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BEN SAI CHE SAGGIO È IL MESE DELLA ROSA IL MAGGIO DELLA GRANDE DEA SPAZIOSA

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BEN SAI CHE SAGGIO E' IL MESE DELLA ROSA

IL MAGGIO DELLA GRANDE DEA SPAZIOSA

 

31 Maggio. – Qui, nella valle, la giornata è stata piovosa; vento e pioggia! Il tramonto s’adopera a sgombrare in parte le nuvole, ma c’è da supporre che anche domani, il primo di giugno, ci sarà pioggia e vento.

 

Pliadas aspicies omnes totumque sororum

Agmen, ubi ante Idus nox erit una super.

Tum mihi non dubiis auctoribus incipit aestas,

Et tepidi finem tempora veris habent.

 Ovidio,Fasti V

 

“Nella notte avante le Idi/Tutte vedrai le Pleiadi, /L’intero sciame delle sorelle./Allora, così mi dicon gli esperti,/Ha inizio davvero l’estate,/E della mite primavera/Compiuti saranno i giorni.” Il passaggio stagionale dal primo vere alla aestas era dunque correlato, secondo Ovidio e i suoi esperti, all’apparizione nel cielo notturno dell’intero stuolo delle Pleiadi.

   Siamo giunti all’ultimo giorno di maggio e l’estate è alle porte. L’estate: aestus, ardore! Splendore! La stagione dell’abbronzatura, che fa la pelle bruna, che cuoce la terra, che fa maturare ma pur marcire i frutti. La stagione della tintarella e delle vacanze…

   È su questo passaggio stagionale che vogliamo soffermare, per un tratto, la nostra attenzione. Maggio, il mese di Maia, la più bella delle Pleiadi, dell’intero sciame delle sorelle, la sagace, presaga Maia. Maggio, il mese che Romolo, su suggerimento dell’avo Numitore, volle fosse dedicato ai Maiores. Il mese nel quale alta risuona la Maiestas del Consilium supremo, del Consiglio divino. Maggio, il mese in cui fiorisce la rosa, il fiore odoroso che prospera e si erge su verde arbusto protetta dalle spine; il fiore della salute e della bellezza, il colorito roseo del volto.

 

   Hinc ubi protulerit formosa ter Hesperos ora,/ter dederint Phoebo sidera victa locum,/ritus erit veteris, nocturna Lemuria, sacri:/inferias tacitis manibus illa dabunt./Annus erat brevior, nec adhuc pia februa norant,/nec tu dux mensum, Iane biformis, eras:/iam tamen exstincto cineri sua dona ferebant,/compositique nepos busta piabat avi./Mensis erat Maius, maiorum nomine dictus,/qui partem prisci nunc quoque moris habet./Nox ubi iam media est somnoque silentia praebet,/et canis et variae conticuistis aves,/ille memor veteris ritus timidusque deorum/surgit (habent gemini vincula nulla pedes)/signaque dat digitis medio cum pollice iunctis,/occurrat tacito ne levis umbra sibi./ Cumque manus puras fontana perluit unda,/vertitur et nigras accipit ante fabas,/aversusque iacit; sed dum iacit, 'haec ego mitto,/his' inquit 'redimo meque meosque fabis.'/hoc novies dicit nec respicit:umbra putatur/colligere et nullo terga vidente sequi./Rursus aquam tangit, Temesaeaque concrepat aera,/et rogat, ut tectis exeat umbra suis./ Cum dixit novies 'Manes exite paterni',/ respicit et pure sacra peracta putat./Dicta sit unde dies, quae nominis exstet origo,/me fugit: ex aliquo est invenienda deo./Pliade nate, mone, virga venerande potenti:/saepe tibi est Stygii regia visa Iovis./Venit adoratus Caducifer. Accipe causam/nominis: ex ipso est cognita causa deo./ Romulus ut tumulo fraternas condidit umbras,/et male veloci iusta soluta Remo,/Faustulus infelix et passis Acca capillis/spargebant lacrimis ossa perusta suis./Inde domum redeunt sub prima crepuscula maesti,/utque erat, in duro procubuere toro./Umbra cruenta Remi visa est adsistere lecto,/atque haec exiguo murmure verba loqui:/'en ego dimidium vestri parsque altera voti,/cernite, sim qualis, qui modo qualis eram!/Qui modo, si volucres habuissem regna iubentes,/in populo potui maximus esse meo,/nunc sum elapsa rogi flammis et inanis imago:/haec est ex illo forma relicta Remo!/ Heu ubi Mars pater est? Si vos modo vera locuti,/uberaque expositis ille ferina dedit./Quem lupa servavit, manus hunc temeraria civis/perdidit. O quanto mitior illa fuit!/Saeve Celer, crudelem animam per volnera reddas,/utque ego, sub terras sanguinulentus eas./Noluit hoc frater, pietas aequalis in illo est:/quod potuit, lacrimas in mea fata dedit./Hunc vos per lacrimas, per vestra alimenta rogate,/ut celebrem nostro signet honore diem.'/ Mandantem amplecti cupiunt et bracchia tendunt:/lubrica prensantes effugit umbra manus./Ut secum fugiens somnos abduxit imago,/ad regem voces fratris uterque ferunt./Romulus obsequitur, lucemque Remuria dicit/illam, qua positis iusta feruntur avis./Aspera mutata est in lenem tempore longo/littera, quae toto nomine prima fuit;/ mox etiam lemures animas dixere silentum:/hic sensus verbi, vis ea vocis erat./Fana tamen veteres illis clausere diebus,/ut nunc ferali tempore operta vides./Nec viduae taedis eadem nec virginis apta/ tempora: quae nupsit, non diuturna fuit./Hac quoque de causa, si te proverbia tangunt,/mense malas Maio nubere volgus ait./Sed tamen haec tria sunt sub eodem tempore festa/inter se nulla continuata die.

