IL CAVALLO DEL GUERRIERO

IL CAVALLO DEL GUERRIERO
Se si consulta un qualunque vocabolario della lingua italiana alla parola repubblica o, talvolta, Repubblica s.f. (l’evidenziato e il corsivo sono nello Zingarelli) seguirà il lemma repubblicano A agg., Di repubblica, appartenente alla repubblica, favorevole alla repubblica, relativo a un partito repubblicano. B s.m. (f.-a) Sostenitore della repubblica/Appartenente a un partito repubblicano (sempre nello Zingarelli); se si consulta un vocabolario della lingua latina, e precisamente latino-italiano alla parola respublica, reipublicae,f., Stato, governo ecc. (abbiamo tra le mani il Castiglioni/Mariotti) e altrove anche la cosa pubblica, comune, amministrazione, ecc.; non troviamo però tal lemma seguito da altro corrispondente all’italiano repubblicano. Consultando lo stesso Castiglioni-Mariotti, stavolta italiano-latino, troveremo repubblica: stato, cosa pubblica, res (rei, f.) publica; civitas, atis, f.; libera civitas (atis, f.), seguita dal qualificativo repubblicano: a) della repubblica o delle repubbliche, rei publicae, gen. s.f.; b) fautore della repubblica, tradotto quest’ultimo in latino con varie circonlocuzioni, liberae rei publicae propugnator; communis libertatis amans, delle quali non son citate le fonti come anche in altri vocabolari, per esempio il Campanini/Carboni.
Abbiamo fatto questa premessa lessicografica perché riteniamo che nell’antica Roma, anche dopo la caduta della monarchia (meglio tirannide) etrusca, non si radicò mai una “ideologia repubblicana”, come modernamente intesa, “post rivoluzione francese”. Nella Monarchia arcaica, quella dei mitici Romolo, Tazio, Numa, Tullo Ostilio, Anco Marzio, gli stessi re potevano legittimamente vantarsi di essere amanti e propugnatori di commune libertas; sarà di Giulio Cesare ancora l’espressione libertati studere, amare la libertà. Gli Etruschi, asiani e decadenti, erano già moderni e tali erano le loro “monarchie”, tirannidi, e la tirannide avrà il suo massimo sviluppo con l’evoluzionismo biologico e con l’individualismo e, a riassumere, con l’umanesimo storicistico; storicismo appunto – egocentrismo, egoismo, egolalia, egolatria – e, somma di tutto questo, la ‘cultura’ di massa e l’aberrante tirannia dei mass-media con la distruzione ultima della civiltà classica, soprattutto italico-romana, animi victus atque cultus, cioè la custode di quella forza originaria e pura “posseduta direttamente in sede di vita e di stile di vita di fronte alla quale ogni cultura non rappresenta che un fattore di esteriorità, di decadenza e di effeminamento”. (Evola)
R O M A D I M O R A DI R E
“La prima testimonianza, che nella coltissima Grecia abbiamo di Roma, è quella di un ambasciatore il quale confessa che, mentre nel Senato romano pensava di trovarsi come in un’accolta di barbari, vi si trovò invece come in un concilio di re”. L’episodio lo si legge in Plutarco: Vite parallele, Pirro, XIX,5. Continua Evola, e commenta: “E’ così che, se per vie invisibili, noi troviamo in Roma fin dalle origini i segni segreti della ‘tradizionalità’, sarà, non di meno, la stessa epica, la stessa storia romana, più che non le teorie, le religioni o le assunzioni culturali dei dotti romani, a darci il ‹mito› vero di Roma, a parlarci nel modo più prossimo, quasi come in una serie di grandi simboli scolpiti dalla potenza nella sostanza stessa della storia, della lotta spirituale che forgiò il destino e la grandezza di Roma”.
