PORTUM PROSPERE TENERE

PORTUM PROSPERE TENERE
Et pater ipse manu magna Portunus euntem
impulit: illa Noto citius volucrique sagitta
ad terram fugit et portu se condidit alto.
Virgilio, Eneide, V
La nave stava per uscire dal porto. Erano le prime ore del mattino, l’esule teneva fisso lo sguardo sulla terra che si allontanava; tanti cari ricordi, tante passate fatiche, gli affetti, gli amici s’allontanavano da lui e forse per sempre. D’un tratto, l’ultima punta di terra ed uno scoglio alto che si protendeva nel mare. All’occhio smarrito di Publio d’improvviso parve di scorgere, su quello scoglio battuto dalle onde l’alta sagoma d’un nobile vegliardo, con accanto un delfino; l'Uomo, che teneva nella destra mano una chiave, pure apparendo vecchissimo, aveva il volto d’un giovane dio. All’esule parve che quel vegliardo gli rammemorasse tutto un passato, anche remoto, mentre quel volto splendente di giovinezza gli appariva come un irraggiungibile futuro; irraggiungibile, perché ad un esule bandito dalla madrepatria, strappato alla sua origine, è negato il presente, ed è nel presente che si costruisce concretamente il proprio futuro. La nave scivolò fuori dal porto, si lanciò verso il mare aperto inseguita da un piccolo branco di delfini. Lo scoglio s’impicciolì di colpo e un’alta onda lo ricoperse.
Nel riportare qui questo brano d’una narrazione letta tempo fa, ci è venuto l’impulso di rapportarla a questi nostri giorni. Quanti son coloro che hanno voltato e stanno voltando le spalle al loro porto patrio! Pur rimanendo sul suolo dove sono nati, essi si lasciano alle spalle una millenaria cultura, frutto della civiltà avita su cui potrebbero con sicurtà e fondata speranza costruire l’avvenire, per sé stessi, per i loro figli, per tutte le generazioni che saranno. Non riconosceranno mai più la voce antica: “io sono il vostro porto sicuro, questa è la chiave, prendetela se avete la giusta volontà a impegnarvi nel retto agire; con essa, purché abbiate provveduto oggi stesso alla sua costruzione, disserrate un vostro avvenire che non tradisca il nobile costume dei Padri”.
Quelli che fanno della loro patria, l’avita dimora, un paese straniero non curandosi delle sue tradizioni, rinnegando la propria cultura, le arti e le leggi dei Padri, fanno di sé stessi degli esiliati. Esuli in un mondo desertificato, dove ogni luogo non differisce dagli altri, per origini, per clima, per conformazione, ma soprattutto per la distinzione degli abitanti che vi dimorano, per il loro modo di vivere, per i loro costumi, per le loro arti, per la loro cultura; e malauguratamente vanno a conformarsi alla funesta volontà di colui che noi chiamiamo il Disgregatore. Né mai si schiuderà davanti ad essi il porto della salvezza, quello ove si è raggiunta la meta auspicata con volontà libera e con cosciente, propria, consapevole operosità. Quel dio, che nel bel passo dell’Eneide, dove si svolge la gara delle navi, presieduta da Enea, padre indigete, accoglie l’invocazione di Cloanto “Dei, che avete l’impero del mare, sulla cui distesa io corro…”, e ne avvalora la virile volontà: “più veloce del vento, più di volante freccia, la nave accelerò e si addentrò nel porto profondo”. È tempo che quest’uomo dimentico e distratto si ravveda e con coraggio s’addentri nell’intimo porto, il porto profondo, prima che le provvide acque si ritirino e la nave si areni sul fondo melmoso; lì, in quel porto, possa egli ritrovare l’antico vegliardo che con giovanile lieto sorriso gli porga la chiave per disserrare la porta segreta che cela la mitica ninfa della fonte salutifera, Iuturna.
A Roma nel foro romano v’era la fonte di Iuturna, tra il tempio dei Càstori e la casa delle Vestali.
Portunus: deus portuum portarumque praeses.
(Varrone)
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APPENDIX - Il Dumézil insiste sullo stretto rapporto tra i termini portus e porta la cui “etimologia obbliga comunque a partire dal senso acquatico” e cita Albert Grenier che vede in Portuno “il genio della navigazione”; “il porto, dice, è un’entrata come la porta: le due parole hanno una radice di uguale senso: porta, janua. Portuno è lui stesso una sorta di Giano; uno scolio lo qualifica deus portuum portarumque praeses.” E Dumézil: “Portuno, dio dei porti e delle porte in epoca storica, è stato in origine il dio degli attraversamenti e delle stazioni d’acqua (attraverso l’acqua, nell’acqua), importanti nel periodo palafitticolo dei futuri latini e designati, anche nelle altre lingue indoeuropee, dagli eredi della parola protu”. Partendo dalla indicata etimologia il Dumézil in una panoramica che va dall’avestico al celtico, al gallese, al germanico, all’anglosassone, riscontra sempre lo stesso motivo che riferisce quella etimologia al senso acquatico: dove di passaggio, dove di ponte, di guado, etc. Giunge così a condividere il Bonfante: “L’ipotesi di Giuliano Bonfante rimane seducente: angiportus (-tum) ‘vicolo stretto’, porta (di città) possono essere vestigia lessicali della civiltà palafitticola che gli antenati dei latini avevano praticato più a nord e durante la quale l’accesso e la circolazione dei villaggi erano garantiti da corridoi d’acqua con pontili (portus)”. Queste acute osservazioni richiederebbero vari approfondimenti, ma noi ci limiteremo a far notare che Portuno è un antico dio delle genti italiche, come d’altronde lo era Giano, di cui Portuno appunto sembra concretizzare l’immagine nella vita quotidiana e nell’agire di quelle antiche genti. Un dio, Portuno, che presiedeva al giornaliero contatto degli uomini delle palafitte con il mondo delle acque e dei ponti su le acque, nonché dei pontili (strutture portuali poste sulla riva di specchi d’acqua poco profondi per consentire l’ormeggio di barche). Quel dio, Portuno, che sorveglia la soglia (sup)posta tra la terra e le acque, tra le acque e la terra. Così quel dio fu un foggiatore di genti, e gli italici una gente che si è formata tra i monti e il mare. Nei secoli questa attitudine, questa spinta, non è venuta mai meno, basti qui ricordare il fiorire delle Repubbliche Marinare e la loro prosperità e potenza. E ricordiamo il Console Gaio Duilio che guidò i romani, combattenti di terra, sulle navi rostrate, infliggendo una sonora sconfitta alla flotta di Cartagine, la potenza militare marittima di quell’epoca; gli atti di valore dei nostri marinai nelle ultime guerre combattute sul mare. Gli italici delle palafitte, e il nobile Vegliardo dal giovine volto d’un dio, ancora vivono nell’ancestralità della gente d’Italia. Portuno porga la chiave al nocchiero in grado di condurre la nave, fuori dalla gran secca, in felice porto.