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UNO SGUARDO NELLA PREISTORIA

                        

 

 

UNO SGUARDO NELLA PREISTORIA 

 

Lo secol primo, quant’oro fu bello,

fé savorose con fame le ghiande,

e nettare con sete ogne ruscello.

                               Dante, Commedia - Cantica II 

 

   La foresta si stendeva dall’uno all’altro orizzonte, a perdita d’occhio; un verdeggiare immenso sotto la volta luminosa del cielo. Una vegetazione lussureggiante ricopriva, dagli inizi dell’era quaternaria, l’intero territorio del Lazio ed i luoghi dove sorgerà poi Roma. Gli uomini di quell’epoca lontana conoscevano i sentieri dell’immensa foresta e le grandi, medie, piccole radure che s’aprivano naturalmente nelle boscaglie. Il suolo delle foreste riceveva solo una pallida luce filtrata dalle fronde e dai fitti fogliami, le radure vi aprivano dei varchi ed in quei punti il terreno, raggiunto direttamente dal fulgore solare, si vivacizzava, ignito di un magnetismo asciutto e carico di energia. In quei luoghi (luci) il vento trasportava semi che germogliavano in meravigliose fioriture. Queste fioriture contrastavano con la silente monotonia della foresta; si manifestava all’improvviso un’armonica varietà di suoni, di forme e di colori. A quelle radure s’indirizzò l’attenzione sveglia e intelligente dell’Uomo. Per la maggior parte si mostravano in forma vagamente circolare, sovrastate dall’azzurra volta del cielo. Un simbolo possente si manifestava allora allo sguardo dell’uomo che vi avvertiva (si rapporti il tutto alla conformazione “animica” dell’uomo di quei tempi) una tale energia sublimante che, smuovendone l’attenzione, pertanto trasfigurata, ne proiettava la coscienza oltre il limite fisico. Non era infatti un semplice affascinare, un estasiarsi, era il confrontarsi della soggettività umana con la possente energia del luogo e, anche, la sorprendente scoperta della corrispondenza tra lui, Uomo, e la grandiosa presenza o, forse, meglio presenze o somma di presenze naturali che oggettivamente gli si manifestavano. Era l’essenza della Natura animata che al cospetto dell’Uomo acquisiva superiore consapevolezza e induceva a sua volta l’Uomo, lo invitava a sviluppare una sempre maggiore conoscenza e a volgersi in alto, alla compiuta coscienza del Cielo. Rinvenendo il sublime nella Natura, l’Uomo riscopriva in sé stesso l’essenza divina volta a nutrirsi di quel cibo che solo gli poteva pervenire dall’espansione della sua consapevolezza in accordo con il Cielo. Sapeva ormai che doveva stabilire dei patti; patti con gli dei della natura, con gli dei del cielo. In quelle foreste, in quelle radure non vi era solo la reale presenza umana. Le foreste erano attraversate da fiumi, vi erano sorgenti, ruscelli; vi vivevano grandi e piccole specie di animali. Nelle radure vi aveva visto pascolare caprioli, stambecchi, antilopi, orsi; aveva visto abbeverarsi ai fiumi equidi, bovini, bisonti, renne. Tra gli alberi della foresta e nelle radure volare molte specie di uccelli, nel cielo dispiegarsi le ali possenti dei falchi, degli avvoltoi, delle aquile; nel sottobosco scorrazzare ogni specie di rettili, di roditori. Vi aveva incontrato il lupo, la lince. Tutte queste creature, così come i faggi, come le querce, le betulle, gli allori, i rododendri, avevano diritto alla vita, al rispetto dei loro spazi. Avvertiva la straordinaria responsabilità di valere molto più che da solo mediatore, di esserne il sovrano collegamento. Il Sire di tanto accordo. Nessun despota aveva ancora maledettamente decretato: “Tu, uomo, sei una misera creatura ed il mio servo, tutte queste cose te le offro in dominio perché tu ne faccia quello che vuoi. Io non ne ho bisogno; afferra, prendi, consuma, tu ne sei il padrone! Vedi quanti alberi ci sono? Tu cresci, moltiplicati più di quegli alberi e di tutte le bestie, riproduci a miliardi te stesso e datti spasso. Ma non azzardarti a diventare più di quel che io voglio tu sia, una scimmia addestrata a modo mio; di secolo in secolo ti manderò i miei istruttori.” Ma, son solo due scarsi millenni da che comparve il despota, poca roba rispetto alla durata stessa dell’era attuale, anche se la sua comparsa era però già stata subdolamente preparata da un logos disgregatore. E poca roba ne resterà. E voi amici, siate acuti e sagaci, non vi lasciate terrorizzare e nemmeno sgomentare dagli sconsiderati, che incapaci di assumersi responsabilità, perché immaturi e inesperti, tirano in ballo formidabili Baal! …