LA R E G I A
“Si chiama October Equus il cavallo immolato ogni anno durante il mese di ottobre sul campo di Marte. Il cavallo è quello di destra della biga vincente. Per la testa del cavallo aveva luogo una vera battaglia fra la gente della Suburra e quella della Via Sacra: gli uni avrebbero voluto affiggerla al muro della Regia, gli altri alla Torre Mamilia. La coda dell’animale viene portata alla Regia con la massima celerità, in modo che ne possano ancora cadere delle gocce di sangue sul focolare, per farlo partecipare del sacrificio. Si dice che il cavallo fosse immolato a Marte quale dio della guerra…” (Festo come riassunto da Paolo)
Plutarco, a sua volta, in Questione Romana: “… dopo una corsa di cavalli, il cavallo di destra del carro vincente viene consacrato e sacrificato a Marte, e perché qualcuno taglia all’animale la coda, la porta nella Regia e con essa insanguina l’altare, mentre altri uomini, scendendo gli uni dalla Via Sacra e gli altri dalla Suburra, lottano fra loro per la testa del cavallo? Ciò accade forse perché il cavallo è un animale impetuoso, bellicoso, quindi marziale, e agli dei si sacrificano appunto le cose che essi amano, che hanno un rapporto con loro?”. Plutarco si pone anche altre domande, tra cui se con tale gesto i Romani commemorassero ancora la rovina di Troia a causa del cavallo; spiegazione rifiutata dallo stesso Polibio il quale, piuttosto, ammetteva il sacrificio del cavallo prima di una guerra imminente allo scopo di trarne presagi. Plutarco, trattandosi del sacrificio di un cavallo vincente, come tramanda Festo, alla fine si chiede se tal sacrificio avvenisse “perché Marte è il dio della vittoria e della forza?”
Paolo Diacono, l’epitomatore di Festo, tramanda questa notizia di Verrio Flacco: “La testa del cavallo immolato alle Idi di Ottobre sul Campo di Marte, veniva ornata di pani, poiché il sacrificio era compiuto ob frugum eventum. Et equus potius quam bos immolabatur quod hic bello, bos frugibus pariendis est aptus.” Secondo Verrio Flacco l’atto sacrificale era rivolto a render grazie alla divinità per la buona riuscita dell’abbondante raccolto. E questo certo era il motivo per cui la testa del cavallo immolato veniva ornata di pani.
Era dunque l’October Equus un rito agrario, propiziatorio delle semine e dei raccolti? In un nostro precedente scritto “Verbi parcimus”, trattando del principio virile della Virtus e del come deve applicarsi all’azione che non può prescindere dalla ratio, cioè dalla coscienza, scienza e dal consiglio divino ci appellavamo così alla divinità di Marte: – E qui ci parli il Padre Marte, il buon agricoltore, e ci narri della potenza del seme che si risveglia dal sonno, spacca il duro tegumento in cui era ravvolto, spacca il suolo indurito dal gelo dell’inverno e sporge il tenero germoglio al raggio del sole; e ci narri ancora della possanza dell’albero, che prima fu tenero germoglio e di come esso, per virtù di profonde, robuste radici, oggi si distende in tutta la sua magnificenza nella luce solare. Nel qui ed ora! Ci narri infine, il Padre buono e vigoroso, come attraverso millenni e millenni, da germoglio a germoglio, quell’albero oggi ancora respira e raccoglie sulle sue fronde le piogge, le nevi e la luce solare. Nel qui ed ora!
La vita dell’uomo sulla Terra è lotta, combattimento. Lotta e combattimento perché dall’infero bimbo, il germoglio, si forgi il giovine e poi l’adulto e il padre valente, che possa essere e dimostrarsi, nel rispetto della condizione terrestre, accetto agli Dei Patri, perché sui compos, padrone sovrano di sé stesso (potis sum) e come tale artefice del suo destino; quindi non sottomesso agli eventi, ma in grado di provvedervi, di dirigerli. A questo tendeva il Romano, quello che custodiva in sé la Virtù prisca, l’adetto di tale Virtù. –
Ci rivolgevamo a Marte chiamandolo buon agricoltore, non perché egli sia un dio dell’agricoltura, ma perché anche in quell’attività umana presiede forza, vigore, potenza divina già dalla germinazione, come nella natura tutta e nelle vicende della stessa vita terrestre. Si ricorda, a tal proposito, che eminenti Romani furono bravi agricoltori e valenti soldati, Cincinnato, Catone e tanti altri. È proprio Catone ad invocare un Pater Marte propizio contro malattie, carestie, desolazioni, calamità, intemperie onde il suo vigore conservi i frumenti, la salute dei pastori, del bestiame e della sua famiglia; e gli offre un sacrificio per la purificazione dei campi. Un Marte invocato contro i nemici dei campi, dei frumenti, del bestiame, della salute umana, contro il nemico di Roma, il barbaro: Satur fu fere Mars limen Sali sta berber.
