EST ETIAM… … VERTUMNUS… QUID?
EST ETIAM … … VERTUMNUS …
QUID ?
Caeruleus cucumis tumidoque cucurbita
ventre me notat et iunco brassica vincta levi …
Properzio, IV, 2
Sono il dio Vertunno.
Non sono egizio, non etrusco,
greco nemmeno, né nacqui romano;
precedo tutti costoro come il lampo il tuono.
Oh, quanti sofisticati sapienti ho conosciuto
che mai si sono accorti di me!
Solo quei pochi che mi hanno appreso sull’istante,
solo quelli, credo, fossero veri sapienti.
Vi ricordate di quel tal di Sinope, Diogene il cane?
Ebbene, con una lanterna e tutto il dì,
per piazze e vicoli cercava l’Uomo;
lamentava di non averlo incontrato mai;
si fosse una sola volta accorto di me!
Eppure, gli avete eretto statue e busti.
A che pro? Ritenete dunque saggio
chi ignora una deità così rilevante,
chi non ha mai percepito la mia presenza?
Avete mai scrutato un naso?
Ci vuole sagacia e accortezza per esaminare un naso;
soprattutto il naso di un dio, dal momento che
ve lo siete immaginato. Arcimboldo
ci riuscì, solo, in tanti secoli fra tutti voi.
Perché Arcimboldo ero io; mi feci uomo
apposta per dipingere il mio autoritratto.
Scrutatelo quel mio naso. Potrebbe
essere una pera, ma anche una carota,
una zucchetta, un becco d’uccellaccio…
Dipende dal vostro percepire,
dall’ impressione, nell’istante!
D'altronde non posso darvi torto, avete ragione,
si tratta solo d’un dipinto ad olio su tela.
Tutt’al più occorrerebbe avvalersi del giudizio critico,
ammesso che non si tratti d'un εἲδωλον.
Pensate che quel picco di monte
sia sempre lo stesso? Guardatelo all’alba,
all’aurora, a mezzodì, al tramonto,
vedrete immagini diverse. Vertunno!
Così quel naso, nel mio autoritratto.
Già! Avresti, Arcimboldo, potuto immaginare
farne una bocca di quel naso
e di quella bocca farne un naso;
avresti potuto scomporre tutta la faccia
e poi diversamente ricomporla; sarebbe sempre
il mio autoritratto. Non scordarti che sono un dio!
Un dio può cambiare persino il ‘presente’, trasmutarlo
come vuole e quante volte vuole; e questo
sempre con giudizio, mai a capriccio.
Se mutate il vostro giudizio, e parliamo pure
d’ un’ oggetto qualunque, su quel sasso, per esempio,
voi mutate nella vostra mente l’immagine di quel sasso
e, purché non sia un diversivo, mutate a quel sasso l’aspetto.
Oh, sono andati tutti via! E’ rimasto qui
un solo Arcimboldo… Ascoltami bene, mio caro,
anch’io, se muti su di me il tuo giudizio, io, un dio,
divenuto oggetto del tuo vedere, muterò.
Questa fronda d’acero che nella luce del sole
guardi ammirato, è già nell’ombra; l’agita
il vento, è sempre dessa? No! Perché
mi ci sono nascosto io…ero dunque il sole,
ero l’ombra, ero il vento? Mah, che dici!
Sei su un battello… scivoli sull’onda…
sull’onda placida, sull’onda agitata, sull’onda lunga,
sull’onda alta…Non puoi scegliere l’onda che preferisci,
Vertunno non te lo concede. Son qui! La serpe
avvolta in anelli, ora, è la serpe che si fa bastone,
la serpe che s’avvolge in spire…L’edera
che s’abbarbica alle vecchie mura, l’edera
che s’avvince all’albero… Ma, non sono io mai
quelle immagini, quelle disparate figure;
son quel che vedi, quel che percepisci
in un istante, e basta.
Sono l’anno che volge alla fine? No! Sono
Il cambiamento. E sì! Cambio pelle,
età, stato, stagione d’un tratto? E’ inutile
che m’insegui; nel momento successivo
non ci sarò…Così, come mi hai veduto, non ci sarò.
E non confonderti, e soprattutto non relativizzare;
non richiamarti a questo o a quello; non
agire a casaccio; non giudicare e misurare
le cose a tuo arbitrio… non prenderti in giro…
meriteresti tutto il mio disprezzo! Ricordati
che sono un dio, un dio sempre attento
a procurare ciò che è libero da relazioni e limiti.
Peggio per te se t’inceppi.
Come tutte le nature divine sono molto arcaico
e rifuggo dai modernismi, ma non credere
che io non sia presente in questo mondo derelitto.
Cristiani, buddisti, musulmani, cattolici,
occultisti, protestanti d’ogni risma, marxisti,
puritani e satanisti, e quant’altri, tutti,
si tutti, dico, non possono fare a meno di me…
Fa loro credere quel che vogliono, ma sappi,
tutti pendono dal filo del cambiamento
e ciò indipendentemente dalle loro storie
o dalla fatale storia del globo; quei fattacci,
se l’intreccino pure con le loro mani.
Non sono un dio etrusco, come ebbe a dire Properzio,
per accontentar Mecenate. Anzi! Poiché
quelli mi avevano eretto un tempio in una loro città
mi feci portar via da un duce romano
dopo aver cooperato alla Vittoria,
e lui mi espose nel Foro; ne fui contento! Quegli Etruschi
erano intollerabili, dediti ad una potente oscura magia,
evocavano mostruosi demoni e larve catacombali!