  Noi frattanto torniamo a quei tempi lontani… La foresta ricopriva tutto il Lazio, non correva ancora a quei tempi tal nome, e quindi anche il luogo dove sorgerà poi Roma; copriva i sette colli, il Gianicolo, i monti Albani e tutta quella che sarà chiamata la campagna romana. Tra quei boscosi colli scorrevano fiumi, ruscelli e torrenti alluvionali, vi stagnavano tratti paludosi, vi sgorgavano numerose sorgenti ed anche pozze d’acqua solforose. Tra quei colli ve n’era uno, un’erta rupe poco selvosa; vi s’abbatteva spesso fragoroso il fulmine, colpendovi ora una quercia, ora un faggio. Gli uomini chiamavano quel monte, Kapa, perché aveva la forma di un grosso vaso o anche di un cranio umano. Si raccontava che un tempo fosse stato abitato da un tale Satu, un Re molto longevo; durante il suo regno fiorì l’Età dell’Oro. Questo Re il cui nome, Satu, dovrebbe significare il Seme oppure il Sazio (… ma chi è infatti più sazio del seme, che in sé contiene tutto quel che saràpoi germogliato e cresciuto, e insieme l’alimento che gli è necessario?), fu a buon diritto ritenuto il dio protettore della semente e d’ogni sorta di civaia e, da Eroe italico, fu poi deificato e chiamato Saturnus dai Latini. Il Re Satu, ovvero quel Capo o Governatore o Guida, come vi piace chiamarlo, lasciò riposto in quel Monte il suo Cranio, così si narrava, a voler significare che l’elmo del suo divino concepire Ei destinava alla viva natura del luogo e al cuore degli uomini immaginosi che ne avessero raccolto il segreto Semen; mentre la sua divinità si sarebbe temporaneamente incelata in quella plaga fatale, da tale occultamento chiamata poi Lazio. 