Il rito del October Equus era certamente un rito arcaico e quindi carico di valenza magica; un rito rivolto a potenziare la originaria Virtus Romana e quindi soprattutto la R e g i a Virtus.
Marte il dio del combattimento, il dio della guerra, il dio del guerriero, nella tregua e nei lavori di pace e nella pugna. Sempre nella vita sulla terra occorre la lancia di Marte, perché la vita dell’uomo è lotta, combattimento.
Tutto questo si compendiava in modo significativo nel giorno della celebrazione del October Equus, quando la Regia ne era protagonista. La coda del cavallo veniva portata alla Regia, con tanta celerità da permettere che alcune gocce di sangue potessero cadere sul focolare, per farlo partecipe del sacrificio. Nella Regia, nel periodo post monarchico, esercitavano il lor ufficio e svolgevano sacre funzioni il Rex sacrorum, supremo magistrato eletto dai Patres, e il Pontifex Maximus; nell’edificio vi era anche un sacrario di Ops, dea dell’abbondanza e della fecondità, riservato al solo Pontefice e alle Vestali, ed un sacrario di Marte dove si conservavano sacre lance e gli Ancilia, gli scudi dei sacerdoti Salii, che provenivano dalla Regia di Numa. Nell’archivio si conservavano gli Annales Maximi. Vicinissima era l’aedes Vestae. Era il centro sacrale dell’Urbe. Nella Regia, giustappunto, dovevano arrivare la coda e la testa del cavallo sacrificato e offerto a Marte nel Campo Marzio, perché in quell’edificio andavano tutelate con Marte la continuità delle generazioni e la salute dell’Urbe intera, in quell’edificio doveva serbarsi, propizia Ops, l’abbondanza, anche quella agricola. Riportiamo da Dumézil: “In tal modo la Regia (casa del re) riunisce, o meglio giustappone, ordina, in tre luoghi dei culti che si riferiscono chiaramente alla sovranità sacra, alla guerra, all’abbondanza; è assai naturale, dal momento che in ogni società il re, nonostante la sua speciale affinità per la prima funzione, non può disinteressarsi delle due altre. L’interesse del raggruppamento consiste, però, nel fatto che esso conferisce a Ops, un’altra divinità – del gruppo di Tito Tazio –, la parte rappresentativa che la lista canonica, quella dei flamini maggiori, attribuisce a Quirino: la Regia ospita la terza funzione non sotto l’aspetto del popolo consumatore, ma direttamente sotto quello dell’alimento da consumare.” Era soprattutto questo il significato magico del rito; rito di ri-evocazione, risveglio della forza magica, scaturente dalle origini arcaiche onde investirne il Rex e attraverso la sua persona i Patres e l’Urbe intera. Ma anche questo avveniva attraverso un combattimento, onde tener l’attenzione desta verso l’hostis, ciò che è straniero, avverso, nemico dell’Uomo. “La lotta, – non levis contentio, dice Festo (come riporta Dumézil) – tra un ‘gruppo regio’ (la gente della Via Sacra, il cui edificio è la Regia) e un gruppo esterno (la gente della Suburra, il cui edificio centrale è la Torre Mamilia) non ha luogo prima del sacrificio o per il possesso dell’animale ancora vivo, ma dopo il sacrificio, per il possesso della testa tagliata”. Ma ogni combattimento, ogni lotta comporta un rischio. Nel caso la testa tagliata fosse caduta nel possesso della gente della Suburra, la Regia non andava a beneficiare appieno del sacrificio; la testa, una volta catturata dalla gente della Turris Mamilia (i Mamilii non erano di origine romana, ma di Tuscolo), andava a simboleggiare una minaccia ostile. Di tal minaccia il Rex e la Civitas dovevano tener conto e quindi vigilare; ma gli stessi Mamilii dovevano stare attenti e guardarsi dall’incorrere nella hybris, onde evitare il disfavore di Marte. La coda comunque era in possesso della Regia, anche se c’è ancora un rischio, dice Dumézil: “colui che la porta può non correre abbastanza in fretta da far sgocciolare il sangue sul focolare della regia: la frustrazione della regia, in tal caso, è totale.” Infatti: “le gocce di sangue della coda venivano sparse sul focolare del re, participandae rei divinae gratia, per metterlo in rapporto con la virtù del sacrificio.” Ma, insistiamo noi, nel possesso della regia restava comunque la coda sanguinosa del cavallo.
