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chiarificazioni

                                    

 

 

DAL TRIONFO DELLA SALUS URBIS NEI LUDI ROMANI

 

ALLO STRANIO MORBO DELLA SUPPLICATIO

 

 

 

 

   Nel precedente scritto, Severe Ludere, abbiamo tentato di avvicinarci alla sublime magia del ritmo che si operava ed esercitava nel Circo Massimo, a Roma, durante i Ludi Romani; ritmi della danza, quindi della mente e del cuore in unità; ritmi ginnici, quindi cadenze ariose, ritmi del respiro; ritmi trionfali, battuti dal piede, il tripudio; ritmi  carmentali, scanditi da limpide voci;saturnie, auree cadenze evocanti proporzioni, equilibri, salute fisica e mentale, simmetrie divine, cosmiche armonie; ritmi della Roma Prisca, ritmi arcaici, indigeti, i ritmi trasmessi dai Padri, prima che la pompa ‘tarquiniese’ subdola s’insinuasse per attenuare la potenza di quel respiro cosmico e restringerlo ad un ansare nella banale storicità, il drammatico avvicendarsi. Cercate d’immaginare, e senza fantasiosità. Si impiegavano financo le corse dei muli, dei cavalli, dei carri (la ruota) affinché dalla terra si levassero ebre vibrazioni, simili a un rombo, a un denso ronzio di sciami di pecchie; il Nettuno equestre ascendeva al cielo, e con energie sottili condensate in succo sonoro; onda diretta ad incontrare ed unirsi al battito d’ala nel volo dell’aquila, l’uccello delle regioni del vento, l’uccello di Giove e, ancor prima, di Marte celeste, il dio delle Legioni invitte. Ritmi acuminati che dovevano penetrare il segreto consiglio di Conso, celato nello scrigno arcano e farlo rimbalzare nei cieli, onde da quei sogli olimpici ritornasse sulla terra agli uomini, al  V i r  dirozzato delle scorie del fato, per indicargli la meta delle realizzazione luminose. L’antico suono vocale indoeuropeo AÇ, avente il senso di penetrare, come un che di acuminato, un penetrare rapido con la velocità del lampo, e quindi un passare oltre, è appunto la radice sia della parola latina equus, il cavallo, che della parola denominante l’aquila.  Incontro tra la res terrestre e la res celeste. Il Nume equestre e il Nume aquilifero, una sola luminosa realtà. La realizzazione di una successione di ritmi, composti in un Ordo, nell’afflato divino e ispiratore del Cosmo.

   Roma non è stata mai un sogno, come a volte ci è capitato di leggere, ma una realtà eterna anche prima di chiamarsi Roma e quindi concretarsi nell’Urbe Romulea. L’ Aeternitas Romae è tutt’ora una realtà vivente nei cieli svegli, ove non è spenta la luce divina, e tornerà, dovrà tornare, nuovamente a concretizzarsi sulla terra, Idea Immortale, qualunque il suono vocalico  – il suo vero  N o m e n  è segreto –  onde non perisca sul pianeta Terra la stirpe degli Uomini. ­­

 

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   “A chi si proponga la storia segreta dell’antica romanità, considerando anche le influenze etniche, l’esame dei cosiddetti Libri Sibillini presenterà una particolare importanza. Per rendersene conto, bisognerà però disporre di adeguati principii e, anzitutto, rifarsi all’idea, che la romanità non costituì qualcosa di omogeneo: forze opposte in essa s’incrociarono e scontrarono. Traendosi enigmaticamente da un substrato di razze e di civiltà in cui la componente mediterranea non-aria era notevole, Roma va a manifestare un principio opposto. Con Roma, l’elemento virile, apollineo e solare si oppone, in forme varie al principio di una civiltà promiscuo-panteistica ‘lunare’ e ctonica di strati etnici più antichi, civiltà, che era riuscita ad alterare e a travolgere la stessa Ellade olimpica ed eroica.