   Prossimo al Monte Kapa s’ergeva il Monte Pala; diversamente dal primo questo era ricoperto interamente da una folta selva che nascondeva una grotta famosa, frequentata dai lupi più fieri dell’intera foresta. Tra i rovi del Monte Kapa nidificava l’aquila e da lì s’era vista spiccare i suoi altissimi voli; in quella grotta misteriosa del Pala si erano perpetuati da tempo immemorabile generazioni e generazioni di lupi. Proprio lassù salirono uomini venuti da lontano, ed erano pastori; vi condussero il loro gregge. Si diceva che provenissero dalle fredde sedi di Borea. Vi scoprirono una fonte che prendeva il nome da un’antichissima Ninfa, la Ninfa Jiu, colei che dura; la sua acqua era salutare per gli uomini e per i pascoli. Sul Pala c’era una piccola radura, e in quella radura nelle notti di plenilunio i lupi si riunivano e disponendosi in cerchio lanciavano i loro lunghi ululati. Gli uomini allargarono quella radura tagliandovi gli alberi; vi fecero crescere grassa erba per il pascolo e ai suoi margini piantarono pali e costruirono le loro capanne. Gli sciamani di quel piccolo villaggio fecero un patto con i lupi. A quei tempi non era difficile agli uomini entrare in relazione con le fiere ed esse, da parte loro, ritenevano vantaggiose queste relazioni. I pastori promisero ai lupi che avrebbero allontanato dal loro branco le malattie e la fame purché essi mai infierissero contro il loro gregge; ai lupi era permesso di venire nella radura ad invocare il loro demone lunare della fecondità nelle notti di plenilunio. Alcuni di quei lupi si fermarono addirittura nel villaggio e si assunsero il compito di proteggere il gregge; ma rimasero lupi, e per lungo lungo periodo, fin quando tutto mutò e giunse il tempo di uomini perversi che li asservirono e ne fecero cani.  In quei giorni felici invece gli uomini non temevano le fiere e le fiere conoscevano il vantaggio di non farsi temere dagli uomini. Gli uomini sapevano bene che il loro essere sulla Terra era anche partecipare al grande consorzio della vivente natura; come negli alberi fluisce la nutriente linfa, così circola nei vasi linfatici del corpo umano, rigenerandone il sangue; una continua penetrante energia regge la vita della foresta, una simile energia governa il suo sistema nervoso-vegetativo. L’uomo che lede la natura lede sé stesso, egli è un continuum con essa. Da una natura depauperata, desertificata, isterilita l’uomo non avrà salute. L’uomo trae dalla natura il nutrimento e la medicina per il suo corpo fisico ma non deve passare il limite, non deve eccedere, deve porre un cippo, fissare a sé stesso una regola. Moderazione, misura, discrezione! Egli non può pretendere di prendere, senza dare a sua volta. Altrimenti, deserto fuori deserto dentro. Deserto dentro significa prosciugamento della linfa vitale e con esso l’inerzia, l’esaurimento d’ogni ispirazione, la rovina del proposito di raggiungere quella virtù che conduce alla realizzazione dell’Uomo. Questo il motivo per cui quegli antichi sacerdoti e antichi sciamani quando tagliavano un albero o più alberi erigevano un piccolo altare, un’ara o un sacello, e lo dedicavano al Genio del luogo o alle Ninfe degli alberi abbattuti; lo ponevano al centro della radura e vi concentravano, unite, quelle energie sottili (il sacer) offese dalla mano dell’uomo che a quel luogo aveva sottratto vitali presenze, onde non si verificasse uno squilibrio. Rimanessero ivi intatte, non diminuite, le forze sottili (cioè impercettibili e perciò inviolabili) della Natura e non ne risentissero le corrispondenti energie del gruppo umano ivi stabilitosi. Questo fecero, in quei dì, anche i nostri Pastori Boreali, che scoprirono la magica fonte della Ninfa Jiu, colei che dura, nella luminosa radura del boscoso Pala. Questi atti, supremamente umani, non indotti da hybris, di uomini viventi in armonia con il cosmo e con le forze in esso intelligentemente agenti, sono considerati oggi atti superstiziosi. È questa la giustificazione che si dà il bruto tracotante, imprigionato nell’ abbietta superstizione materialista, ostinatamente avverso alla virtù e alla conoscenza vera. Non puoi, Uomo, fare un passo verso la vera conoscenza se non hai prima educato te stesso al rispetto del più picciolo essere nato alla vita.

 

Gli enigmatici Lucaria: 19-21 luglio.

 

   Torniamo ai nostri tempi, tempi detti storici. Ma non è la storia un torpore che assale l’uomo? La storia subita non è forse pigrizia spirituale? Notte e altissimo sonno? Tuttavia noi, per buona sorte, qui tratteremo di cose e fatti risalenti alla Roma antica, quando però un pugno di uomini costruiva la propria storia. Era ancora un’età eroica! Siamo ai tempi in cui si svolgeva il duro conflitto con Cartagine e viveva onorato l’arcaico, severo, intransigente Marco Porcio Catone. Dal suo De agri culturariportiamo:

 

CXLVIII

   Lucum conlucare Romano more sic oportet: porco piaculo facito, sic verba concipito: “Si deus, si dea es, quoium illud sacrum est, uti tibi ius est porco piaculo facere illiusce sacri coercendi ergo harumque rerum ergo, sive ego sive quis iussu meo fecerit, uti id recte factum siet, eius rei ergo te hoc porco piaculo immolando bonas preces precor, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque meae liberisque meis: harumce rerum ergo macte hoc porco piaculo immolando esto”.

  

CXLIX

   Si fodere velis altero piaculo, eodem modo facito, hoc amplius dicito: “Operis faciundi causa”.

