UA-183009551-1

IL SILENZIO DEI ROSAI E LO STAGNO DEL LOTO

                         

 

 

IL SILENZIO DEI ROSAI

 

E

 

LO STAGNO DEL LOTO

 

 

Il dio, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica.

                                                                                        Eraclito

 

E par che de la sua labbia si mova

Un spirito soave pien d’amore,

Che va dicendo a l’anima: Sospira.

                                             Dante

 

 

   Avete mai in un giardino osservato una rosa nel periodo della fioritura? Una rosa rossa, una candida rosa, una rosa dorata? Silenti coloriture. Nulla più della rosa invita al silenzio, e, se osservate un rosaio, ancor più vi sentite predisposti al silenzio. È la rosa un simbolo di gran forza, dai molteplici significati; simboleggia, tra l’altro, la natura segreta, il riserbo. La natura infatti è silente. Inoltratevi per una vasta prateria raccolti in voi stessi, ascolterete il silenzio di luoghi che sconfinano in un universo ultrasonoro; pur sulle cime di alte montagne potrete ascoltare la voce impenetrabile del silenzio. Solo in queste estasi, e nella piena coscienza di voi stessi, riuscirete anche a percepire il profondo silenzio che è dentro di voi, il silenzio dell’anima vostra.

   Chi non avverte il silenzio, chi mai ha avvertito il silenzio e la voce del silenzio, immerso nel rumoreggiare mondano, assoggettato alla necessità, ai cosiddetti bisogni naturali, mai apprezzerà il profumo della rosa, mai ne farà dono alla sua anima.

   Ci fu un tempo in cui la parola era propria dell’uomo, solamente dell’uomo. Non il riverbero della parola articolata, che richiede sforzo, ma il verbo magico, iniziatore, proprio dell’artefice che figura esemplari, modelli.  Malauguratamente, lusingato dalla duplicità, egli violò la potenza e l’intensità del silenzio, che dimora nel profondo dell’anima e regge l’unione di cuore e mente. Persa la facoltà di manifestare ogni cosa con la parola magica, dovette esercitarsi alla loquela quotidiana, al discorrere; mise a profitto la lingua! Fu il precipitare dalla vetta di un monte, in un baratro.

    Per un tempo lungamente felice l’uomo ebbe a fianco la donna silente, che significava anco i più ascosi sentimenti e i più sublimi concetti con l’afflato d’un musaico linguaggio: la luce degli occhi, quel loro vivace scintillio, il vibrare delle dita, e magici cenni, e il muto sembiante. Il lucente carme canoro che sgorga dal silenzio degl’intimi precordi.  

   Venne il tempo in cui anche la donna parlò … e sparlò; disperse così la sua magia, isterilì la muliebre natura. Ancor di più divenne dubbia e oscura la condizione dell’uomo. Pòlemos s’assise sul trono “qual padre di tutte le cose”; la parola s’accese, s’infiammò; i discorsi eccitarono gli animi. Dalle parole, dai discorsi si passò a vie di fatto. Dalle mani alle armi e ai fatti di sangue.

   Ancora fu concesso di comparire sulla terra ad uomini saggi che sapevano far uso della parola parca, della   potenza magica della parola, del verbo che crea. Ancora s’aggirarono quaggiù arcane figure femminili, rigogli di solare natura, tacite figure, silenziose filatrici e tessitrici, fate operose e benevolenti, come una volta si diceva del virginale femminino, della donna dalla nobile indole.

   E, poi? Poi l’insipienza, l’insolenza … il rumore continuo, assordante … l’assordimento, l’ottundimento … E rivoltante promiscuità.   

   Il silenzio! È un divino godimento, gaudio, letizia dell’animo. Nel silenzio, ben disposta la natura genera; nel silenzio ci si rigenera; l’arte viene alla luce nel silenzio; l’artista opera nel silenzio; nella profonda intimità del silenzio si manifesta il dio. Solo nel silenzio accade di nascere a nuova vita. Ed è, in quel momento, il silenzio degli inizi.

 

*

 

Protinus a nobis quae sit dea Muta requires:

Disce per antiquos quae mihi nota senes.