   Solo questo inquadramento generale ci fa comprendere il senso profondo dei rivolgimenti più importanti della storia dell’antica civiltà romana. Ciò che Roma ebbe di specificamente romano e ‘ariano’ si costituì attraverso una lotta incessante del principio virile e solare dell’ Imperium contro quel substrato oscuro di elementi etnici, religiosi ed anche mistici, nel quale la presenza di una forte componente semitico-pelasgica è incontestabile, e dove il culto ctonico-lunare delle grandi Madri della natura aveva una parte importantissima. Questa lotta ebbe alterne vicende. L’elemento pre-romano, soggiogato in un primo tempo, passò successivamente alla riscossa, per mezzo d’influenze più sottili e in stretta dipendenza con culti e forme di vita decisamente asiatico-meridionali. È in quest’insieme che bisogna studiare l’influenza dei Libri Sibillini in Roma antica: essi costituirono una importantissima base per un’azione sotterranea di corrosione e di snaturamento della romanità aria, nell’ultima fase della quale – nel punto, cioè, in cui la controffensiva si sentiva vicina allo scopo agognato – vediamo entrar significativamente in giuoco, quasi senza maschera, il generico fermento di decomposizione asiatico-semitico.

   La tradizione riferisce l’origine dei Libri Sibillini ad una figura femminile e ad un re della dinastia straniera: si tratterebbe di una parte dei testi offerti da una vecchia misteriosa a Tarquinio il Superbo, che fu l’ultimo re del periodo prisco discendente dal ceppo pre-romano e pelasgico degli Etruschi. Questi libri furono accolti nel tempio dello stesso Giove Capitolino.”

   Il testo riportato è di Julius Evola, il quale fa un’analisi della linea oracolare dei Libri Sibillini e delle nefaste influenze che ne derivarono per la romanità. Aggiunge poi: “Noi vediamo che tale oracolo quasi sempre fece sì che Roma si allontanasse dalle proprie tradizioni, che essa introducesse culti esotici che andavano sovversivamente incontro soprattutto alla plebe cioè all’elemento che in Roma manteneva una inconscia connessione etnica e spirituale con le precedenti civiltà italico-pelasgiche, opposte al nucleo ‘solare’ e ariano. Usati soprattutto in momenti di pericolo, di calamità e d’incertezza per calmare il popolo.”      [ … ]

  “Il contenuto di uno dei più antichi responsi sibillini, dato nel 399 in occasione di una peste, può considerarsi come espressivo per tutto lo snaturamento che doveva poi gradatamente operarsi. L’oracolo volle che Roma introducesse il lettisternio e la supplicatio a questo relativa. La supplicatio consisteva nell’inginocchiarsi o prostrarsi dinanzi alle divinità, per abbracciarne e baciarne le ginocchia e i piedi. Tanto può sembrare naturale o, almeno, appena un po’ esagerato a chi è assuefatto alle forme di culto subentrate nell’antica paganità, altrettanto questa usanza era aliena al costume e allo ‘stile’ dei primi Romani: i quali non conoscevano servilismi semitici di fronte al divino e virilmente, in piedi, pregavano, invocavano, sacrificavano. È già l’indice di una trasformazione profonda, del passaggio da un tipo di mentalità ad un’altra.” (Evola, Storia segreta dell’antica Roma: I Libri Sibillini)

 

   Di ciò troviamo evidenti tracce nella stessa narrazione liviana. In quello che viene ricordato come conflitto degli ordini e che scosse profondamente la Repubblica romana nell’anno 444 e poi ancora negli anni dal 398 al 394. Per sedare la protesta furono eletti Tribuni con potestà consolare, Tribuni militum consulari potestate. Nell’anno 399 furono eletti sei Tribuni consolari di cui un solo patrizio, Marco Veturio Crasso Cicurino. Livio racconta come, scoppiata una rovinosa epidemia, fatto ricorso per ordine dei Tribuni ai Libri Sibillini, si introducesse il lettisternio, un convito ‘sacro’ durante il quale si offrivano vivande ai simulacri degli dei adagiati su triclini e si invocavano quei simulacri con la supplicatio, cioè prostrati con devozione, supplici, con le ginocchia piegate. Questa la sua narrazione.

