IOVIS IUNO CONIUNX
IOVIS IUNO CONIUNX
“Quod Iovis Iuno coniux et is coelum, haec terra; quae eadem Tellus; et ea dicta, quod una cum Iove iuvat, Iuno, et regina, quod huius omnia terrestris.” Poiché Giunone è coniux [cum=con e jungo=unisco] di Giove, ed egli è il cielo, déssa è la terra, un tutt’uno con la diva Tellure. Si nomò Giunone, perché in unione con Giove essa è giovevole, e regina, perché le appartengono tutte le terrestri cose. Varrone,L.L. - V,67
Con Varrone ci accostiamo all’etimo del nome della dea, colei che d’accordo con Giove iuvat. Alla radice iuv si collega anche il termine iuvenis, giovane; infatti Varrone esplica: “iuvenis a juvando scilicet qui ad eam aetatem pervenit, ut juvare possit.” E qui ben s’intende il richiamo alla valentia e al coraggio fisico propri della età giovanile, la cui personificazione divina è rappresentata da Juventas, dea ospitata unitamente a Terminus nel tempio Capitolino, ove i giovani rivestivano per la prima volta la toga virile. La vis iunonia invece è la virtù generatrice che viene evocata, in modo proprio, da un verso scultoreo di Lucilio:
Vis est vita, vides; vis nos facere omnia cogit.
La vis iunonia è dunque la stessa vita, cui Giunone dà il suo soccorso in unione con Giove. Infatti, se vero è che alla dea appartengono tutte le cose terrestri ed essa ne è la regina, maggiormente vero è che la segreta forza, quella che spinge l’uomo ad operare per la conoscenza, si giova della Iuno in congiunzione con Giove, il quale a dire di Ennio: “Divomque hominumque pater rex”. Così Varrone commenta il verso del poeta: “Pater, quod patefaciat semen, iam cum est conceptum et inde cum exit quod oritur.” Padre, per il mostrarsi del semen (paterno) sin da quando viene concetto e, di poi, quando esce alla luce quel che vi era racchiuso. In questo caso Varrone accosta il sostantivo pater al verbo patefacere, aprire, manifestare, svelare, e non lo fa a caso.
S’intende l’importanza, il valore attribuito a quest’istante fatidico dagli antichi. È un momento rischioso, il momento in cui si può manifestare la humana facies et figura, assistita dalle guerriere Ilizie; o altrimenti il malnaturato, se non addirittura mostrarsi ab-orior, l’aborto. Abomini! Ab homine… nostra paretimologia? Ab homine, allontanamento dall’umano. Accostamento anche questo intenzionalmente non casuale.
A Ilizia, proba bellatrix diva, che fu presente alla nascita di Minerva, anch’essa proba diva guerriera, le giovani spose e le puerpere consacravano hastae, simboleggianti la forza vitale invitta, virilizzante, che punta luminosa al cielo. La cuspide, il vertice a punta della lancia è un triangolo focale che nel sole sfolgora, segno significante la via del guerriero; la via del probus bellator e della proba bellatrix. Ben sappiamo che, dal ratto delle Sabine e per tutta la durata della sua azione civilizzatrice, Roma si caratterizzò e si distinse per la retta virile virtù del probus bellator e per la illibata virtù muliebre della proba bellatrix. Quando la congiunzione salvifica di questi due astri con la romana virtus si esaurì, e scese l’aruspicino crepuscolo, si allontanarono dai cieli dell’Urbe i probi dei.
Per ben comprendere quel che ci proponiamo di approfondire dobbiamo innanzitutto liberare la mente dalle distorsioni dell’ideologismo democratico. Gli uomini non sono uguali. La diversificazione è una costante nel mondo naturale e così è per l’intima natura e l’indole degli uomini. Questo, e lo sappiamo bene, non vale in un mondo artefatto dove l’artificiosità discende da un pensiero unificatore e astratto, talmente astratto da ridursi a un dogmatismo falsificatore che ha perso ogni contatto con la naturalezza. Il segno precorritore di una sempre più crescente, avanzante desertificazione. Il progresso democratico, l’avanzamento della società materialista e il suo profitto! Scarti di bugiardi, maligni spiriti, in un ambiente sociale devastato e agonizzante. Unica salvezza è ri-principiare la vita, rinnovarsi: propiziare una salvifica metanoia. È adoperandosi, e con studio, nel libro della natura, della vivente natura, che l’uomo arricchisce il suo sapere e si prepara ad ampliare la sua consapevolezza, senza oltrepassare i limiti del giusto, vuoto di hybris, per accostarsi al divino.
Ebbene, ne abbiamo piene le scatole di “patroni” e di “patronesse” … di “idoli” e d’idolatrie! Qui stiamo evocando la Iuno Regina congiunta al divomque hominumque pater rex, la Iuno Mater, tutrice del seme dei Padri e la Sospita, la Giunone guerriera, abbigliata con una pelle di capra, una lancia, un piccolo scudo e dei calzari dalla punta rialzata, come la descrive Cicerone nel De Natura Deorum. La Iuno Sospita, la stessa proba bellatrix che Orazio nel Carmen Saeculare invoca con l’omerico epiteto di Ilizia.