Marte, il dio romano della guerra, del combattimento, non era un dio selvaggio, ma il dio del vigore, della forza d’animo e vitale, il dio della potenza dominatrice, ed a Roma non era mai assente, nemmeno nei periodi di tregua e di pace; perché mai il guerriero, anche se si dedica all’aratro, come faceva Cincinnato, cessa di combattere. Ecco perché Marte era anche il dio dell’assidua vigilanza, perché il guerriero deve vegliare sempre, anche durante il suo riposo. Il guerriero non deve trascurare nessun momento della sua giornata, l’hostilis può mostrarsi all’improvviso; il guerriero non deve farsi sorprendere. Il guerriero deve aver l’animo pronto e deve curare il suo cavallo. Il cavallo del guerriero è un cavallo sacrificale.
Non è un Romano chi non opera in Marte.

Armilustrium
Armilustrium ab eo quod in armilustrio armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab ludendo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. (Varrone,L.L.VI,3)
Armilustrum ab ambitu lustri. Locus idem Circus Maximus dictus, quod, circum spectaculis aedificatis, ibi ludi fiunt, et quod ibi circum metas fertur pompa et equi currunt. (Varrone,L.L.V,32)
Armilustrium dal luogo in cui si compiono riti sacri in armi; se non è il luogo piuttosto a trarre il nome dalla festa, ad ogni modo quel che fu primo si chiamò così da ludo o da lustro, perché giravano giocosi, armati di ancilia.
Armilustrum dal giro che si fa nel lustro. Lo stesso luogo è anche detto Circo Massimo perché ci si ammirano gli spettacoli in logge circolari e in cerchio vi corrono i cavalli intorno alle mete e vi si portano in processione le cose sacre.
Terminate le fatiche di guerra, le Moles Martis, il 19 di ottobre nell’antica Roma, sull’Aventino presso il Circo Massimo, si procedeva ritualmente alla purificazione delle armi. Sicuramente intervenivano i sacerdoti Salii, perché si trattava con tale funzione di dichiarare anche la chiusura del periodo di guerra e in tal giorno gli ancilia venivano riposti nella Regia, nel sacrario di Marte. Alle Kalendae con il rito del tigillum sororium, rito di purificazione e di passaggio, difatti si trattava di passare simbolicamente sotto un arco e in tempi più antichi sotto un giogo, si era già provveduto alla purificazione espiatoria dei legionari reduci che, costretti ad uccidere nel corso delle battaglie, dovevano ora far rientro in città. L’armilustrium, ritualità arcaica, era dedicata alla purificazione delle armi dell’Urbe e durante lo svolgimento di essa veniva pur eseguita una danza da parte dei sacerdoti Salii. Varrone scrive – circumibant ludentes ancilibus armati – e quel ludentes ci invita, non errando stimiamo, a tradurlo con scherzosi, giocosi. Nulla di strano, se in quei giri di danza quegli animi guerrieri fossero stati pervasi da una cosmica, divina giocosità; nulla di stupefacente in una società arcaica, fluida, priva di rigidità, nella quale anche il gioco poteva manifestarsi nel virile contegno per spandere tutt’attorno una naturale serenità; cosa che doveva avvenire, essendo giunta appunto la stagione che imponeva la cessazione delle ostilità. In quei tempi gli uomini si sentivano più prossimi al soprannaturale e quel rituale doveva tradurre lo spirito della Civitas tutta dai turbamenti bellici alla stabilità della vita organizzata nell’ordine urbico; tutti dovevano infatti ritornare ai lavori consueti, alle attività necessarie e ai pubblici uffici che sostengono e conservano la res publica; subentrava la mente ordinatrice di Quirino. La lustrazione delle armi si eseguiva presso fonti solforose; quelle armi ormai erano da riporsi; una volta operata la lustrazione, succedevano ad esse la tempra operosa, l’avita virtus e una condotta vigilante informata al Mos Maiorum, ancor nel riposo, per nulla ozioso, dei guerrieri e della intera Civitas.
In sintesi doveva “cessare di essere” tutto l’apparato statuale del tempo di guerra, in tempi arcaici rappresentato dalla persona del Rex, e rinnovarsi, dopo la riparazione, all’interno del Pomerio nella pace dell’Urbe, donde poi tal pace potesse estendersi su tutto l’Orbe romano.