 

   La ninfa Giuturna si sottraeva agli approcci di Giove nascondendosi nelle selve o tuffandosi nelle acque. Giove convocò tutte le ninfe del Lazio e così parlò loro:

Invidet ipsa sibi vitatque quod expedit illi

Vestra soror, summo concubuisse deo.

Consulite ambobus: nam quae mea magna voluptas,

Utilitas vestrae magna sororis erit.

Vos illi in prima fugienti obsistite ripa,

Ne sua fluminea corpora mergat aqua.

 

   Acconsentirono le ninfe del Tevere; ma tra di esse vi era una naiade di nome Lara figlia del fiume Almone, cui più volte il padre aveva consigliato di tenere a freno la lingua, ma non era da lei. Anche stavolta lei si   precipita dalla sorella e le consiglia di fuggire riferendole le parole di Giove. Avverte anche la stessa Giunone. Contrariato Giove le recide l’immoderata lingua e chiama Mercurio:

 

Duc hanc ad Manes – locus ille silentibus aptus –;

nympha, sed infernae nympha paludis erit.

Iussa Iovis fiunt. [… ]

 

    Le favole allegoriche, in specie se riguardanti l’agire divino, vanno intese non mettendole sullo stesso piano del volgar percettibile e del propagandabile. Pur se conoscibile, ciò che attiene al Principio supremo spetta all’intelletto rischiarato raggiungerlo. E rischioso ne è il fraintendimento. Ma, se volete provocare il fato …  

   Ritorniamo alla storiella. Arrivano in un bosco e Mercurio acceso di lei, nonostante lo sguardo implorante non potendo essa con la voce, le usa violenza. Tacita rimane incinta e genererà due gemelli, i Lari, protettori dei crocicchi:

 

et vigilant nostra semper in Urbe Lares.

 

      Questa è la storia della Mater Larum, Tacita Muta, come narrata da Ovidio nel libro II dei Fasti, definita da Dumézil “una piacevole storiella, che lascia di fatto inesplicata” questa figura divina.

   A questa dea erano dedicati i Feralia (21 febbraio), che Varrone così definisce “Feralia ab inferis et a ferendo”, perché, come aggiunge Ovidio si usa portare, iusta ferunt, ciò che è dovuto ai defunti e “ultima placandis Manibus illa dies”. A proposito dei Feralia, Dumézil afferma: “Dei riti pubblici non è sopravvissuta alcuna testimonianza. Sappiamo, per altro, che quello stesso giorno una vecchia, circondata da fanciulle, sacrificava ad una Tacita, che, secondo Ovidio sarebbe la Mater Larum.”   

   In buona sostanza, Dumézil se ne lava le mani. Ma noi ormai ci siamo assunti l’impegno di andare avanti nella ricerca dei muti misteri e dobbiamo quindi procedere tra taciti, tortuosi anfratti. Ci farà strada il Vate Ovidio.

 

Ecce anus in mediis residens annosa puellis

Sacra facit Tacitae (vix tamen ipsa tacet)

Et digitis tria tura tribus sub limine ponit,

Qua brevis occultum mus sibi fecit iter.

 

   Ecco una vecchia grave d’anni, assisa tra fanciulle, celebra un sacrificio a Tacita (ma ella a stento riesce a tacere) e con tre dita dispone sulla soglia tre grani d’incenso, là dove un piccolo topo s’è aperto un passaggio segreto.

 

Tunc cantata ligat cum fusco licia plumbo

Et septem nigras versat in ore fabas.

 

   Poi cantando magiche parole lega dei fili a un nero fuso di piombo e fa girare nella sua bocca sette fave nere.

 

Quodque pice adstrinxit, quod acu traiecit aena,

Obsututm maenae torret in igne caput,

Vina quoque instillat. Vini quodcumque relictum est

Aut ipsa aut comites, plus tamen ipsa, bibit.

“Hostiles linguas inimicaque vinximus ora”,

Dicit discedens ebriaque exit anus.

 

   Di poi brucia al fuoco la testa d’una menola da lei cucita con un ago di bronzo e rivestita di pece, vi versa anche vino. Quel che resta del vino lo bevono o lei o le compagne, ma di più lo beve lei. “Ho legato le lingue nemiche e gli sguardi nocivi”, dice la vecchia alzandosi dalla sedia, e ubriaca se ne va.

