CERERE - LA SPIGA

C E R E R E - LA S P I G A
…neque illum
Flava Ceres alto nequicquam spectat Olympo…
Virgilio, Georgiche I
L’agricoltore che con l’aratro dissoda la terra, che con il rastrello sgrossa e raffina le zolle e, con la sua spinta, dispone, forza le porche ai suoi fini, domina il campo (imperat arvis), non senza un motivo dall’alto Olimpo è osservato dall’aurea Cerere. Il colere - il coltivare, il curare, l’operare fecondo - il c u l t o è il fondamento del mos romano.
…Labor omnia vicit
Improbus et duris urgens in rebus egestas…
Tutto vince il lavoro diligente, l’opera perseverante, l’impresa audace, e la necessità, l’esigenza, l’occorrenza, spronano nelle difficili circostanze.
…Pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Dispose Giove, sempre Virgilio nelle sue Georgiche, che l’arte del coltivare i campi non fosse facile cosa e per primo smosse la terra con tale arte, predisponendo anche i cuori mortali a queste cure, onde essi non impigrissero nell’ozio.
Ante Jovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris
praedarique lupos jussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis, ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artes
paulatim et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excunderet ignem.
Prima di Giove (durante il regno di Saturno) i campi non venivano lavorati, non vi erano delimitazioni né suddivisioni, tutto era in comune e la terra, senza che le venisse richiesto, produceva tutto liberamente per tutti. Giove immise il veleno mortale nei serpenti, comandò ai lupi di predare, al mare di agitarsi e che il miele cadesse giù dalle foglie; nascose il fuoco e impedì che il vino scorresse dappertutto a rivoli; fece queste cose onde la mente umana operasse per dar vita alle arti e tra i solchi cercasse il modo di far crescere il frumento e riuscisse a scoprire la fiamma nascosta nelle vene della selce.
In breve, i romani non stravedevano per il “paese della cuccagna”!
Con i versi Virgiliani ci siamo introdotti nel mito romano. Nel mito romano non c’è nulla di favoloso, nulla di fantasioso, nulla che alimenti vana esaltazione; per il romano c’è solo la realtà, la nuda realtà. Il romano non s’abbandonava a congetture fantastiche, né riguardo alla vita umana né riguardo al divino; la vita umana deve svolgersi nel qui ed ora e l’azione umana deve forgiare il qui ed ora. Dall’alto Olimpo l’aurea Cerere (spectat) ha lo sguardo rivolto all’umano agire nel qui e ora. Immagini speculari dell’esatta corrispondenza tra temporale e atemporale; tra il modello divino, che trascende il tempo e l’azione giusta dell’uomo a quell’archetipo indirizzata, e voluta nel qui ed ora.
Et spicis tempora cinge Ceres
Tibullo
La dea, il modello celeste, una delle espressioni divine nel perennare, è coronata di spighe;
Flava Ceres, tibi sit nostro de rure corona
spicea, quae templi pendeat ante fores.
L’opera dell’uomo sulla terra si è compiuta, il cultore del campo ha raccolto le spighe, il tempio di Cerere ha la sua corona. Il seme celeste e il grano terrestre han germogliato insieme; un unico raccolto. Questa è la Cerere Italica. Non ci interesseremo qui del mito greco e delle sue varie versioni poetiche, ma vogliamo figgere la punta dello sguardo nella diva immagine nostrana, così come ci è tramandata. Spiga, anch’essa è da assimilare a spicio: io guardo? Ebbene noi terremo fisso lo sguardo nell’idea come impressa nella mente ancestrale, nostra! Vogliamo penetrare in essa idea e lasciarci da essa penetrare; la nostra, viva e vera, ripulita dall’alito dell’Asia, dalle sbavature della decadenza grecula, dalle divagazioni nei tenebrosi misteri etruschi, dagli esotismi, dai vacui idealismi, dalle romanticherie che tanto affascinano le anime vacillanti. Gli Dei, come suggerisce Dante, non devono essere falsi e bugiardi; per aversi un culto veritiero, la menzogna non deve abitare nel cuore dell’uomo. La menzogna è sterco infecondo. Il campo deve essere sapientemente coltivato, giusto come richiede il volere deificante, affinché questo felicemente abbia a manifestarsi e s’inveri. Solo dopo aver adempiuto a tanto, anche l’atto cultuale risuona veritiero; rifulgerà nel qui ed ora, in perfetta concordanza con il cielo.
