LA MISTERIOSA DIVINITÀ DEL CANTO
LA MISTERIOSA DIVINITÀ DEL CANTO
Oh, anima mia, ormai ti ho dato tutto, e le mie mani rimasero vuote per averti beneficata: l’averti comandato di cantare, vedi, fu l’ultimo mio atto!
Dell’averti comandato di cantare – parla – dimmi chi di noi deve render grazie! – Ma, meglio ancora: cantami, canta, anima mia! E del tuo canto ti ringrazierò! (F.Nietzsche)
“In quel tempo governava quei luoghi, più col suo prestigio che col potere Evandro, esule dal Peloponneso, uomo degno di venerazione perché provetto nella scrittura, cosa nuova e prodigiosa in mezzo a quella gente ignara d’ogni arte, e ancor più degno di venerazione per l’asserita natura divina della madre Carmenta che, prima dell’arrivo in Italia della Sibilla, aveva sbalordito quelle genti con le sue doti divinatorie (…quam fatiloquam ante Sybillae in Italiam adventum…).” Livio, Storie L.I, 7
“Hinc fuit Evander qui, quamquam clarus utroque,
nobilior sacrae sanguine matris erat.
Quae simul aetherios animo conceperat ignes,
ore dabat pleno carmina vera dei.”
Ovidio, Fasti L.I,470/74
E dove visse Evandro, che famoso per entrambi i genitori, derivava maggior nobiltà dal sangue divino di sua madre, la quale, accogliendo d’improvviso in sé gli eterei fuochi, con la voce pervasa dal dio pronunciava veridici carmi?
“Orta prior Luna […]
A magno tellus Arcade nomen habet.”
Evandro il discendente d’Arcade, prole divina, era nato ed era vissuto nella terra d’Arcadia, terra antichissima, nella quale gli uomini erano in relazione con gli dei, terra di stupefacenti metamorfosi, orta prior Luna, nata prima della Luna, come canta Ovidio. Esiliato dalla patria con la madre, Evandro
Deserit Arcadiam Parrhasiumque Larem.
Abbandonata l’Arcadia e i Lari parrasii, solcò il mare e approdò sulle sponde italiche insieme alla Fatiloqua, la narratrice del Fato:
At felix vates, ut dis gratissima vixit,
possidet hunc Iani sic dea mense diem.
Di questa Vate arcade, per quel che ci è dato, noi qui tratteremo; per farlo anche stavolta dovremo andare indietro nel tempo, nella preistoria ovvero nel mito, laddove tutto ammutolisce, ma non la voce di sempre, la voce magica, il carmen, il canto, il suono.
Non c’eran tutte le stelle che ruotano nel cielo;
Chi aveva sentito parlar dei Danai, gente sacra?
Solo gli Arcadi Apidani vivevano in quel tempo;
Si dice fossero ancor più antichi della Luna, gli Arcadi
Forti, e sulle montagne si nutrissero delle ghiande.
da Apollonio Rodio, Argonautiche,L. IV
Longinquus quel tempo… Gettate giù dalla finestra, amici, i vostri affannosi pensieri, e per un momento imperturbabili, inoltratevi impavidi in quella preistoria mancante di Luna! In quella preistoria ignota agli uomini d’oggi, ma di cui ancora vagheggiavano i vati di Grecia e di Roma. Già, dovreste saltare a piè pari tutta la scienza trasfusa nei cervelli umani dai ‘luminari’ di questi ‘secoli dei lumi’! Per di più, il romanticume che si pasce di languida luce, i vaghi crepuscoli di mille e mille filosofie, le svenevoli ‘accademie’ del letteratume tardo arcadico, i velleitarismi solleticati dagli sfasamenti e dai malumori lunari, tutta la luminaria delle ideologie e tanti, tanti luna park…Saltate di slancio, via! Un salto liberatorio…con approdo in un mondo fortunato, non più abitato dai lunatici.
E il mito? più non sollecita le menti! Eppure, un aureo filo collega l’esilio di Evandro e della divina madre dalla terra favolosa d’Arcadia all’antico Lazio, al porto favoloso del re Giano. Gli eroi della illune terra parrasia e quelli della solare terra ausonia.
