NATUS PATRIAE

N A T U S P A T R I A E
L’uomo ha un suo ruolo nel mondo, quello di esser partecipe della realizzazione del cosmo, purché egli sia in grado di pensare attivamente il mondo e d’intervenire con giusto e consapevole proposito. L’uomo non deve assoggettarsi alla falsa rappresentazione di un mondo giunto a pieno compimento; questa narrazione fa dell’uomo un individuo passivo, una creatura limitata di fronte ad un universo illimitato, una parte minuta di un incommensurabile creato. Il sentimento creaturale, del perituro, proprio del mondo semitico, ha invaso il nostro spazio; un tempo era estraneo a questi lidi. Soprattutto estraneo agli antichi popoli: romani, latini, italici; in questi, viceversa, allignava il senso o persino la coscienza dell’imperituro. Questi nostri antenati, che attraverso la conoscenza del sacro e la pratica della virtù eroica intervenivano nel mondo sovrasensibile, tesero sempre a render partecipe la stessa realtà fisica, sublimandola a perfezione ideale, della suprema armonia divina. Questo attuavano realizzando, con costante operosità, in ogni atto quotidiano i modelli di vita trasmessi loro dagli antichi Padri.
Da questi nostri progenitori apprendiamo dunque che l’uomo nasce sulla Terra non per indugiarvi solo nella condizione terrestre, ma per sperimentare nella molteplicità della vita materiale la stessa natura divina; e ciò con la guida dei propri Penati. Era, questa, loro somma cura ed iniziavano l’opera coltivando, fin dal momento del concepimento e durante la sua infanzia, la loro discendenza.
C’è stato osservato: Non è da parte vostra azzardato parlare di entità divine, oggi e con tanta serietà, così come riferite nell’antica Roma ai nascituri e ai pargoli in fasce? Oggi che luminari della pediatria, puericultori, psicologi dell’infanzia, eccetera hanno sviscerato ogni segreto?
Siamo nell’età del materialismo, praticato anche dalle dominanti latrie, e noi non abbiamo alcun interesse qui a far valere nostre opinioni. Perciò, tralasciando interessi e opinioni personali, ci facciam forti e sicuri di quel che i nostri Padri ci han tramandato di realmente meraviglioso, e non sciatto e pedestre come oggi vuolsi, proseguendo il nostro cammino con la guida loro. E per dare un saggio di come ci lasciamo benevolmente plagiare da quei nobili antenati, ci occuperemo qui, in questo breve scritto, ancora d’infanti e di fanciulli, delle loro fate e dei loro genietti, avvicinandoci in silenzio e in punta di piedi ad una antica culla.
Vi troveremo in azione, infatti, quattro entità geniali (ci limiteremo a queste); due fate e due genietti: Cuba – Fabulino – Statulino – Educa. Queste quattro entità geniali non si trovano lì per caso, ma perché è stata preparata loro un aura propizia. Una tranquilla domus abitata da una matrona, cittadina romana che secondo il mos romano è andata in sposa a un cittadino romano. Il Pater familias ha affidato alla sposa la cura della casa e con essa, e sotto la sua protezione, la cura e la crescita dei figli nascituri. Questa signora, che è la domina assoluta di tutta la realtà domestica, donna castissima, raffigurante quasi una divinità femminile, disdegna le cariche pubbliche e la dura combattiva attività politica. Il suo ruolo è quello di dolce madre e moglie fedele; è l’onorata mater familias, la filatrice di lane, come erano già state le sue degne divine antenate, le fate veridiche Parica, Nona e Decima. Perciò nel calendario romano era fissata dal costume patrio alle calende di marzo la festa dei Matronalia in loro onore. Occorre ritenere che anche il futuro padre, il civis romano, sia un uomo virtuoso, coraggioso e pio.
Ora possiamo appressarci alla culla. La stanza è ariosa, silente. Presso la culla c’è Cuba. Invisibile? Cubo, cubare, esser coricato, giacere disteso, dormire. Il fantolino, infatti, guardatelo or che è fuori dalle fasce, giace sul dorso, cubat… Il faccino, il petto, il piccolo ventre, le braccine, il sesso, in questo caso è un maschietto, le gambette; c’è tutto il bimbo ed è volto verso l’alto, il nascituro è sulla Terra ma rivolto al cielo, cubat sul tenero dorso.
Se osservate il cuccioletto d’un animale, vedrete che la bestiola invece giace sul ventre, il musino a contatto con il suolo; tutto denota una esclusiva terrestrità.
Allora? Davvero è invisibile Cuba, la dolce, presso quella latina culla? Ma sì che è là, visibilissima, or che il puttino è sveglio e sorride e muove le braccine sollevandole al cielo e son presenti entrambi i genitori e il padre sorridente ne ispeziona le tenere membra; entrambi presso quella cuna come fosse la cuna del mondo.