                                                                                                          CATONE IL CENSORE, De agri cultura

 

   In questi paragrafi sono brevemente descritte le operazioni di rettifica, riparatorie, dovute secondo il costume Romano alle entità divine lese dal taglio di alberi eseguito in un bosco per impossessarsi del legname o per adibirne il terreno a cultura; atti aggressivi che compromettevano l’equilibrio raggiunto in quel luogo dalla natura. Queste pie cerimonie venivano da lontano, erano il ricordo religioso di ciò che praticavano gli arcaici sacerdoti; comunque atti necessari ed efficaci, che si svolgevano in un ambito ancora sacrale.

   Il calendario romano ai giorni 19 e 21 di luglio assegna la festa delle Lucaria. Gli enigmatici Lucaria, così li definisce Georges Dumézil nella sua La religione romana arcaica. Sesto Pompeo Festo, il grammatico vissuto nel II secolo e.v., faceva derivare il nome della festività da lucus, bosco, e la metteva in relazione con il dies Alliense, riportando che la celebrazione avveniva in un bosco tra la via Salaria e il Tevere. In quel bosco i Romani si erano rifugiati dopo la dura sconfitta subita dai Galli. I più degli autori, però, dicono che fosse una festività dedicata alle divinità boschive e che gli organizzatori nell’occasione si servissero del denaro ricavato dal taglio dei boschi sacri (il lucar) come scrive Plutarco. Ma son tutte congetture e di storici, in tempi storici.  Infatti, parliamo di certezze storiche (persuasioni? convinzioni?); siamo informati dai detti autori che con lucus i Romani si riferivano ai boschi sacri. Nella parte non storica (se preferite), per noi prestorica della trattazione, abbiam detto i luci essere delle radure che s’aprivano d’improvviso nelle selve, e anche qui ci riportiamo a quel che abbiamo scritto sopra. Precisamente raffiguravamo i luci, quelle radure luminose, somiglianti templi sotto l’aperto cielo, ciò era in realtà nella visione e nel sentire di quegli arcaici sciamani. Varrone parla, a frammenti purtroppo, di selve dove    si aggiravano i Fauni e si udivano cantare i versi saturni: “Fauni dei Latinorum ita ut et Faunus et Fauna sit; hos versibus quos vocant Saturnios in silvestribus locis traditum est solitos fari futura, a quo fando Faunos dictos.” Questi sciamani, vati, iniziati che attraversavano le selve spostandosi da un villaggio a l’altro, certamente sostavano in quelle radure sacre ed ivi radunandosi, cantavano, vaticinavano. I luci erano dunque luoghi sacri e molti di essi fatati luoghi di divinazione. Abbiamo già detto che dove poi sorse la città di Roma si stendeva una folta selva. Boscoso era il Palatino come ci tramanda Ovidio nei Fasti e come altrove, nelle Metamorfosi, del Quirinale: “… duce me lucum pete, colle Quirini/ qui viret et templum Romani regis obumbrat”. Boscose le falde dell’Aventino, mentre le farnie popolavano l’Esquilino e i faggi il Fagutale; salici e vimini il Viminale, le querce il colle Celio e l’area Querquetulana. Tutti questi nomi ancora trasmettono il ricordo della selva prisca e dei suoi alberi annosi.  Ma molti furono i luci che ne rievocavano la memoria entro le mura della città e, tantissimi, extra moenia. Luci si trovavano nel Foro e nelle vicinanze del Campidoglio; poi sull’Esquilino, in Campo Marzio, sulle pendici dell’Aventino; c’era un lucus Querquetulanus e un lucus Facutalis; sull’Esquilino vi era anche un lucus dedicato a Mephitis, probabilmente nel luogo sgorgava una sorgiva solforosa; un lucus era consacrato sul Cispio a Giunone Lucina, divinità in rapporto con la nascita, dove era un antichissimo albero di loto, arbor capillata, sul quale il Pontefice Massimo appendeva le chiome tagliate alle Vestali. Sul colle Oppio invece il lucus era dedicato a Libitina divinità in rapporto con la morte e con i funerali. Un boschetto sacro era consacrato a Vesta. Cicerone tramanda che in questo boschetto s’ udì la voce misteriosa annunciante ai Romani la prossima invasione dei Galli; attribuita ad Aius Locutius, si narrava che la voce risuonasse alta alle pendici del Palatino.