   Questo, nella descrizione di Ovidio, il semplice rito celebrato da una annosa saga coadiuvata da alcune fanciulle con il quale s’allontanava dalla casa la maldicenza, il larvale, propiziandosi il favore di Tacita Muta. Un rito domestico, che riguardava la casa; forsanche un rito purificatorio per tutta la città, perché concernente indubbiamente tante case.

   L’anziana saga assisa è la natura annosa, gravata d’anni ed anni e le fanciulle che l’attorniano rappresentano l’animo giovanile della stessa natura, che purificata, si rinnova di primavera in primavera. È l’ultimo giorno per placare i Mani, placandis Manibus. I Mani, entità invisibili (qui cerni non potest) progenitrici (origines primae) dei viventi; i silenti, i taciti. È quindi il giorno del silenzio, il silenzio che placa e indirizza l’animo studioso all’ascolto; all’ascolto delle remote profondità ove quelle entità dimorano e attendono il richiamo dei posteri risvegliati. È giorno di purificazione; la natura stessa, per difendere sé stessa, per serbarsi integra, richiede purificazione. Il Tutto è Uno. Nel placare i Mani dei progenitori, la progenie vivente placa sé stessa, cioè opera in unione con essi Mani, entità silenti ed occulte, virtù indistruttibili, in armonia con la natura e nel supremo ordine divino.  Per compiersi in terra un tal ordine occorre che tutto quaggiù sia lustro e puro. A scongiurare il disordine e lo scatenamento di forze oscure e abissali, la hybris che sfida gli dei, l’uomo deve agire con consapevole misura, nel dominio di sé stesso, cioè libero da necessità.  

   La vecchia annosa, assisa tra le fanciulle, celebra un sacrificio a Tacita, sacra facit Tacitae, alla loquace, linguacciuta Lara, già ninfa delle acque fluviali, che il sommo principio ordinatore, dopo averle reciso la lingua, consegna a Mercurio: “Duc hanc ad Manes – locus ille silentibus aptus –; / Nympha, sed infernae nympha paludis erit”.

   I fatti degli dei e il mondo magico custodiscono i loro arcani, che non vanno violati.

 

*

 

   Anni addietro, e son già molti, invitati da amici, ci trovammo a visitare una estesa tenuta, proprietà d’un Conte, loro vecchio zio, presso il quale dimoravano. Passammo alcuni giorni in quella villa e in una lunga passeggiata tra i boschi c’imbattemmo anche in un prato dov’era un piccolo lago naturale che, notammo, lungo le rive e per un buon tratto era stato sottoposto a cultura. Vi fiorivano il ranuncolo acquatico e anche l’ibisco palustre; vi abbondavano i giunchi e le rustiche ninfee, tra queste scorgemmo anche un bel fiore di loto galleggiare sull’acqua. Ci trovavamo nell’immensità della campagna, più lungi si levavano dei poggi boscosi e ancor più distante l’Appennino. Non si scorgevano abitati. Canti d’uccelli e ronzio d’api sui fiori, nel solenne, sconfinato silenzio campestre. Tra i giunchi fece capolino una graziosa biscia e poi guizzò via sull’acqua. La superficie del laghetto era immota. Presso la riva tra i giunchi, qualche palmo sotto, si scorgeva il fondo limoso; sulle foglie larghe delle ninfee qualche raganella confondeva il suo verde chiaro. Da una riva all’altra le libellule tessevano i loro voli. Sedemmo su una panca di legno, c’era solo quella panca, sotto un faggio accosto alla riva. Tra le ninfee, quel fiore di loto dai petali color di rosa che aveva attirato il nostro sguardo. Si scorgeva il suo gambo venir su dal fondo limoso, muscoso; su quel fondo nemmeno doveva giungere il canto degli uccelli né il ronzio delle api; quell’infero fondo era tacito e muto, ma da esso era venuto su, alla luce, quel bellissimo fiore. Il solenne silenzio campestre che ci avvolgeva e la suggestione di quel “tacito muto” palustre silenzio che proveniva da laggiù ci portarono fuori da quell’ora, fuori da quei limiti e ci ritrovammo assorti nella contemplazione di quel simbolo floreale; sentimmo l’anima schiudersi e dilatarsi, come improvvisamente fecondata da un violento spiro; uno spiro proveniente da una profondità remota che agiva nell’intimo nostro, ed era anche un sol tutto con quel che ci circondava. Non più un dentro e un fuori; ma un infero palustre tacito muto, un superno luminoso nell’alto vibrante rosato silenzio e, medio, quel fiore.

