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ATTRAVERSO LE STAGIONI DELL’UOMO

                        

 

 

ATTRAVERSO LE STAGIONI DELL’UOMO

DISVELANDO L’OSCURO

 

   Trattando delle immagini degli Dei, Porfirio sostiene che esse immagini, “se appropriate”, portano alla luce, in sembianti visibili, le qualità invisibili delle divinità e che vanno e possono esservi, in esse, decifrati segni e simboli come fossero libri. Raffigurando con immagini qualità invisibili di essenze divine, l’artista, l’adetto del sacro, imita la natura, infatti essa si esprime per simboli. L’uomo moderno, disanimando la natura, ha desertificato di conseguenza la sua interiorità. Ciò gl’impedisce di decodificare il simbolo, cioè di mettere insieme, accordare, l’immagine interiore e la esterna rappresentazione. Questo infausto accidente ha avuto inizio con la perdita nell’uomo della spiritualità atavica, con la perdita del Padre interiore, cui è andato a sostituirsi un astratto spiritualismo, apparentemente contraddetto da un altrettanto astratto materialismo.Tutto è affidato ad un tenebroso cerebralismo, che nulla mai chiarisce. E, il νόος, l’intelletto luminoso?  Alla meglio, ci si affida all’intelligenza mentale, quella che guida i cinque sensi, vista, udito, olfatto, gusto e tatto. L’uomo moderno è pigro, figuratevi che per raggiungere i cieli, e alla fin fine si tratta solo di spazi, si fa chiudere in una scatola e si fa spedire, lassù o laggiù, come un pacco postale. Per nulla invece si cura del suo intelletto, che è il fiore divino cui è dato di nascere dall’unione di una mente immacolata, imperturbabile e di un cuore semplice e audace. Davvero, l’apertura di questo terzo occhio costa rischi e fatiche!

   Noi, che vogliamo spigrirci, raccogliamo un po’ di cocci e tentiamo, come stiamo tentando per quel che ci è dato, di rimettere in vita immagini ataviche, divine, ricercandole dove si sono incelate, negli scrigni favolosi custoditi dai miti di questa nostra ausonica terra.

 

 

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   DE NOMINIBUS DEORUM POPULI ROMANI DIOVIS ET VEDIOVIS

 

   In antiquis precationibus nomina haec deorum inesse animadvertimus: "Diovis" et "Vediovis"; est autem etiam aedes Vediovis Romae inter arcem et Capitolium. Eorum nominum rationem esse hanc comperi:  "Iovem" Latini veteres a "iuvando" appellavere eundemque alio vocabulo iuncto "patrem" dixerunt.  Nam quod est elisis aut inmutatis quibusdam litteris "Iupiter", id plenum atque integrum est "Iovispater". Sic et "Neptunuspater" coniuncte dictus est et "Saturnuspater" et "Ianuspater" et "Marspater" - hoc enim est "Marspiter" - itemque Iovis "Diespiter" appellatus, id est diei et lucis pater.  Idcircoque simili nomine Iovis "Diovis" dictus est et "Lucetius", quod nos die et luce quasi vita ipsa afficeret et iuvaret.  "Lucetium" autem Iovem Cn. Naevius in libris belli Poenici appellat.  Cum Iovem igitur et Diovem a iuvando nominassent, eum contra deum, qui non iuvandi potestatem, sed vim nocendi haberet - nam deos quosdam, ut prodessent, celebrabant, quosdam, ut ne obessent, placabant -, "Vediovem" appellaverunt dempta atque detracta iuvandi facultate.  "Ve" enim particula, quae in aliis atque aliis vocabulis varia, tum per has duas litteras, tum "a" littera media inmissa dicitur, duplicem significatum eundemque inter sese diversum capit.  Nam et augendae rei et minuendae valet, sicuti aliae particulae plurimae; propter quod accidit, ut quaedam vocabula, quibus particula ista praeponitur, ambigua sint et utroqueversum dicantur, veluti "vescum", "vehemens" et "vegrande", de quibus alio in loco uberiore tractatu facto admonuimus; "vesani" autem et "vecordes" ex una tantum parte dicti, quae privativa est, quam Graeci kata steresin dicunt. Simulacrum igitur dei Vediovis, quod est in aede, de qua supra dixi, sagittas tenet, quae sunt videlicet partae ad nocendum.  Quapropter eum deum plerumque Apollinem esse dixerunt; immolaturque ritu humano capra, eiusque animalis figmentum iuxta simulacrum stat.  Propterea Vergilium quoque aiunt multae antiquitatis hominem sine ostentationis odio peritum numina laeva in georgicis deprecari significantem vim quandam esse huiuscemodi deorum in laedendo magis quam in iuvando potentem. Versus Vergilii sunt: in tenui labor; at tenuis non gloria, si quem numina laeva sinunt auditque vocatus Apollo. In istis autem diis, quos placari oportet, uti mala a nobis vel a frugibus natis amoliantur, Auruncus quoque habetur et Robigus.

