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del PRINCIPIO di FEDELTÀ

                                 

 

 

DEL PRINCIPIO DI FEDELTÀ

 

 

La fedeltà è ciò che non si può, né vendere, né comprare, ad una legge si obbedisce, ad una necessità ci si piega, una convenienza la si può calcolare, ma la fides solo l’atto spontaneo di chi è capace di interiore nobiltà, può stabilirla.

 

 

   Questo principio a Roma aveva una tale forza che, personificata in figura di dea, la fides fu oggetto di culto fra i più antichi e i più vivi. Fides romana – si diceva già in tempi preistorici –; alma fides, fides sancta, sacra, casta, incorrupta – si dirà più tardi. Essa, secondo Livio, caratterizza il Romano di fronte al ‘barbaro’ nell’antitesi di legge di incondizionata aderenza al patto giurato di fronte alla contingenza di chi ha per norma l’instabile ‘fortuna’. Massima era la potenza di tale legge fra gli antichi – riferisce Servio – magna erat apud majores cura Fidei. Al suo decadere – ammonisce profeticamente Cicerone – anche la virtus decade, il costume, l’interiore dignità, la forza di grandezza dei popoli. È così che la fides poté avere a Roma un suo tempio simbolico – aedes fidei populi romani – al vertice regale della città, al Campidoglio, vicino al tempio stesso del massimo dio, di Giove. E questa stessa contiguità racchiude un significato profondo. Come Zeus per gli Elleni, Mithra per gli Irani, Indra per gli Indù, così Iuppiter – rappresentazione romana di un non diverso principio metafisico – era a Roma il dio del giuramento, della lealtà. Come dio del cielo luminoso, Lucetius, egli era anche quello dei patti giurati, dell’impegno interiore virile, leale, chiaro, privo di reticenze. Si diceva: Jovis fiducia: in ciò la fides riceveva per il Romano un crisma religioso.

   Ed essa non rimase allo stato di un principio etico generico: essa si potenziò anche secondo un significato e politico ed eroico correlativamente al potenziarsi della stessa realtà romana. È così che il senato stesso poté apparire come un vivente tempio della fedeltà – fidei templum – sì da raccogliersi talvolta intorno all’altare capitolino della Dea. È così che come emblema più usuale per la fides poté aversi lo stendardo e l’Aquila stessa delle legioni, e la fedeltà poté prender la forma assoluta di fedeltà guerriera di fronte all’imperatore – fides equitum, fides militum. Fedeltà, vittoria e perfino vita immortale apparirono allora come concetti connessi da un enigmatico vincolo. La sintesi più completa e suggestiva, a tale riguardo, sotto il titolo di fides militum è data da una figurazione dell’epoca imperiale, ove la fides personificata e divinificata reca, fra l’altro, l’imagine della vittoria e un globo sormontato dalla fenice, cioè dal simbolo animale delle resurrezioni, mentre a lato si vede un imperatore in atto di sacrificare a Giove e di esser coronato appunto dalla vittoria. In questi simboli vi è un’intensità veramente prodigiosa di significati.

                                                                                                                     JULIUS EVOLA

 

 

 

 D E A    F I D E S

 

  

Non vi è sentimento più elevato, più sacro, della buona fede e tuttavia essa non riceveva culto né pubblico né privato: consapevole di tale verità, Numa, primo fra gli uomini, fondò un santuario della - Fides Pubblica - e istituì in suo onore dei sacrifici pubblici, così come ne venivano tributati alle altre divinità.

                                                                                                  Dionigi di Alicarnasso

 

 

 

 