Nella foga del discorso ci accorgiamo di aver esteso il pregio delle virtù guerriere da una figura divina alle donne romane e italiche facendone delle spartane. Fanno al caso perciò alcune opportune considerazioni. Innanzitutto, quando trattiamo del guerreggiare non intendiamo suscitare fragore d’armi, ma, più sovente, ci riferiamo a quei combattimenti silenti che han luogo nell’intimo, a lui stesso ignoto, dell’uomo, laddove egli deve, volendolo, instradare il suo ardire e il virtuoso agire al risveglio della coscienza, all’elevazione del sé nella re(g)ale consapevolezza. È questa un’eccelsa attitudine guerriera, affermazione e testimonianza indubbiamente di virilità quando essa si esercita anche sul piano esterno, per esempio quello politico o militare, cioè del guerreggiare sul campo di battaglia. Ciò non toglie che anche la donna, ci riferiamo alla Domina e non semplicemente alla femmina della specie umana, per affermare e testimoniare le virtù muliebri non debba sostenere i suoi combattimenti e anche a volte con sofferenza e patimento. Per essere degna del probus bellator anche la donna deve dimostrarsi proba bellatrix; tum vero adest Vir ac Domina secum. E così era a Roma, come lo fu a Sparta, pur se con diverso costume. Non dobbiamo accettare lo stucchevole stereotipo della volgar cultura, ignoriamo se maschilista o femminista, che divulga la storiella delle donne trattate nell’antica Roma alla stregua di oggetti o domestici utensili. Sia sufficiente ricordare donne leggendarie come Clelia e Lucrezia o famose come Cornelia e Hortensia, le vergini Vestali, le sacerdotesse Saliari e, inoltre, un’antica usanza: alle donne morte di parto nel dare alla luce un figlio sano venivano tributati onori militari.
IUONONE SEISPITEI MATRI REGINAE
Questa è una delle numerose dediche a Giunone e proviene dalla città latina di Lanuvio. Sostiene il Dumézil: “Questa triplice qualificazione è di tipo inconsueto in Italia e significa un cumulo di funzioni o di aspetti che equivale a una definizione teologica; ciascuno di tali aspetti è di per sé chiaro.” E più oltre: “È subito palese che in tal modo Giunone si trova riferita simultaneamente alle tre funzioni dell’antica ideologia indoeuropea: all’ambito della regalità sacra, a quello della forza guerresca, a quello della fecondità, e riferita in termini formulari, da una titolatura attestante che i suoi sacerdoti e i suoi devoti la sapevano e la volevano trivalente.”
Ciò nonostante il Dumézil osserva ancora che “nelle città latine, Lanuvio esclusa, la triplice natura della dea non è espressa dai tre epiteti congiunti” e che tal cosa si riscontra anche in rituali vedici e di altri popoli indoeuropei per divinità omologhe, e così conclude: “Non è forse possibile che le teologie del Lazio avessero semplicemente conservato quell’immagine composita di dea? A Lanuvio essa appare completa; a Roma, invece, così come fra i germani continentali, è ridotta alla prima e alla terza funzione, alla sovranità e alla fecondità.”
Non dissentiamo radicalmente dal Dumézil; certamente l’organismo religioso romano tese a non accreditare la figura di una Giunone guerriera per non diminuire il prestigio patriarcale della famiglia romana e l’imperturbabilità del culto olimpico, che andavano salvaguardati dalle influenze asiane che avevano agito e continuavano a manifestarsi sul suolo d’Italia e del Lazio. Ma, proprio per questa accennata diffidenza d’altro canto non potettero mai trascurare l’aspetto trivalente della dea e alla Sospita collegarono “in particolare il carattere guerriero della dea” cum hasta et cum scutulo; e “anche perché, da quando Roma nel 388 si arrogò un rispettoso condominio sulla dea lanuvina, gli stessi più alti magistrati romani, omnes consules, furono tenuti ad offrirle sacrifici.” Riportiamo, qui, opportunamente da Livio, L.VIII,14: “Venne concessa ai lanuvini la cittadinanza e furono loro lasciati i culti religiosi, a condizione però che il tempio e il bosco di Giunone Sospita diventassero patrimonio comune degli abitanti di Lanuvio e del popolo romano.” Quindi i Romani offrivano alla dea dal carattere guerriero sacrifici, e ne rispettavano i culti e i riti partecipandovi.
Dea del combattimento, quindi, nel senso significante cui abbiamo accennato testé, alcune righe più sopra; armata di scudo e di lancia, ma coperta d’un mantello di capra; schietta figurazione femminile, dispensata da ogni atteggiamento virile.