Terre solari. Eroi solari. Donne solari. Mitiche terre. Mitici eroi. Mitiche maghe, figlie del sole. Il mito! Tuttavia non deve essere un caso se, diversamente dal latino, in altre lingue indoeuropee il sole è declinabile al femminile. Da qual mitico ricordo deriva tal solare androgino? In Giappone, Amaterasu è la dea che splende nel cielo, il nostro Sole, il die Sonne dei germanici; ma ci sono anche antichi testi nipponici che descrivono il sole al maschile. Badate bene, non si tratta di ermafroditismo, di un coesistere indifferenziato ma, beninteso, mitico; nel senso del mito come tratta Platone. Se prendete tutto questo per un rompicapo, lasciate perdere, non curatevene! ne avete il pieno diritto.
È il caso che noi abbiamo fretta; e proprio di tornare al mito…
Sì, perché trattenersi nel tempo storico, ristagnandovi, degrada; nella storia è l’uomo che pensa ed agisce e se, illuso e sprovveduto, s’allontana dal divino, dall’eroico, e, nell’impotenza d’un concepire veridico e d’un intemerato, giusto agire, si sprofonda nel progresso materiale, nell’agitazione, nell’irrequietezza dell’edonismo faustiano, sterilmente tutte le cose priva della naturale dignità; abbassa e invilisce pure sé stesso. Boriosi protagonisti, gli uomini di questi ultimi tempi, si tengono stretti alla loro insignificante storia. La storia nasce con loro, dicono, e prima di essa, nella preistoria, esisteva l’uomo primitivo, quello della pietra, poco più evoluto dell’orango. Degradante illusione! L’uomo moderno non è artefice della storia, ma, con sottomissione, ne subisce passivamente gli eventi; perché, incapace d’eroicamente vivere, si è abbandonato inerte al vortice d’un’incontrollabile agitazione. Sogna, meschino, immensi luna park e immensi supermarket anche lassù, tra le stelle! Disanimante iattanza!
Prima di questi nostri tempi, ormai sappiamo, si son susseguite lunghe preistorie, nelle quali hanno anche primeggiato raffinatissime e ornatissime civiltà, alcune di esse sono state travolte da inesorabili fati a causa della professata hybris; la rivolta, la sfida al cielo! Indubbiamente ci furono anche età della pietra lavorata, lavorata da mani espertissime d’intelligenti artefici, capaci anche di cucirsi vesti degne dell’uomo e di fabbricare capanne dalle pareti colorate ed adorne; uomini giusti e pii, rispettosi delle loro leggi e orgogliosi dei loro antenati.
Tuttavia, come abbiam detto, è rintracciabile un filo d’oro, un’orma, che conduce da Uomo Solare a Uomo Solare, dalle vestigia d’un’età eroica ad un’altra, da una terra fatata dove operarono le figlie del Sole ad un’altra similmente prospera. Come fare a meno del mito?
“L’elemento dinamico del potere sacro diede forse alla mitologia [romana] una figura che conosciamo solo in forma molto attenuata, degradata e divenuta specifica, come quegli dei dei Druidi che sopravvissero fra i gallo-romani solo al prezzo di ridurre umilmente la propria attività a guarire le malattie o a proteggere un mestiere. L’India vedica onorava l’entità Vāc, la voce, la parola, in particolare la parola religiosa o magica, l’inno: un cantore la celebrò in strofe ampiamente panteistiche come il fondamento comune di ogni realtà e di ogni esistenza. I Romani onoravano una dea, il cui nome, almeno, sembra appartenere alla medesima ideologia: Carmentis (o, meno attestata, Carmenta) non può essere altro che una personificazione femminile del Carmen. Il Flamine minore a lei riservato e i due giorni festivi (11 e 15 gennaio) che le erano consacrati testimoniano la sua antica importanza; tuttavia, nella situazione religiosa che ci è accessibile, la dea, così come il Carmen stesso – propriamente religioso o magico-religioso –, era ridotta a funzioni molto limitate.
