sive es defossus in agro
Stipes, ab antiquis tu quoque numen habes.
Te duo diversa domini de parte coronant
Binaque serta tibi binaque liba ferunt.
Sia tu una pietra o un tronco piantato nel campo, sin dall’antichità anche tu hai un divino potere. I padroni dei due campi dalle opposte parti t’ incoronano; ti offrono due ghirlande e due focacce.
Questa pietra o tronco, piantati nel terreno a delimitare i campi, una volta giunti i proprietari all’accordo e praticato il giuramento in nome di Fides, non potevano essere rimossi o spostati. Chi si azzardava a farlo commetteva un grave sopruso violando la pubblica fides.
Ara fit, si erige un altare
Intorno a questo altare si riuniscono le famiglie, vecchi, giovani e fanciulli; la gente è vestita di bianco, perché a Terminus vien sacrificato un agnello che bagnerà di sangue il comune cippo e si festeggia in letizia,
et cantant laudes, Termine sancte, tuas:
“Tu populos urbesque et regna ingentia finis;
omnis erit sine te litigiosus ager.
Nulla tibi ambitio est, nullo corrumperis auro,
legitima serva credita rura fide.
E cosa avvenne con il nuovo tempio capitolino? Tutti gli dei sloggiarono e fecero luogo a Giove; ma Termine vi restò e vi dimora col grande Giove.
Nunc quoque, se supra ne quid nisi sidera cernat,
exiguum templi tecta foramen habent.
Termine, post illud levita stibi libera non est:
qua positus fueris in statione, mane.
Nec tu vicino quicquam concede roganti,
ne videare hominem praeposuisse Iovi.
Nel soffitto del tempio è praticato un foro, affinché il dio non veda sopra di sé altro che stelle. Da allora Termine non ha possibilità di libero movimento e resta fermo là dove fu collocato. Al vicino che lo sollecita non può concedere nulla, altrimenti sembrerebbe che anteponga a Giove un uomo.
Et seu vomeribus seu tu pulsabere rastris,
clamato: “Tuus est hic ager, ille tuus!”
Cippo irremovibile il termine: “Questo campo è tuo, e quello è tuo!” Cantano i festeggianti: “Senza di te, Termine, i campi sarebbero litigiosi. Tu delimiti i popoli, le città e i grandi regni. Incorruttibile, con lealtà serbi le terre a te affidate. Là, dove sei collocato, rimani saldo!” L’egoismo è messo a tacere. Nemmeno s’incorre però in confusione o propensioni comunistiche; permangono distinzioni, ripartizioni che non diminuiscono il rispetto dell’altro né minacciano le cose altrui; tutto è ordinatamente congiunto ed il cuore della Civitas serenamente esulta.
Irremovibilità dei termini confinari, irremovibilità di Termine sul Campidoglio, nel tempio di Giove, dove nel tetto un foro si apre su quel venerabile Cippo a congiungerlo al cielo.
Irremovibilità! Terrestre irremovibilità? Eppure: ab antiquis tu quoque numen abes.
Ed ancora, combinazione singolare ma non casuale, nel radicale del vocabolo termine è il senso di muovere, passare, percorrere, superare. La radice TAR/TRA, in latino TRANS, denota movimento, anche il procedere oltre, al di là, il trasmettere. A tal punto ci si rende chiara e s’illumina l’essenza divina dello Iovius Terminus. Statuita l’immutabile fissità di quel sasso (firmum saxum) e rivolta all'ente divino la chiarificante affermazione, ‘Tuus est hic ager, ille tuus!’, il coltivatore dell’un campo s’incontra con il coltivatore dell’opposto campo; la fides inviolata dell’uno rinsalda la fides inviolata dell’altro, le due culture concordano; l’uomo che ha coltivato il suo campo, ha coltivato sé stesso; la cultura dell’uno muove, curiosa e attenta, verso la cultura dell’altro, si corroborano a vicenda. S’accresce energia, virtù si consolida. Questo accade di cippo in cippo, di campo in campo. I confinanti si riconoscono l’un l’altro nel valore del civis romanus. Un confronto e una gara di virtù, congiunte da/in un’unica fides: mira romanae Civitatis concordia. La luminosa Civitas Romana. È questa la vera essenza divina di Terminus.
Ovidio così conclude nei Fasti la sua celebrazione dei Terminalia:
Gentibus est aliis tellus data limite certo;
Romanae spatium est Urbis et orbis idem.