 

LA CAPRA E IL PILUM

 

LA CAPRAL’animale che vive, si adatta e prolifica nei luoghi più impervi. Simbolo quindi di fertilità e di vita; ma anche simbolo di indipendenza e quindi del mondo selvatico. È infatti un animale scontroso e testardo. Presso i Greci era sacra a Dioniso, il dio che veniva onorato con recite di tragedie (tràgos, caprone e oidè, canto), il canto dei capri, perché nelle recite tragiche i coreuti indossavano maschere caprine. La Musa della tragedia è Melpomene, figlia di Zeus e Mnemosine, cioè della potenza che governa il cosmo e della memoria. L’esito tragico è assoggettato all’imprevedibilità e quindi all’elemento oscuro, fatale, che si lega alla morte, al dolore, alle gioie e alla disperazione umana. La capra va a rappresentare tutto questo; è quindi simbolo dei passaggi, della chiusura e dell’apertura di cicli vitali.  Il canto dei capri: ritmi vitali, di morte e rinascita, ritmi di espansione e contrazione, di ascesa e declino, diastole e sistole; magnificazione dell’armonia cosmica! Un mito antichissimo racconta che Zeus infante veniva nutrito dalla capra Amaltea, in un nascondiglio boscoso a Creta per sottrarlo alla voracità del padre Crono. Zeus, non appena fu in grado, le strappò una delle corna e ne fece la cornucopia, emblema dell’abbondanza, con tal suo gesto significando il potere divino sulla natura. Arguto simbolo quindi la capra, come abbiam detto, della spontanea perpetua energia della natura che emette, libera e sparge fertilità e vita. Ma se, essa capra, è imparentata per etimo con il verbo carpere, strappare, spiccare, piluccare, è anche quell’animale che voracemente divora i giovani virgulti, i teneri viticci; dettaglio da non trascurare.

IL PILUMIl giavellotto, l’arma da getto, che si scaglia e perciò traversa, perfora, passa oltre. Il segno di Marte è un pilum su cui è deposto uno scudo tondo. La punta dell’arma, del pilum, e il glande, la parte terminale dell’organo erettile maschile, riscontrano; l’una e l’altro penetrano, entrambi completano la raffigurazione simbolica della virilità, la condizione assiale costituita dalla colonna vertebrale che, predisposta dalla natura appunto sul piano della vita biologica, deve però dall’uomo essere sul piano spirituale conquistata e consolidata. Congiunzione di Marte con Venere. Misteriose corrispondenze tra manufatti, organi del corpo umano, animali, piante, minerali, che riportano all’antica riflessione: l’uomo è un dio finito e Dio è l’Uomo infinito, cosa ben risaputa dai Romani. Sfogliando infine il vocabolario troviamo che pilum ha parentela con pangere  - conficcare, piantare -  il cui participio pactum richiama la conclusione di un patto e quindi di ciò che si rende fermo, saldo, fisso, costante.

 

 

IL PUER E IL SENEX

 

   Trattiamo qui del Puer ingenuus e del Senex ingenuus, cioè del Puer e del Senex liberi per nascita, non di individui, infante e vecchio, secondo lo stato di natura. Il Puer che nasce da padre libero, attento al culto familiare e al culto degli Dei Patri è appunto ingenuus e tale ingenuitas legata al culto del Genio familiare e attraverso di esso al Genio Patrio non deve essere turbata. Giovenale ammonisce: “Maxima debetur puero reverentia.” Scongiura i genitori di allontanare, per amore del figlio, dall’ambiente domestico tutto ciò che può macchiare le orecchie e gli occhi del fanciullo. Ammonisce i padri scostumati a non azzardarsi a macchiare l’innocenza immatura dei suoi anni. Anche Quintiliano invita ad evitare che al fanciullo si avvicini persona il cui animo è incline alle cose peggiori, mentem ad peiora facilem, e a non essere negligenti nella formazione del fanciullo e nel tutelarne il pudore nella prima età. E questo fino a quando crescendo il fanciullo non esca dal grembo e inizi seriamente ad imparare. Il Puer è dunque un germoglio, un virgulto che deve essere curato e protetto così come Amaltea nutriva il principio divino e lo proteggeva dalla voracità del tempo. Ma la capra è anche l’animale natura che strappa i giovani virgulti e li assoggetta al rumare del tempo. Ecco perché bisogna che il fanciullo esca indenne dal grembo.

   Il Senex che gode d’una vecchiezza valida e robusta, segno di una gioventù virtuosa, e che quindi non incorre nel processo involutivo della senescenza e del decadimento, è il rischio della tarda età, possiede in sé l’ingenuitas, il FANCIULLINO; anche a lui è dovuta grande riverenza, giacché la sua figura è adorna dei massimi pregi: Fides, Maiestas, Pietas, Virtus, Gravitas. Il più vecchio di tutti è l’Antico, Quello di sempre (sen-ex, sem-per), l’Eterno.