Armilustrium festum erat apud Romanos, quo res divinas armati faciebant ac dum sacrificarent tubis canebant. Tale descrizione di Festo alle scarne notizie di Varrone aggiunge soltanto che mentre si svolgevano le sacre cerimonie suonavano le trombe; questa sacra nota marziale ci lascia supporre che si procedesse alla consecratio del trofeo, spolia hostis, all’altare di Marte sommo difensore dell’Urbe prima del deposito degli ancilia e delle hastae nel sacrario della Regia.
A tal punto occorre sostare per qualche opportuna riflessione. Nel corso delle battaglie viene versato sangue, molto sangue. Come la linfa è il simbolo della floridezza, della buona salute, il sangue è il principio della vita; circolando attraverso il corpo, per la spinta del cuore, nutre l’organismo fisico. Il sangue, nel latino arcaico sanguen, effuso emette un effluvio caldo e forte, in lingua latina un effusus odor, l’odore forte della vita animale carico di sostanze volatili; nella sua essenza leggera, l’impercettibile respiro, è ricco, soprattutto il sangue umano, di essenze astrali. Questi effluvi sprigionati dal sangue possono andare a nutrire entità invisibili? Ha il sangue un potere magico? Gli antichi sacrificando, con gli effluvi ematici nutrivano entità invisibili, dando una direzione a quel nutrimento e consacrandolo, secondo il fine, a entità infere o a entità supere?
Lasceremo questi interrogativi senza risposta; ma da quel che abbiamo detto si può dedurre a qual rilevante fine tendevano le purificazioni durante la cerimonia dell’armilustrium. Occorre ancora dire che nella natura dell’uomo agiscono impulsi ed istinti di grande forza, alcuni grandemente distruttivi, se l’uomo ad essi si abbandona, ambizioni, passioni inconsulte, egoismi che si immergono nella realtà fenomenica e si lasciano da questa assorbire, suggestioni, terrori e l’incalcolabile resto. Nel comune l’uomo non sarà mai artefice del proprio destino, ma sempre soggiacerà ai fati. Tanto vale per il singolo quanto per le comunità di persone. L’uomo deve salvaguardare sé stesso, non può né star fermo né indugiare, deve sviluppare la sua consapevolezza, deve accrescere il suo coraggio, deve sovrabbondare in Virtù. Per far ciò deve dominare gl’istinti, gli egoismi parassiti, deve all’uopo affermare e nutrire in sé un nobile, alto ideale, farne il fulcro della propria esistenza terrena, consolidarlo in sé. Gli istinti se si lasciano galoppare, diventano sfrenati, sviluppano irrefrenabili energie. L’uomo deve lottare, deve fortificarsi nel suo ideale, il patrio divino ideale, che diventerà così un grande trasformatore di energie. Deve investire di queste energie pure il cuore, la mente e l’animo, che dovran poi spiccare il volo verso l’alto. La vita spirituale dell’uomo, la stessa sua vita fisica si troveranno in tal modo indirizzate verso un oltre, un mondo di realtà consapevolmente vissute, dove l’uomo è finalmente libero, non più schiavo degl’istinti e dei fati, ma protagonista del suo agire responsabile.
Roma, la sua Idea immortale, rappresentò per generazioni e generazioni, nei secoli in cui operò, l’alto ideale, il virile, divino ideale che indirizzò verso il cielo formidabili energie umane, così da edificare sulla terra una Civiltà la cui luce ancor manda i suoi bagliori.
Sulle tracce profonde della Roma Immortale, senza tentennamenti, operiamo per rigenerare cuore e mente e, ritornati padroni di noi stessi, al guinzaglio l’io meschino, suscitiamo in noi il ricordo della Virtù avita e purifichiamoci bruciando le spolia del hostis che si è radicato dentro di noi e lustriamo la spada del nostro spirito; poi netta, lucente e tagliente il filo della lama, riponiamola nel fodero in attesa del sole nuovo, quando sguainata, di quella luce brillerà annunciando che in noi, nel cuore d'Italia e del suo popolo Roma Risorge Rinnovata.
Senza retorica, senza hybris, con cuore sincero, questo sia oggi il nostro Armilustrium.