Prima Ceres homine ad meliora alimenta vocato
mutavit glandes utiliore cibo.
Illa iugo tauros collum praebere coegit:
tum primum soles eruta vidit humus.
Pace Ceres laeta est; et vos orate, coloni,
perpetuam pacem pacificumque ducem.
Farra deae micaeque licet salientis honorem
Detis et in veteres turea grana focos,
et, si tura aberunt, unctas accendite taedas:
parva bonae Cereri, sint modo casta, placent.
Ovidio, Fasti IV
I doni della dea, e le semplici offerte a lei degli antichi popoli italici! Kerres o Kerria, così la chiamavano gli osci e gli umbri, i romani Ceres, era antichissima divinità indigena. Dea della fertilità, che dà abbondanti raccolti, era associata a Liber Pater, il dio agreste del vino che aveva per compagna Libera e seguita da uno stuolo di numi per ogni particolare lavoro agreste, tutti numi utili e benevoli, agente ognun d’essi secondo la propria natura: Obarator, l’aratore, Sarritor, il sarchiatore, Messor, il mietitore, Insitor, l’innestatore, Imporcitor, il seminatore, Occator, l’erpicatore, Conditor, il magazziniere, Vervactor, il curatore del fieno maggese, Subruncator, l’interratore. Tutti questi dei indigeti presiedevano con ordine e minuta attenzione ai vari lavori del campo coltivo. A voi, giovani d’oggi, sarà difficile immaginare a quale ardua disciplina e a quali gravose attenzioni doveva esser rivolta la mente e il braccio di un agricoltore di quei tempi; non si trattava di gesti automatici ma di azioni ponderate, adeguate al caso e responsabilmente eseguite; al contrario, l’operatore veniva abbandonato dal nume evocato per inettitudine, per l’ incapacità di realizzare nel qui ed ora; ciò comportando l’insuccesso, un cattivo esito del raccolto. Certamente, vi è difficile immaginarlo! Voi così curialeschi nel vantare, a destra e a manca, conoscenza e acquisizioni super-trascendentali, mentre siete riluttanti a dedicarvi alla proba fatica di sgonfiare il fatuo, ambizioso “io” e di edificarne uno un tantino più modesto, ma che vada incontro al disegno tracciato nei cieli della vostra Patria, al fine di risollevarne i destini e ricondurvi sani e puri al culto ancestrale. Ebbene, rivolgetevi alla dea coronata di spighe, a Kerres, colei che è il principio del crescere e dell’accrescere; la matrona severa, maestosa e dal bel profilo italico, la Ceres dei latini che reca tra le dita la spiga, l’unità da cui emana la numerosa semenza, e pregate che dentro di voi si spalanchi il Cereris mundus (il V.I.T.R.I.O.L.) affinché invasati dallo spirito di Cerere celeste, Madre terrestre dei semi, dei germi, dei feti, delle larve, Signora delle mutazioni, possa in voi prodursi un empito fecondo e con l’aiuto di potenti Mani rigenerarsi nelle vostre menti e nei vostri cuori il Patrio sentire; possiate così crescere operosi e divenire alberi fruttiferi.
Certo, non è facile; ma, tocca a voi! Il Padre rimarrà inflessibile. E sappiate: il menzognero, l’impuro, l’indegno, l’inetto, il prevaricatore non è ammesso alla presenza del Padre. (…) Pater ipse colendi/haut facilem esse viam voluit…
Durum a stirpe genus natos ad flumina primum
deferimus saevoque gelu duramus et undis;
venatu invigilant pueri silvasque fatigant,
flectere ludus equos et spicula tendere cornu.
At patiens operum parcoque adsueta iuventus
aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.
Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum
terga fatigamus hasta, nec tarda senectus
debilitat viris animi mutatque vigorem:
canitiem galea premimus, semperque recentis
comportare iuvat praedas et vivere rapto.
Virgilio, Aen, IX 603-613