La leggenda delle origini si impadronì di Carmentis, e solo in essa, senza dubbio per influenza greca, il potere implicito nel nome della dea si volse verso la profezia. Madre, o in varianti più rare, moglie dell’arcade Evandro, primo colono del Palatino, essa gli avrebbe annunciato la futura grandezza di Roma.”
La soprariportata citazione è tratta dalla Religione romana arcaica del Dumèzil, come sempre preciso nelle sue osservazioni e geniale nei suoi paralleli e nel verificare corrispondenze tra deità e culti indoeuropei. La corrispondenza di Carmentis all’entità divina Vāc dell’India vedica riconduce giustamente la dea romana al Carmen, nozione arcaica, mitica, intendendosi con esso la voce dei primordi, la parola, il principio femminile inteso come energia, potenza d’un potere che si manifesta come suprema coscienza ordinatrice, quindi coscienza veggente. L’onniveggenza! La visione perfetta del vero sapiente che abbraccia tutti i tempi ed è capace di scandagliare la profondità onnicomprensiva di Caos:
Me Chaos antiqui (nam sum res prisca) vocabant;
Aspice quam longi temporis acta canam.
Coscienza onniveggente, quia, dice Servio, vatibus et praeterita et futura sunt nota; non profezia alla maniera biblica, costumanza mediorientale, ma la scoperta e la narrazione del fato attraverso la conoscenza del profondo sé, della natura propria quindi e del mondo in cui ci si trova a vivere; per giungere alfine alla conoscenza dell’esistente tutto e del divino. Postuorta e Anteuorta, la ianuale potenza, volta verso il passato e verso il futuro, qui e ora, nel presente che è quel passato e che è già quel futuro; la ianuale potenza, che canta, incanta e tesse la tela, disponendo e predisponendo i fata secondo la giusta misura nel mondo fenomenico. L’entità divina Vāc dell’India, la latina Carmentis, stessa personificazione femminile dell’inno, del Carmen, sacra formula magica, che proferita costituisce e stabilisce sulla terra l’Ordine, divino riverbero, solare incantagione. Il poeta Teocrito scrisse che “gl’inni sono il premio degli immortali”; allegoricamente la trama, l’intreccio poetico, rappresenta difatti il tessuto del cosmo, e, ancora, il tessuto del fato; i versi (vertere) gli oracula.
Tum deus incumbens baculo quem dextra gerebat,
«Omina principiis», inquit, «inesse solent».
I presagi, i pronostici sogliono essere negli inizi, così dice il bifrons per bocca di Ovidio, appoggiandosi al bastone che regge nella destra. Così opera, con i suoi carmina, Postuorta, così opera Anteuorta, integra, incorruttibile energia, univoca ianuale potenza.
“– Per arrivare all’aureo prodigio, alla barca volontaria ed al suo padrone, il quale è il vendemmiatore che attende, con un coltello di diamante in mano;
“– Il tuo grande solutore, anima mia, l’innominato … cui le future canzoni sapranno dare un nome! E invero, già il tuo alito annunzia le future canzoni!
“Già tu ardi e sogni, già tu bevi avidamente a tutte le fonti profonde e sonanti, dispensatrici di conforto; già la tua mestizia riposa nella gioia di future canzoni! ... (F.Nietzsche)
Venga anche per noi e pur per te, gentile amico lettore, il grande solutore invocato da Nietzsche, l’innominato che risolve l’enigma, per arrivare all’aureo prodigio, il canto prodigioso di Carmentis dia ad esso il nome.
‘Agrippas’ a partus aegri et inprosperi vitio appellatos; deque hissa deabus, quae vocantur ‘Prorsa’ et ‘Postverta’.