      Georg Wissowa annotò sul culto della fides: “In realtà il culto stesso è certamente più antico della fondazione del tempio di Fides, verso il 250, sul Campidoglio, poiché sappiamo che una volta all’anno i tre grandi flamini si recavano al santuario di Fides (quello che aveva preceduto il tempio capitolino) in una vettura coperta e le offrivano un sacrificio.”  Fu Aulo Atilio Calatino che sul Campidoglio fece innalzare il tempio a Fides e al posto dell’antico santuario o sacellum numano. La remota antichità del culto alla fides è attestata da Livio che a Numa ne fa risalire il culto pubblico. Il re, che Livio narra fosse “per naturale disposizione un temperamento virtuoso e che si fosse formato non tanto su dottrine forestiere quanto sulla rigida e severa disciplina degli antichi Sabini, gente di una integrità allora senza eguali”, volle rifondare la città, fino a quel tempo esercitatasi solamente nella forza delle armi, perché  convinto che la eccessiva bellicosità inasprisse il carattere del popolo, facendolo divenire tracotante e inviso ai popoli viciniori; nel contempo, preoccupandosi di non farlo cadere nell’infiacchimento, provvide a legarlo al culto del sacro, ispirando, soprattutto negli strati più rozzi della popolazione, il timore delle divinità; e ciò al fine di tenere gli animi degli uomini rivolti verso l’agire legittimo e giusto, la loro vita immune dall’ozio e soprattutto incline alle cerimonie sacre, così da non farlo precipitare nell’abiezione del materialismo. A tal fine perfezionò le istituzioni, sia quelle civili che religiose, onde tutto procedesse in armonia. Non è facile compito mantenere la pace e nel contempo far perdurare la tensione d’una costante guerriera in una instaurata sacralità che coinvolga, con le élite, un popolo intero. Questo riuscì al re Numa con il culto luminoso di Fides. Su questo culto ora occorre soffermarci e scrutar bene nel racconto di Livio. La fides solo l’atto spontaneo di chi è capace di interiore nobiltà, può stabilirla. Questa frase di Evola è qui opportuna e illuminante in quanto Numa, il re saggio che proponeva casti costumi e giuste leggi, intese appunto con la sua opera a nobilitare l’intero popolo romano e a farne tra i popoli una stirpe religiosissima e virtuosissima, amante della pace operosa, senza lederne il valore guerriero.

    Livio ci tramanda che il re con la pratica religiosa assidua teneva lontano il popolo da ogni violenza, indirizzandolo alla buona fede, al rispetto della parola data e degli impegni presi. La religiosità del popolo romano impressionò a tal punto i popoli confinanti, i quali dimentichi delle passate guerre, cominciarono a portare grande rispetto all’Urbe e ritennero sacrilegio turbarne la pace. Et (Numa) Fidei sollemne instituit. Ad id sacrarium flamines bigis curru arcuato vehi iussit manuque ad digitos usque involuta rem divinam facere, significantes fidem tutandam sedemque eius etiam in dexteris sacratam esse. Multa alia sacrificia locaque  sacris faciendis quae Argeos pontifices vocant dedicavit. Omminium tamen maximum eius operum fuit tutela per omne regni tempus haud minor pacis quam regni. Ita duo deinceps reges, alius alia via, ille bello, hic pace, civitatem auxerunt. […] Cum valida tum temperata et belli et pacis artibus erat civitas.

   Abbiamo sopra di proposito premesso il brano evoliano a questo scritto sulla fides, perché in esso è espresso chiaramente l’alto significato sacrale, oltre che etico e quindi afferente alla stessa vita sociale e civile, rigorosamente osservante il mos e soprattutto agente nella sfera dello ius, del fondamentale concetto di fides nella romanità fin dai tempi più arcaici. Vissuta essa al par di un nobile, altissimo principio, da impersonare un ente divino.  In tal senso operò Numa Pompilio, il Legislator sollemnis; la sua regia maiestas, che  quiete  edificò, non fu da meno di quella romulea che oprò pugnaciter. Infatti non si trattò di abbattere il romano valore, ma di costudirlo integro e rivolgerlo alla costruzione di uno stato saldo che potesse sviluppare grande potenza, onde rozzezza e durezza si mutassero in fulgida eroicità e la tempra romana si affermasse e manifesta risaltasse la sua energia civilizzatrice. Si stabilizzò sul Campidoglio la Triade divina arcaica – Juppiter Mars Quirinus – e il popolo romano divenne il popolo dei Quiriti, pronti per la pace, pronti per la guerra. Numa “creò un flamine addetto  diu  al culto di Giove con una veste speciale e il seggio curule riservato al re; vi aggiunse altri due flamini, uno per Marte, l’altro per Quirino. Ancora creò un collegio di dodici Salii, addetti al culto di Marte Gradivo; li distingueva una tunica ricamata e sopra la tunica una corazza di bronzo e fece loro portare gli ancili armi che si diceva cadute dal cielo; volle che essi andassero per la città cantando carmi marziali ed eseguendo danze solenni.” Numa istituì anche le vergini Vestali, perché custodissero in permanenza il tempio di Vesta e le volle venerabili e sacre. Fece anche edificare un tempio a Giano, quale segno di pace e di guerra. Quando le porte del tempio erano aperte la Città era in armi, quando erano chiuse regnava la pace. Durante quel periodo le porte del tempio rimasero chiuse. Vuol dire che il popolo romano era in gran concordia perché superna fides supernum numen vi regnava, e in figura di dea Fides. I Quiriti vegliavano e il padre Marte in loro; nessun complotto poteva sconvolgere la civitas, nessun contagio poteva penetrare nell’Urbe, non arma barbara offenderla, nessun animo ostile. Cum valida tum temperata et belli et pacis artibus erat civitas.