 

   Abbiamo riportato qui i versi di Ovidio, tratti dal libro V dei Fasti, relativi alle celebrazioni per i Lemures, che appunto ricorrevano in tre successive date dispari 9, 11 e 13 del mese di maggio. Come mai queste celebrazioni attinenti ai defunti nel mese della rosa, il fiore della salute? Ebbene, seguiamo Ovidio! L’anno una volta era più breve, Giano non ne era ancora la guida. Già a quei tempi, egli ci dice, si recavano doni al cenere degli estinti e degli avi sepolti: mensis erat Maius, Maiorum nomine dictus; nel mese di maggio, che prendeva il nome appunto dai Maiores. Chi poteva aver paura dei Mani? dei Maiores? Solo coloro che tradivano i Padri, i traditori del costume paterno, i traditori del Mos, i traditori della Patria. Quale il significato del dono portato sull’urna dell’avo, se non una severa cerimonia in cui il nipote offerente confermava a sé stesso davanti alle ceneri avite di essere il fedele continuatore della stirpe e delle tradizioni patrie? Certamente era così, infatti Ovidio ci ricorda che ai tempi suoi si conservava ancora in parte l’antica consuetudine.

   A tal punto dobbiamo avvertire, nel momento in cui ci inoltriamo ad esaminare quest’antica cerimonia, che noi non ci rifaremo per niente ai concetti e alle superstizioni religiose oggi prevalenti, né alla rappresentazione della morte, oscura e spaventosa, degli uomini d’oggi. Tantomeno ci rifaremo alle credenze spiritiche e dei morti e dei fantasmi che tornano sulla terra ad insidiare i viventi. Tutte grossolane superstizioni; forse, ai tempi di Ovidio, già purtroppo praticate dalle anime etruscheggianti, crepuscolari e simili. Ma cosa faceva un Pater familias romano memor veteris ritus? Si scalzava, a mezzanotte, e rimaneva a piedi nudi sulla terra, le ceneri degli Avi, e con segni precisi scongiurava che ombre si facessero incontro a lui; silenzioso, imponeva a sé stesso che la sua mente, purificata, non macchiasse quel silenzio di fosche ombre, così ch’egli potesse evocare ed invocare in sé l’essenza pura dell’Antenato, non turbata da tratti e impressioni effimere, memorizzate. Dopo aver deterso e purificate le mani in acqua di fonte raccoglieva nere fave e gettandole dietro le sue spalle diceva: “Haec ego mitto, his redimo meque meosque fabis”. Ripete questa formula nove volte senza guardarsi alle spalle. Lui procede verso la luce e conduce con sé i suoi familiari; dietro l’uomo c’è l’ombra. Dice il poeta: “Umbra putatur colligere et nullo terga vidente sequi.” È credenza che l’ombra le raccolga e, senza esser vista, lo segua. E qui bisogna capir bene cosa l’ombra raccoglie. Pensateci, perché è indubbio che le fave rimanessero sul suolo, e certo il Pater familias non poteva ingannare sé stesso con una sciocca credenza. Infatti, continua Ovidio, tornava a purificarsi e a far risuonare bronzei cembali, dopodiché pregava ut tectis exeat umbra suis e per nove volte diceva: “Manes exite paterni!” Così si liberava del suo io egoista, purificandosi anche della passata ottenebrante storicità, cioè, di tutto ciò che l’uomo, venendo sulla terra, accumula soprattutto nel periodo della gioventù, e che gli deriva anche da un non curato passato familiare ; un mondo falso, fatto di sogno, d’un vivere  artefatto, innaturale; effimero mondo di fantasmi, che è proprio dei morti in vita, cioè composto ( o decomposto?) di tutte quelle forze sovrasensibili umidicce ed impure, che influiscono sull’uomo terrestrizzato e, ottundendone la coscienza, fanno di lui un dimentico di sé, un vano sognatore, un LEMURE: ossa tendini legamenti; un lemure che si muove come un automa, senza consapevolezza, incapace di un virile essere, del virile agire.