   “quell'inverno così rigido tenne dietro – vuoi per il repentino cambiamento di clima passato dal gelo al suo estremo opposto, vuoi per qualche altro motivo – un'estate opprimente e pestilenziale per uomini e animali. Siccome risultò impossibile risalire alle cause di questo insanabile flagello (o almeno a trovare una via d'uscita), per decreto del senato vennero consultati i libri sibillini. Allora, per la prima volta nella storia di Roma, i duumviri preposti ai riti sacri celebrarono il rito del lettisternio e per otto giorni cercarono di riconciliarsi il favore di Apollo, Latona, Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno imbandendo tre letti con il massimo di sontuosità possibile per l'epoca. Questo rito fu celebrato anche privatamente. In tutta la città le porte rimasero aperte, nei cortili delle case vennero collocati tavoli con ogni genere di vivande destinate a chiunque passasse, gli estranei, noti e ignoti, erano (stando a quanto si racconta) dovunque i benvenuti, la gente scambiava parole cortesi anche con i nemici personali e ci si astenne dalle liti e dai diverbi. In quei giorni vennero tolte le catene ai prigionieri e in seguito ci si fece scrupolo di rimetterle a coloro a cui gli dei avevano concesso quell'aiuto.”  E fuori imperversava la guerra. A noi interessa qui sottolineare del racconto di Livio la notazione di come una classe priva della sacralità e “incapace di risalire alle cause dell’insanabile flagello o trovare una via d’uscita”, abbia fatto ricorso ad una mentalità divozionale e a pratiche religiose completamente estranee alla religiosità e al costume romano. Ecco ancora una nota liviana di ciò che accadde a Roma durante l’assedio di Veio per l’inettitudine strategica dei Tribuni consolari in carica nell’anno 396: A Roma erano arrivate notizie ancora più allarmanti: l'accampamento di fronte a Veio era già in stato d'assedio e colonne di nemici pronte a battersi stavano ormai marciando alla volta di Roma. Ci fu un accorrere scomposto di gente sulle mura. Le matrone, richiamate fuori dalle case dalla paura generale, si riversarono nei templi a rivolgere preghiere e suppliche agli dèi.”

   Il triste momento e la situazione di pericolo s’allontanarono con la comparsa di Marco Furio Camillo, discendente della Patrizia Gens Furia. Incaricato dal Senato, l’abile generale sconfisse clamorosamente gli Etruschi e i loro alleati, conquistando la stessa città di Veio. La Fortuna Romana ebbe ancora una volta in Furio Camillo, il vincitore dei Galli Senoni, il Pater Patriae, il suo vindice e restauratore. 

   Ma l’impiego delle pratiche oracolari trasformava ormai sotterraneamente la mentalità del popolo romano e introduceva, sotto la spinta del turbamento e della paura, il devozionalismo, cioè la remissione passiva alla volontà di una onnipotente entità divina, e ciò  per la incapacità dell’uomo ad affrontare l’eccezionalità degli eventi e quindi per la vile inettitudine a confrontarsi con il numenico e a poter così disporre, nel fenomenico, l’azione adeguata ed efficace, onde aver il giusto controllo della realtà. Gli dei non erano più Indigeti, ma externi et miri, cioè alieni ed anomali. Tutte le divinità che esigono cieca adesione e devozione, sono false e bugiarde e di provenienza asiana, mediorientale. Lo snaturamento graduale della religiosità romana, l’indebolimento delle élite sacrali e guerriere, è poi di conseguenza divenuto inarrestabile. Oggi la decadenza è tale che minaccia finanche sé stessa, e con armi micidiali mai comparse prima.

   L’ A e t e r n i t a s   R o m ae  è la fonte di luce, l’unica, cui bisogna pervenire per il risveglio e la salvezza dell’Uomo. Ed il tempo è giunto.