   Ancora il vaticinio del Fauno echeggia dai Lucus? E in tempi ormai storici! Si, perché anche i Romani dell’epoca storica mantennero il culto dei boschi sacri; ma quell’antichissimo ancestrale culto aveva subito una decisa trasformazione, pur serbando più o meno la sua primaria radice. Frattanto, con la nascita della città, il culto si era spostato tra le mura urbane in un ambiente nel quale prevalevano le individualità umane, ma era anche diffuso nelle campagne, dove peraltro, dopo i disboscamenti, s’era imposta l’attività umana con le indispensabili colture agricole. Allontanatasi l’aurea età di Saturno, i bisogni degli uomini erano cresciuti oltre la fame e la sete. Or dunque quel culto rientrava in uno degli ambiti delle idealità, professioni, attestazioni, fedi dell’ancor pietoso ed indulgente esistere umano. Era dunque un culto religioso, profondamente sentito dal popolo e radicato sulle basi del Mos e per questo recepito doverosamente dalle sane istituzioni patrie. Davvero i luci nella città di Roma e nelle circostanti campagne erano numerosi e vistosamente folti e rigogliosi. Ma è da rilevare che al centro di tutti questi boschetti era stato mantenuto il sacellum e, quindi, preservato e custodito dai sacerdoti il sacro, in tal fulcro simbolico, anche in età storica. Abbiamo già elencato alcuni di quei luci che hanno lasciato storico segno o di cui ci è pervenuta testimonianza. Tra quelli non citati, ma sui quali vogliamo soffermare la nostra attenzione, ce ne sono in particolare due, il Lucus Asyli e il Lucus Strenuae.

   Sul Monte Kapa, tra le sue due cime, v’era una depressione con una rigogliosa foresta probabilmente di bosso e di alloro che calava giù per le pendici tufacee fino a raggiungere gli acquitrini del Velabro e ancora oltre verso le rive del Tevere. Lassù, in quella sede boschiva, aveva primeggiato il culto del dio Lucoris, il lucente dio dei boschi, di tutti i boschi con carattere sacro; ciò di certo era anche in relazione con la particolarità del luogo fatidico ove svettava tanto luminoso rigoglio. È possibile che precisamente in quel luogo d’impenetrabile bosso vi fosse, da tempi remoti, un centro invisibile d’irradiazione spirituale. La leggenda romulea dell’Asylo-rifugio racchiude probabilmente tutt’altra realtà. Questa nostra accennata convinzione?

   Hinc lucum ingentem, quem Romulus acer Asylum/rettulit… Un grande bosco sacro lo definisce Virgilio e aggiunge che Romolo vi rettulit un asilo. Altri scrittori sostengono che Romolo per aumentare la popolazione della città da lui fondata pose ivi un luogo di rifugio per coloro che venivano banditi dalle vicine città. Strana leggenda! Ci si avverte lo zampino, l’insinuazione maligna degli orientaleggianti Etruschi che, avversi a Roma, hanno sempre teso a denigrare il genus romano. Asilo viene dal greco asylos, cioè “non soggetto a spoliazione”, quindi inviolabile; il vocabolo è formato dal α privativo e il verbo συλέω, spogliare, saccheggiare; quindi, ἅσυλος, esente da spoliazione o violenza, inviolato e inviolabile. Simile è anche il vocabolo ἅλσος, bosco sacro, recinto sacro (ἅσυλος/ἅλσος). Quindi anche la narrazione leggendaria, inizialmente, doveva coincidere con la realtà d’una inviolabilità esclusiva di quel bosco in quanto sacro.