 

I U V E N T A

 

   IPuer, uscito indenne dal quintiliano grembo, deve affrontare le dure prove dell’esistenza. Egli è ormai un uomo robusto e forte, esuberante, rigurgitante di forze naturali; sente la spinta, l’urgenza di muoversi, di agire. È l’età della forza, del vigore. Vuole mostrarsi nella sua forza, sente crescere in lui questa forza. Vuole lanciarsi, produrre, gettare, generare, andare oltre sé stesso. Il canto dei capri lo stordisce; è animoso, scontroso, testardo. Lo avvolge e coinvolge la spontanea perpetua energia della natura che sparge e libera forze vitali. È una discesa agli inferi. Deve affrontarla! La natura, materna, assorbente e fascinosa lo cattura; indipendente, selvatica la capra gli fa da guida. Questa discesa agl’inferi è una necessità per raggiungere la virilità. Il mondo terrestre, con la sua natura selvaggia, soggetta al mutamento è tuttavia la realtà infera, benigna e maligna, ombra che gli sta di fronte, ma della quale anch’egli partecipa per umano destino. In questa realtà, concreta, egli deve vivere e creare sé stesso, forgiarsi come uomo, Vir. Questa discesa agl’inferi gli occorre per stabilire la sua giusta relazione fra cielo e terra, fra libertà e necessità. Quel germoglio, che è dentro di lui, chiede di venire in essere, nell’essere che gli è proprio. Non può sopravvivere nella mera naturalità; rischierebbe di perdersi nell’illusione fomentata dal canto dei capri. S’inabisserebbe nella fatalità. Deve impugnare le frecce e trafiggere le chimere. Deve sacrificare la capra e della sua pelle farsene una stola da fermare sull’omero sinistro ad ornamento della sua nudità; nudità finalmente riscoperta, delineata nella realtà delle sue forme, ricomposta nella sua originaria unità e che risponde al comando del Padre interiore. Deve riemergere dagl’inferi! Il pilum è ora la sua arma, l’arma da getto che penetra, che tragetta. Ora, liberato dalle passioni, dall’oscuro, gli son chiari gli orizzonti, i profili dei monti, il corso dei fiumi, le immagini tutte della natura reale; svanita è la fantasmagorica, illusoria, irreale trama. Ora gli son chiari i suoi gesti, le sue azioni; potrà svolgere opera di giustizia, in pace e in guerra; luminosa la via, la sua meta. Ora potrà trasferire dal Puer, incorrotto ed integro, il fanciullino al Senex, al più Vecchio di tutti, a Quel di sempre, all’Eterno.

 

 

VEDIOVIS

 

Ad Ianum redeat, qui quaerit, Agonia quid sint:

quae tamen in fastis hoc quoque tempus habent.

                                                          Ovidio, Fasti V

 

   E noi torniamo volentieri ai tempi di Giano, per avere notizia di Vediovis, appurato dai suoi versi che Ovidio nulla ne sa. Dal brano di Aulo Gellio poco abbiamo accertato, comunque ci dice che era nominato in antiche preghiere. Quindi un dio antico caduto in oblio? Da tempo la filosofia greca, anche nelle sue correnti più razionalistiche si era diffusa nel mondo romano. Il pensiero e il discorrere filosofico avevano sopraffatto la realtà, l’astrazione, il ragionamento ipotetico, persino il dubbio si erano ormai diffusi. L’indeterminatezza cominciava a prendere il posto della concretezza propria del Romano. Si cominciava a profilare l’avvento del mondo moderno, con la ragione che pretende di spiegare tutto, togliendo così carattere sacro alla relazione tra gli uomini e il mondo e quindi tra gli uomini e le entità divine che vi agiscono. Si sa che la realtà oggettiva in parte è visibile o constatabile, ma c’è anche una parte di essa che sfugge ai sensi dell’uomo e su cui non fanno luce i cosiddetti lumi della ragione. Ma l’uomo che tende all’integralità non può trascurarla, anche in essa, che pur possiede oggettiva concretezza, egli tende ad espandersi. Codesta realtà oscura, ma pur concreta, vale a dire l’oscuro oggettivo insieme di stati intentati, nascosti alla ragione, limite della condizione umana, può essere sperimentata e conosciuta dall’agente attraverso la relazione con la corrispondente entità divina, reggente tale realtà, che propizia si manifesta dal momento che vien sollecitata da rituale e giusta azione. 

   Tale è Vediovis, quel dio che, indosso sulla sua nudità la stola di pelle di capra, disvela ciò che s’incela alla ragione pur essendo realtà concreta aperta all’azione e all’aspirazione dell’uomo nelle stagioni della sua vita, dall’infanzia alla vecchiezza. La svela con un semplice gesto, scagliando il pilum…

 

   Esaminate l’immagine del Dio, che vi proponiamo, osservatene attentamente il gesto e cercate d’intuire a cosa accenna con le dita delle due mani in equilibrio tra l’alto e il basso…  

 

 

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