   Quanto tempo trascorse? Non pronunciammo parole, non un pensiero vile attraversò la mente. Al rientro, facendo altro cammino, incontrammo una fonte che formava un ampio ruscello; le acque scorrevano fresche e chiare e ad essa ci dissetammo.

 

*

 

   E quella vecchia saga, assisa tra le fanciulle, in quella casa di cui racconta Ovidio?

   Eh, già! I tre grani d’incenso sulla soglia sotto la quale il topolino occultum … fecit iter! Quei topolini, che ben sapete s’intrufolano dappertutto e poi … rosicchiano! Son come i pensieri; anche i pensieri non vi accorgete che rodono, rodono, consumano a poco a poco, incessantemente la mente … e poi?

   E poi … poi … oh, poi! Bisogna pure ammirarlo quel topolino! Sfida, l’animaluccio, la soglia che lo divide dall’umano, per procurarsi attraverso la fatica di un occultum … iter, un alimento più prelibato, custodito nell’eccelsa credenza degli umani. E … voi?

   Ahi, voi! Neppure tre grani d’incenso sulla soglia, qual tirchieria! Come siete divenuti pesanti e tardi … Orsù, spigritevi! Oppure, accettate che qualcuno vi suoni la sveglia … Rassicuratevi, non spenderete nulla in gratitudine! Che volete che costi uno squillo di tromba? Ma, per dindirindina, ricordatevi che avete da coltivare nell’intimo, nutrire e far crescere la vostra nympha/limpha e, ancora, che avete un cuore da serbar saldo e una mente da mantenere arieggiata e pura. Tre cose preziose.  

   E poi la vecchia saga lega, cantata, fili a un nero fuso di piombo. Ad ogni uomo pesa il nero fuso di piombo; quel fuso fatale! Magari a qualcuno di più, a qualche altro di meno; c’è pure chi non se n’accorge e chi porta magari con gran voluttà tal peso, per cui non c’immischiamo. Ognuno faccia quel che crede.

   Così per le sette fave nere, che non hanno nulla a che vedere con i sette nani di Biancaneve … La vecchia saga se le rigira più volte nella larga bocca sdentata; certamente dovevano risonare in quel nero antro, e questa è una cosa che le fu insegnata e solo lei sa fare; né gradisce la curiosità della gente.

   Per quanto riguarda la maena e il suo crudo sacrificio … Perché proprio la menola, che è appunto muta, come son muti i pesci? La vecchia saga le brucia al fuoco la testa, torret in igne caput, che dapprima ha cucito con un ago di bronzo e poi rivestita di pece. Infine vina quoque instillat, la bagna con il vino.

   Oh, che fate? Vi prendete la testa fra le mani? È un gesto istintivo di protezione, dite voi … Ma no! Se non avete pensieri malevoli, con i quali travagliar voi stessi o, peggio, se divenuti implacabili, quei pensieri v’istigano a infilzare le teste dei vostri simili con quel cruento ago di bronzo, cucirne la bocca, e poi asfaltarle, come oggi è usanza. Sì, il pesce simboleggia l’uomo, un pisciculus egli era infatti nel ventre materno … ma in quello stato era innocuo, perché ancora non aveva appreso il linguaggio “d’uso”. In seguito apprenderà tante altre cose, ma tutto dipende da colui da cui apprenderà e da quel che gl’insegneranno. Dall’esempio, insomma. Ritenete di aver ricevuto buoni esempi? Avete di conseguenza coltivato con studio (studium/amore) le virtù che fanno l’uomo vero? Se sì, state pur tranquilli e attendete alle vostre faccende.  A meno che non vogliate, a questo punto, far come la vecchia saga, che bevuto il residuo vino s’alza dalla sedia e s’allontana ebbra.

   Ma forse meglio è tenersi lontani, non immischiarsi, nelle magie delle annose sagae. Ammonisce qualcuno: non bisogna andar dietro ai “sagarum praecepta rapacium”. E, in specie, occorre schivare quelle ossesse rapaci di oggi, scatenate linguacciute.