Ritorniamo noi ora in quella cubiculla, il piccolo ambiente destinato all’infante. Vi regna un casto silenzio; in quella stanza non si udranno litigi, diverbi, non discorsi insulsi, parole vane, sconce; è quasi un sacrario. Solo suoni lievi, armoniosi; il ninnare lento, le ninnenanne materne; discorsi misurati, prudenti, anche riguardanti faccende quotidiane; discorsi semplici, affabili, familiari. Un ambiente sano, sereno; mai un’atmosfera ostile. In quei primi mesi di vita al bimbo deve essere trasmesso il senso di una natura accogliente, di un eloquio corretto, castigato, di abitudini sane, oneste, probe. Mai devono mancare l’affetto e le tenerezze materne. Così la tenera mente sarà aiutata nel suo sviluppo e, senza accorgersi, assimilerà la virtù trasmessa dall’ambiente e lui, il piccolo, si sentirà sollecitato a comunicare con quelli che lo circondano, a rispondere all’affabulare materno, ai suoni, alle parole che ascolta. Fabulino ora collabora con Cuba. Fabulino: stimolo impulso incitamento, dall’interno; richiamo invito incoraggiamento, dall’esterno. Nel piccolo sacrario energie sottili agiscono per le virtù coltivate dagli adulti, ponte verso quel tenero essere in formazione che comincia a comprendere di trovarsi in un mondo diverso da quello da cui proviene e tende quindi ad uscir dalle fasce per conoscere e adattarsi pienamente allo spazio che lo circonda.
Fabulator, il favoleggiatore, prima; fabulor, fabulari, il favellare, poi…
Fabulinus agisce, dà il la…
Presso la dolce culla or Fabulino
canterella le favole del mondo,
quelle più belle e antiche,
e la e la e la, e lalla lalla…
E la casta Matrona sorride felice, e ne dà l’annuncio:"Puero data fandi copia".
Erano le prime sillabe, le prime parole pronunciate da un fanciullino che si accingeva a diventare civis romanus. Un cittadino di Roma non dovrà mai abusare della parola; essa sarà la cifra, il segno delle sua inclinazione, della sua azione; il linguaggio sarà il vero stigma delle sue virtù, della sua nobiltà. L’eloquio del civis romanus non è quello di un comune mortale. Il verbo for, faris, fatus (a,um)sum, fari, si traduce: dire, parlare, narrare, profetare; quindi anche il verbo dei Vati; infatti contiene la parola fatum, fato, destino, oracolo, vaticinio; quindi esprime anche la decisione fatale, che può aver felice esito o produrre sciagura, sventura. Al plurale, fata,la vita, le divinità fatali. Mediante la voce dei vati, dei sommi magistrati in circostanze decisive della vita dello Stato, dei condottieri sui campi di battaglia, si rendeva noto il volere, l’ordine degli stessi dei.
Un letterato del medioevo, Vulgario, così ancora nel X secolo poetava,
Roma caput mundi, rerum suprema potestas,
terrarum terror, fulmen quod fulminat orbem,
regnorum cultus, bellorum vivida virtus,
immortale decus solum, haec Urbs super omnes.
Per tanta onerosa responsabilità, il Romano antico non poteva esimersi dall’invocare, evocare ed onorare le Virtù ed i Geni della stirpe, anche al cospetto della cuna della sua infanzia. Naturae sequitur semina quisque suae. Così Properzio. Le basi sono offerte dalla Natura, a questa va aggiunto l’acquisizione del patrio Mos, osservato con religioso scrupolo, e l’esercizio delle tramandate ataviche virtù.
Il duttile genio di Fabulino ha operato bene. Abbiamo visto testé sorrider felice una casta madre romana. Il lattante in fasce, con il capo volto ai septem triones e i piedini al meridionem, deve ora venir fuori dalla culla. La parola autorevole, le labbra oranti, richiederanno un dì lo “star ritto”, il saper star fermo in piedi e il camminare eretto; l’attitudine a percorrere la diritta via. Uno stimolo ora lo punge, lo spinge… Un’energia sottile? Una misteriosa entità che agisce come “in-dole”, agisce dentro per al/ol-ere, far crescere; forza ingenita? È un istinto? Sì! Se lo intendiamo non materialisticamente, ma propriamente nel significato latino di in-stinctus, cioè spinto, stimolato; ex-citatus, eccitato nel senso proprio di fatto venir fuori, svegliato, sospinto.E chi è l’Instinctor? L’Incitatore?
Già Statulino a lui s’appressa, e dice:
“Sta’ ritto sui tuoi piedini, bimbo,
avanza con passo pronto e sicuro,
pargolo, sulle belle,
fiorite rive della Patria tua,
va’, per te sorge la romana aurora!”
* * *
Un anziano amico ci raccontava che sedendo nei banchi del liceo, nei lontani anni ’50 dello scorso secolo, un vecchio professore di tendenza crociana, si mostrava pessimista sull’avvenire della scuola italiana. Soleva dire che la denominazione Ministero della Pubblica Istruzione (attuale MIUR), non era appropriata e addirittura, a suo parere, insignificante. Sosteneva che quella precedente, cioè Ministero dell’Educazione Nazionale, era indubbiamente pregna di alto significato, perché conteneva appunto il termine “Educazione”.