Quorum in nascendo non caput, sed pedes presentano, il che è considerato parto difficilissimo e pericoloso, sono chiamati ‘Agrippa’, vocabulo ab aegritudine et pedibus conficto. Varrone dice che la posizione del bambino nell’utero è con il capo all’ingiù e i piedi all’insù, non come nella natura dell’uomo, ma degli alberi, infatti egli chiama piedi e gambe i rami degli alberi, e capo il ceppo e le radici. E così dice: «Quando perciò, contra naturam, essi hanno i piedi rivolti in basso, le braccia si aprono e sogliono trattenere il feto, ed allora le donne partoriscono dolorosamente; per scongiurare tale pericolo sono stati eretti a Roma due altari alle due Carmenti, l’una delle quali è chiamata Postverta e l’altra Prorsa [rivoltata e diritta], e hanno tratto il nome e il potere dal parto naturale e da quello innaturale.» (Aulo Gellio, Notti Attiche,L.XVI,16)
Sostiene il Dumèzil: “Pur essendo preferita dalla maggior parte degli autori moderni, e nonostante l’ingegnosità della più recente esegesi, la spiegazione in termini ostetrici incontra più difficoltà dell’altra, in termini di veggenza. D’altronde, questa stessa incertezza documenta l’usura subita dalla figura della dea, spaesata in una religione che molto presto non lasciò quasi più spazio all’ispirazione personale, ai Vates, e confidò nel gesto esatto e nella formula chiara più che nell’incantesimo.”
Tanto è stato sostenuto dal Dumèzil. Ed è giusto, a nostro parere, andare oltre il formalismo e il degrado devozionale avvenuto nel corso del tempo. Nel caso di Carmenta abbiamo già messo da parte il profetismo con la bigotteria selenica delle credenze mediorientali, spiegando, per quanto possibile, ciò che debba intendersi correttamente per veggenza; così intendiamo anche metter da parte l’assistenzialismo delle duabus Carmentibus, come le chiama Varrone, alle donne durante la gravidanza e il parto, nel senso semplicistico dell’ostetricia moderna; ma qualcosa ci tocca dire e riguarda la nascita, in particolare la nascita dell’uomo. Varrone dice che la posizione del bambino nell’utero è con il capo all’ingiù e i piedi all’insù, non ut hominis natura est, sed ut arboris, giacchè egli chiama piedi e gambe i rami degli alberi, e capo il ceppo e le radici. Ebbene, la mitologia norrena ci ha trasmesso il mito dell’Albero cosmico, Yggdrasill, il frassino sempre virente. L’Albero del mondo, che sempre verdeggia per la perenne linfa, fu d’altronde nelle mitologie di tutti i popoli; ma chi più dell’UOMO, e fin dalla nascita, ma soprattutto dalla nuova nascita, la rinascita spirituale alla vita imperitura, può rappresentare tal simbolo, incarnandone l’idea, la cosmica visione? Per questo non dubitiamo che Carmenta, cui fu affidato per l’appunto un flamen, presieda a tale evento e lo canti dall’inizio del mondo con quel carmen o inno che le genti d’un tempo ancora eroico e felice cantarono adunandosi intorno all’Albero cosmico.
Ancor oggi i popoli hanno il loro inno patrio, ormai di quell’antico culto pallido ricordo.
“Ma,” (forse non è lontano per i popoli redenti il giorno sacro) “giacché non vuoi piangere, giacché non vuoi sfogare nel pianto la tua purpurea mestizia, tu dovrai cantare, anima mia!
– Sciogliere un canto echeggiante, sino a che tutti i mari si taceranno, per prestare ascolto alla tua brama, – sino a che sui mari silenziosi e desiosi scorrerà la barca, l’aureo prodigio misterioso…(F.Nietzsche)
La Dea della nascita, la Dea del canto aurorale fu celebrata, lo tramanda Giulio Igino in una sua Fabula, anche come l’inventrice dell’alfabeto latino. Questa significativa leggenda o tradizione ci riporta anch’essa in un tempo remoto e ci rammenta l’antichità della lingua latina, ci rammenta il Saturnius numerus, il verso saturnio, italico, e i saturnia can(ere)mina/carmina; canti sacri risonanti di arcaici nomi divini, già dai tempi dei Saturnia regna, nell’arte dei Fauni e dei Vati.
“O anima mia, non v’ha in nessun luogo un’anima più di te ricolma d’amore, più pronta all’abbraccio e più vasta! Dove, l’avvenire e il passato potrebbero essere più fortemente l’uno all’altro congiunti che non in te? (F.Nietzsche)