   Escludiamo quindi che nell’età arcaica tale istituto di origine greca e la stessa denominazione greca di “asilo” abbiano allignato nel Latium Vetus. La storiella dei banditi ricettati da Romolo e quindi capostipiti di romane genti è da imputare agli insopportabili cantastorie etruschi. Sola congettura che può trovarci d’accordo è quella da noi sopra espressa. Dobbiamo al meglio aggiungere che la nascente romanità era circondata da città e popolazioni asiatizzate a cultura semitica sulle quali dominavano figure orientali di despoti. Il rifugio romuleo accoglieva quindi gli esuli, puri latini e italici, che sentivano il richiamo di quel centro di spiritualità iperborea. Uomini pronti ad insorgere contro la decadenza degli etruschizzati in combutta con i barbari, gente dai rozzi istinti, subente il fascino della natura selvaggia.

   Il dio Lucoris, il lucente dio dei boschi sacri. L’Uomo e la Natura a confronto; l’Uomo che attraverso la conoscenza della sua segreta natura ascende ai segreti del Cielo. Il Lucus, il Sacellum, l’energia sottile luminosa della Natura, l’energia divinizzante dell’Uomo. Il  S A C E R  sulla Rocca, l’Arx del Campidoglio, il nostro antico ancestrale saxeus Monte Kapa … il Refugium nel luogo della luce, là dove Uomo Natura e Cielo refulgent contro il privo di luce.

   Chi era Strenia o Strenua, la STREGA (maga), la STRENNA (dono)? Era la Natura animosa/ata ovvero l’anima della Natura. La triplice divinità della natura vegetale e animale, delle fasi lunari e quindi la matrice del magma ignito, il quale al di sotto della coltre bruna del suolo feconda e muove la moltitudine dei semi. La dea della nascita, della crescita e della morte, cioè del ciclico vitale mutamento. Era il dono della SALUTE, l’antica divinità della Salute. Quando l’augure Romolo fondò Roma i suoi adetti gli offrirono un fascio di verdi rami colti dal bosco di Strenua e il Re volle che quel gesto si rinnovasse ogni anno alla data della fondazione, come augurio di perenne salute. Dei doni della natura, munerabonavaletudo et sanitas corporis, dallo splendor mentis alla chiaroveggenza, perspicientiae virtus dei Fauni, era lei larga liberale largitrice. La strenua linfa-ninfa del querquetum tutelata e regolata dal gioviale respiro del cielo. Strenua, dai tempi antichi la dea della forza (robur), cui era sacra la quercia da sempre l’albero di Giove. Anche energia, vigore; negli uomini che con lei ebbero confidenza si manifestò come animi magnitudo ac robur, grandezza e forza d’animo per citare Cicerone. Meglio di tutti il nobile Quintiliano: oratorium robur, eloquente energia, brevissima frase, ma che va ben meditata.

   E allora? Ci chiedete… Beh, veniamo subito al dunque, concludiamo!  Dal Lucus Strenuae i Romani costumavano raccogliere rami di albero felice e scambiarseli come simboli di augurio a capodanno; usavano anche in quella data adornare i banchetti con rami di alloro e di verbena, le strenae, e in quei banchetti mangiavano fichi secchi, miele con focacce di farro e un bel piatto di farina di ghiande. Beh, voi fate queste cose? Avete il coraggio di mangiar così parcamente e di assaggiare, come facevan gli uomini ne lo secol primo, le savorose ghiande con nettare di ruscello? No! Le ghiande ci fanno schifo e poi ci resterebbero sullo stomaco… e allora? facciamo insieme un’altra cosa. Prepariamo una felice strenna, dolci di marzapane per il prossimo anno e formiamone delle streghette o pupazzi per donarle ai bambini al capodanno e ai successivi; ci ricorderemo così dell’infanzia, oggi disgraziatamente derelitta, e delle favole dell’infanzia; torneremo a tenerla in pregio, come la tenevano in pregio i nostri progenitori… Ritorniamo all’ASILO … già … e, appunto, in quel bel “giardino d’infanzia” dove trovarono rifugio i nostri antenati vogliosi di riascoltare al primo chiaror dell’alba il croceo, virginale vagito dell’Aurora.

   Vagitano ritorni, il fanciullo, il genio primo, l’eloquente energia di quel mondo che quant’oro fu bello!

   Ci auguriamo, amici, che l’aureo vagito già oggi, in questa strenua estate, risuoni nei nostri cuori, nei cuori strenui.