Infatti, se solo consideriamo il significato dei termini “educazione” e “istruzione”, non possiamo dar torto a quel professore. L’Educazione è quella disciplina che serve a condur l’uomo fuori dalla rozzezza naturale, nella quale perdurando, degraderebbe nell’imbarbarimento. Essa coltiva le inclinazioni virtuose dell’animo umano, le tira fuori e ne nutre la mente, chiarificando la facoltà di pensare e indirizzando verso l’alto la potenza intuitiva. L’educare è un atto di civiltà. L’Istruzione è un minus; è formazione meramente tecnica. L’instructus è ciò che è costruito, composto, fabbricato. Il verbo latino struere ha appunto il significato di disporre a “strati”, cioè fabbricare. E anche quello più obliquo di “macchinare”. Chiedere a una persona “quid struis?”, ai tempi cui ci riferiamo, significava: che vai macchinando? Che vuole dire, che vai tramando, quali inganni? Macchinare è quindi apparecchiare macchine (ed anche trappole!); nel senso figurato, poi, vi si aggiunge il significato di ammaestrare, di addottrinare; processi non certamente gratificanti. Gli attuali “padroni del vapore” sono ben lungi dal volere uno Stato come Cultura, cioè educativo; interessa loro solo ammaestrare, addottrinare; in breve, come già arguito, apparecchiare macchine. Essi vogliono una società non di uomini, ma di automi.
Orbene, sappiamo, ce lo tramandano Varrone, Aulo Gellio ed altri, che l’educazione romana tendeva a sviluppare armonicamente sia le attitudini etiche che quelle intellettuali e fisiche e, solo in una fase successiva, veniva preso in considerazione l’istruire. Prima educare, cioè far da guida, solo più tardi docere, istruire. Le virtù di cui si dava esempio e di cui si pretendeva la pratica già dall’adolescenza, erano la continentia, la moderatio, anche nel mangiare, nel bere; era richiesto di reprimere l’ira, l’esaltazione, le infatuazioni, era apprezzata la fermezza di propositi, la perseveranza nella pudicitia; si esigeva il rispetto dei genitori e quindi dei Maiores; la venerazione dei Senex, della Lex e della patria Religio; il costante severo esercizio della Pietas. La gioventù romana doveva essere, in pace ed in guerra, preparata alla difesa della Patria. Natus Patriae. Era la Patria, occorre ricordarlo qui, la custode della Aeternitas Romae.
Per tal compito occorreva educare il romano a diventare Vir.
Naturae sequitur semina quisque suae.
Italicum, romanum semen, la base offerta dalla natura. La disciplina alla pratica della Virtus, la condizione, il requisito culturale. Orba è la natura non coltivata, orba quando la divina Educa non interviene. Un terreno buono, un coltivatore esperto, semente di qualità, suggerisce Plutarco, equivalgono buone doti naturali, buon maestro, consigli e precetti virtuosi. Così si forgiano le anime destinate ad azioni da celebrare altamente. Le piante che non si curano diventano infruttifere. La natura umana non curata si corrompe e dà frutti marci. Austeri principi educativi, precisi insegnamenti, giusti orientamenti di vita generano virtù.
Abbiamo testé ricordato la divina Educa ed essa ci riporta ai primi giorni di vita del fantolino romano, ci riporta la figura della casta Matrona, sua madre, quella che lo accompagnerà sino all’età della fanciullezza; una madre tenuta a un rigoroso controllo di sé fino a dover moderare le stesse manifestazioni del suo affetto onde evitare di indebolire psicologicamente il figliolo.
Educa, fata della prima infanzia e severa dea dell’adolescenza!
Due verbi latini e un aggettivo:
Edŭco, as, ávi, átum, áre - educare allevare nutrire
Edúco, is, edúxi, edúctum, ĕre - trarre tirar fuori estrarre allevare
Edūlis, e - mangereccio che nutre
Cogliete l’etimo di queste tre parole, penetratene il valore tanto significativo e capirete l’intento “edulico” del suo divino agire. Educa è tutto questo, è colei che nutre ed educa. E scopriamo una cosa sorprendente, l’educazione principia con il latte. Educa, l’edulica, favorisce il latte, segue e asseconda la crescita infantile, alleva, guida, estrae dai precordi le virtù congenite. Plutarco consiglia: Le madri devono nutrire personalmente i figli e porgere il seno. La natura chiaramente indica che spetta alle madri allattare e allevare personalmente i loro figlioli. Per questo assicura a tutti gli esseri che partoriscono il nutrimento del latte. Questa è la vera maniera di crescere i figli ed è come una chiave che tende le corde dell’amore.
Infanzia, adolescenza sono età tenere, prive di durezza, duttili, vi si imprimono duraturi gli insegnamenti, come sigilli nella molle cera.
Maxima debetur puero reverentia.
È tutta compresa in questo verso di Giovenale la disciplina educativa romana.
Educa è tutto questo ancora. E’ la lupa capitolina dalle mammelle roride del bianco umore degl’inizi, di quei muti primordi in cui, chi sa e vede, raffigurerà l’Avo primigenio.