Anche Virgilio, nei versi citati in epigrafe aveva fatto pronunciare a Giove fatidiche parole: “A loro non prescrivo confini di spazio o di tempo; imperium sine fine dedi.” Floro nel capo I della sua Epitome scrive: […] templum erexit. Quod quum inauguraretur, cedentibus ceteris deis (mira res dictu!) restitere Juventas et Terminus. Placuit vatibus contumacia numinum, siquidem firma omnia et aeterna pollicebantur.
Commenta Dumézil: “Juventas et Terminus … la loro ostinazione parve di buon augurio: garantiva a Roma – fu detto – un’eterna giovinezza nella sua sede, e più tardi il presagio di Terminus, audacemente capovolto, promise a Roma capitale del mondo, un impero senza limiti.” Non è esattamente così.
Abbiamo già detto che fu il sacerdozio romano a volere che Juventas e Terminus rimanessero sul Colle Capitolino, soprattutto al fine di salvaguardare il culto del Giove Romano, affinché firma omnia et aeterna rimanessero e, in quegli omnia, fossero soprattutto salvaguardati i Sacra e le cerimonie avite. Salvaguardata, quindi, fosse tutta la Civitas Romana la cui fides veniva fortificata proprio dal culto di quel dio Juppiter Terminus, per estendersi dai singoli cives a tutta l’Urbs, onde poi espandere al mondo intero il potere civilizzatore della Aeternitas Romae.
In tal senso è da intendersi il virgiliano:nec metas rerum nec tempora pono/imperium sine fine dedi … Sulla terra il firmum saxum, il cippus qui removeri non potest, ma Romanae spatium est Urbis et Orbis idem; all’ovidiano spatium il verso virgiliano aggiunge i tempora. L’onfalo del Campidoglio, il cippo irremovibile aveva su di sé un foro che lo metteva in comunicazione con il cielo, lo spazio, così come i cippi sotto il cielo nei campi aprichi.
Romanae spatium est Urbis et Orbis idem. Il verso di Ovidio è compiuta sintesi. I pontificali versi virgiliani or ora riportati, fuor d’ogni rozza retorica, ben letti ed ascoltati, alte illuminano sul senso riposto di quel potere senza fine nello spazio e nel tempo. Non trattasi di “audace capovolgimento”, concetto che ci sembra troppo superficialmente storicistico, pur se vogliamo con semplicità solo rifarci a quanto avveniva nei campi durante le celebrazioni dei Terminalia, festività di fine anno, allorchè, non un ‘capovolgimento’, ma un magico moto – s’approssima anche il cambio stagionale – ovvero un com-mutamento, una potenza cioè – un potere – si manifestava da quei cippi, quel animorum motus che concrescendo andava a costituire la Civitas romana, a fissarla stabilmente. Dal Campidoglio, poi, e dall’Urbe, s’irraggiava sull’Orbe intero, delle cose divine ed umane, tal somma spirituale potestà.
L’Idea Romana, Universale e unificatrice, poggia sul firmum saxum, e non conosce limiti di spazio e il suo potere si conserva nei tempi; è nell’essenza divina e nel nome stesso del dio, come sopra spiegato. Occultata, in quel Lapis vivus ac ardens, tornerà a risplendere.
Il mondo fratto attende il ritorno del Civilizzatore.

… nec metas rerum nec tempora pono:
imperium sine fine dedi…
Io non ho fatto dell’impero una divinità affinché asservisse gli uomini. Non sacrifico gli uomini all’impero. Ma fondo l’impero per infonderlo negli uomini e animarli, poiché l’uomo per me conta più dell’impero. È per fondare gli uomini che li ho sottomessi all’impero. Non ho asservito gli uomini per fondare l’impero. Abbandona dunque questo linguaggio che non approda a nulla e distingui la causa dall’effetto e il padrone dal servo. Perché tutto è relazione, struttura e interdipendenza. Io che regno sono sottomesso al mio popolo più di quanto qualsiasi suddito sia sottomesso a me. Sono io il messaggero che li unisce e li guida. Sono io il loro interprete.
Così io, la loro chiave di volta, sono il nodo che li unisce e li stringe formando un tempio. E per qual motivo dovrebbero volermene? Le pietre si considerano forse danneggiate di dover sostenere la loro chiave di volta?
De Saint- Exupéry, Cittadella