Avean frantumato la vita in attimi fuggenti, frali
come le foglie morte, che il vento spazza via. Si davano
alla bella vita, al mercanteggiare, al lusso e alla ricchezza
per costruirsi tombe imponenti, funebri
città sotterranee; pretendevano, pure, che io
scendessi laggiù, a segare in perpetuo le loro ossa.
Fatto sta che io vanto anche nel nome
ascendenza latina e quindi preferii
starmene con la mia gente. Anche se arcaicissimo,
mi ritrovai bene nel Foro romano. È vero,
sono il mutamento, ma non mi vanno a genio
quei secoli che declinando si agghindano
con lussuosi sepolcri.
Sono Vertunno, un dio vitale,
cui tocca il rapido agire; un mago per l’Uomo
che sa prendere nelle proprie mani il destino,
sa diriger l’aratro per dissodare il terreno
onde germogli la spiga di Cerere;
perciò tutelo l’estate e il passaggio all’autunno,
che con canestre di frutti premia il buon aratore.
Ah, quei Romani! Ardirono forgiar la storia e,
nei tempi che vollero eroici, mai la subirono.
Sono fiero di loro, furono ottimi alunni!
Apparvi loro nel taglio lucente del gladio,
nelle mammelle sature di Acca Faula; nel muso
ferale del lupo in quel attimo che sgozza la preda;
nell’occhio e nel becco grifagno dell’aquila,
nel suo volo, nei suoi artigli possenti.
*
Nel V libro del De Lingua Latina Varrone elenca nomi di are che furono consacrate per voto del re Tazio e sostiene che esse Sabinum linguam olent ed enumera gli dei cui queste are dal re furono votate, tra essi vi è Vertunno. Quindi Vertunno non risulta essere un nome etrusco, ma italico. Sempre nel V libro Varrone tramanda che sul quartiere Suburano si leva il monte Celio che ebbe il nome da un duce etrusco, il nobile Celio Vibenno. Questo capitano venne con una sua milizia in soccorso di Romolo contro Tazio. Quando Celio Vibenno morì, ricorda Varrone, ritenendo i Romani troppo muniti i luoghi dove s’erano accampate quelle milizie etrusche, non esenti da sospetto, le trasferirono al piano. Quel posto fu detto vicus Tuscus e vi si trovava il tempio di Vertunno, che Varrone definisce deus Etruriae princeps. Aggiunge che a quei compagni di Celio Vibenno, che non dettero adito a sospetto alcuno, fu destinato un luogo chiamato Celiolo che già ai suoi tempi era unito col Celio.
Così molti scrittori e poeti latini han sostenuto la nazionalità etrusca del dio solo perché una sua statua nel Foro romano si trovava allo sbocco del vicus Tuscus. Ma giustamente Dumézil sostiene che quel nome “assolutamente latino, sta a uorti ‘volgersi, trasformarsi’, come alumnus ‘lattante’ sta ad ali ‘essere nutrito’.” E ben sostiene Dumézil: “Vi sono buone ragioni per pensare che il suo tempio sull’Aventino, che conteneva una effigie di M.Fulvio Flacco quale trionfatore, fosse stato fondato appunto da questo personaggio, il quale nel 264 aveva trionfato de Vulsiniensibus: sebbene non ve ne sia menzione, forse egli nel corso delle operazioni aveva sollecitato o evocato il dio che Varrone dice deus Etruriae princeps. Questo stato civile non sarà però derivato da un’approssimazione fonetica? L’Etruria, di fatto, non conosce Vortumno; al di fuori di Roma, alcune rarissime iscrizioni lo menzionano in Umbria (Tuder), in Apulia (Canusium), sull’Adriatico (Ancona), nella Cisalpina (Segusio): ma nessuna in Etruria. Sembra d’altronde che la dea peculiare di Volsinii portasse un nome analogo ma diverso, in cui è riconoscibile l’esordio del nome della città: Veltune, che su uno specchio presiede a una scena di aruspicina, e che i Romani, trasformando la finale del suo nome, latinizzarono in Voltumna: Livio ricorda che nel 427 si svolsero delle consultazioni della federazione etrusca ad Fanum Voltumnae. Non avrà dunque avuto luogo, grazie alla consonanza dei nomi, l’assimilazione del dio preesistente, latino, alla dea (che i Romani volevano acquisire) dei nemici Etruschi? cioè l’assimilazione del dio nazionale delle metamorfosi stagionali della natura alla dea di Volsinii? Si spiegherebbe così sia il valore funzionale preciso di Vortumno, poco appropriato a una divinità ‘poliade’, sia il duplice atteggiamento dei Romani verso il dio: i Romani, infatti, sebbene considerassero Vortumno etrusco (i cortigiani di Mecenate insistettero con maggiore o minore enfasi su tale origine), in altre occasioni lo dichiararono anche più antico del periodo etrusco di Roma; l’osco Mamurio Veturio, l’artefice di Numa, che aveva forgiato gli ancilia, era ritenuto autore della statua arcaica del dio che sorgeva sul vicus Tuscus, all’uscita del Foro, dietro al tempio di Castore.”
…… …… …… …… …… …Stipes
acernus eram, properanti falce dolatus, ante
Numam grata pauper in urbe deus at tibi,
Mamurri, formae caelator aenae, tellus
artifices ne terat Osca manus, qui me tam
docilis potuisti fundere in usus. Unum opus
est, operi non datur unus honos.
Properzio, IV, 2
Mamurio, l’artefice che l’antica, grezza materia docilmente fonde e cesella e trasmutandola realizza il divino sembiante. Unum opus est. Ma non un solo onore riceve.