Il Dumézil nega che la Iuno fosse l’ ‘equivalente’ femminile di Genius: “Fin dai tempi più remoti [si riteneva] ogni donna dotata di uno spirito protettore, sotto il nome di Iuno, espressione della propria natura feconda.” Il Dumézil non ritiene ciò verosimile e, quindi, che da una folla di Iunones fosse derivata la dea; infatti, a suo parere nessun dio Genius è scaturito dai molteplici Genii. “Mentre il Genio dei personaggi maschili regna già nelle commedie di Plauto, non v’è traccia in esse di una Giunone delle donne, e bisogna giungere fino a Tibullo per trovarne menzione nella letteratura.” In verità Tibullo visse ai tempi di Augusto e questo principe ripristinò tante cose della religione antica, ma senza inventarsi nulla.
Per superare la questione posta dal Dumézil, riteniamo vada attuata una diversificazione. È la Iuno l’equivalente femminile di Genius? O piuttosto li unisce una sorta di complementarità? Il Genius è quel che si manifesta come l’essenza generatrice del Vir, appartiene alla personalità realizzata; è simboleggiato dal fuoco; guida ed assiste la singola individualità, è il destino stesso come la persona se lo determina. La Iuno, invece, è il femminino sostanziale alla donna, ad ogni donna, differendo sol per gradi di nobiltà e purezza, ch’ella riesce a raggiungere.
Differenziate le nature, is coelum/haec terra, non dimentichiamo quel divino connubio: quod Iovis Iuno coniunx; et ea dicta, quod una cum Iove iuvat, Iuno.
NATALIS CASTA IUNO
Lanuvium annosi vetus est tutela draconis,
hic ubi tam rarae non perit hora morae,
qua sacer abripitur caeco descensus hiatu,
qua penetrat virgo (tale iter omne cave!)
ieiuni serpentis honos, cum pabula poscit
annua et ex ima sibila torquet humo.
Talia demissae pallent ad sacra puellae,
cum temere anguino creditur ore manus.
Ille sibi admotas a virgini corripit escas:
virginis in palmis ipsa canistra tremunt.
Si fuerint castae, redeunt in colla parentum,
clamantque agricolae: “Fertilis annus erit”.
È la descrizione del celebre antro ov’era custodito un annoso serpente in un bosco adiacente al tempio di Giunone Sospita a Lavinio. Gli esametri di Properzio sono carichi di patos, tremebondi, e tentano di sbigottire. Ignoriamo se riferiscono fedelmente il rito annuale; due dati però son certi: le giovinette addette alla funzione dovevano essere vergini, si fuerint castae, e solo in quel caso venivano riabbracciate dai genitori mentre si levava il grido gioioso dei partecipanti: fertilis annus erit!
Eliano, in Sulla Natura degli animali, ci presenta un racconto ancor più marcatamente tinteggiato; ma anch’egli concorda con Properzio sulla indispensabile verginità delle fanciulle: “Se veramente illibate, il serpente accetta l’offerta di cibo, altrimenti lo rifiuta.” Nel caso in cui il cibo rimaneva intatto, tramanda che i presenti indagavano sulle giovinette intervenute nella cerimonia e afferma che una volta scoperta colei che aveva disonorato la sua verginità, veniva punita secondo la legge.
Dumézil sostiene che il serpente della Giunone di Lanuvio, con i relativi riti, sulla base delle su riportate fonti sono ricollegabili alle antiche cerimonie di fecondità. Non escludendolo, anche perché vi era gran partecipazione di popolo, da parte nostra riteniamo che l’arcaicissimo rito contenesse un significato più profondo, celato in un arcano complesso di simboli. Il Dumézil, come sopra riportato, scrive che i più alti magistrati romani, omnes consules, eran tenuti ad offrire sacrifici a Giunone Sospita nel tempio di Lanuvio. Infatti i Romani avevano concesso ai Lanuvini la cittadinanza romana e con essi lealmente concertato che il bosco e il tempio di Giunone Sospita diventassero patrimonio comune di entrambi i popoli, come attesta Tito Livio. Tanta cura ed attenzione solamente per l’approvvigionamento dei granai cittadini? E la Iuno ridotta ad una sola mansione, quella fecondante, quando proprio nella città di Lanuvio la dea serbava integra la sua triplice funzione? La Sospita con la lancia e l’ancile?
E se andassimo a ricercare e a penetrare i significati di quei simboli arcaici? Il sentiero in discesa? L’antro ipogeo nel bosco? Le vergini? Il serpente che al risveglio richiede l’alimento da mani illibate? La focaccia, che ha forma rotondeggiante ed è cotta sul fuoco? Le fanciulle caste che tornano all’abbraccio dei genitori? Il grido dell’agricoltore: fertilis annus erit?
Da quel che abbiamo detto, raccolto, scritto sopra, ci sono indirizzi e spunti per dare una risposta a tutte queste domande. Non vogliamo tediare con saccente minuziosità il cortese lettore, lasciamo al suo arguire, alla sua fertile immaginazione, la ricerca delle risposte; oppure di non curarsene affatto. Per conto nostro continuiamo ad esercitarci nella lotta alle false convinzioni, in specie se intenzionalmente propagate.
Primum Opus:
Bene colere agrum.
Recte cultus, ager floret;
Tum primum Homo
Imago Mundi.
