IUPPITER HAC STAT
I U P P I T E R H A C S T A T
… Celso medius stans aggere fatur:
'Ne qua meis esto dictis mora, Iuppiter hac stat,
neu quis ob inceptum subitum mihi segnior ito.
Urbem hodie, causam belli, regna ipsa Latini,
ni frenum accipere et victi parere fatentur,
eruam et aequa solo fumantia culmina ponam.
Scilicet exspectem libeat dum proelia Turno
nostra pati rursusque velit concurrere victus?
Hoc caput, o cives, haec belli summa nefandi.
Ferte faces propere foedusque reposcite flammis.'
Virgilio, Eneide XII
Sotto le mura di Laurento, mentre infuria la battaglia tra i Teucri e le schiere latine affiancate dalla falange etrusca e dalla cavalleria degli Arcadi, Enea decide di attaccare la città e darla alle fiamme. Da l’alto di un ciglio stando in piedi arringa i Teucri, li ammonisce a non frapporre indugio nell’eseguire i suoi ordini, la vittoria sarà dei Troiani e risoluto afferma: Iuppiter hac stat, Giove è con noi.
Tenuere tamen arcem Sabini; atque inde postero die, cum Romanus exercitus instructus quod inter Palatinum Capitolinumque collem campi est complesset, non prius descenderunt in aequum quam ira et cupiditate reciperandae arcis stimulante animos in adversum Romani subiere. Principes utrimque pugnam ciebant ab Sabinis Mettius Curtius, ab Romanis Hostius Hostilius. Hic rem Romanam iniquo loco ad prima signa animo atque audacia sustinebat. Ut Hostius cecidit, confestim Romana inclinatur acies fusaque est. Ad veterem portam Palati Romulus et ipse turba fugientium actus, arma ad caelum tollens, "Iuppiter, tuis" inquit "iussus avibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci. Arcem iam scelere emptam Sabini habent; inde huc armati superata media valle tendunt; at tu, pater deum hominumque, hinc saltem arce hostes; deme terrorem Romanis fugamque foedam siste. Hic ego tibi templum Statori Iovi, quod monumentum sit posteris tua praesenti ope servatam urbem esse, voveo." Haec precatus, veluti sensisset auditas preces, "Hinc" inquit, "Romani, Iuppiter optimus maximus resistere atque iterare pugnam iubet." Restitere Romani tamquam caelesti voce iussi: ipse ad primores Romulus provolat. Mettius Curtius ab Sabinis princeps ab arce decucurrerat et effusos egerat Romanos toto quantum foro spatium est. Nec procul iam a porta Palati erat, clamitans: "Vicimus perfidos hospites, imbelles hostes; iam sciunt longe aliud esse virgines rapere, aliud pugnare cum viris." In eum haec gloriantem cum globo ferocissimorum iuvenum Romulus impetum facit. Ex equo tum forte Mettius pugnabat; eo pelli facilius fuit. Pulsum Romani persequuntur; et alia Romana acies, audacia regis accensa, fundit Sabinos. Mettius in paludem sese strepitu sequentium trepidante equo coniecit; averteratque ea res etiam Sabinos tanti periculo viri. Et ille quidem adnuentibus ac vocantibus suis favore multorum addito animo evadit: Romani Sabinique in media convalle duorum montium redintegrant proelium; sed res Romana erat superior.
In questo brano tratto dal primo libro delle Storie di Livio si racconta della battaglia tra i Sabini e i Romani nella guerra che seguì al ratto delle vergini da parte dei giovani Romani. I capi delle due parti, il sabino Mezzio Curzio e il romano Ostio Ostilio (il nonno del futuro Re di Roma, il guerriero Tullo Ostilio) animano il combattimento. I Romani, in posizione sfavorevole, quando l’eroico Ostio cade, cominciano a ripiegare e vengono respinti. Romolo, travolto dalla turba dei fuggiaschi, leva allora le armi al cielo e invoca Giove Statore. Egli, Romolo, sotto gli auspici del Dio gettò le fondamenta della città, e i Sabini già ne occupano la rocca col tradimento. Se verrà arrestata la fuga vergognosa, liberati i Romani dal terrore, “A te, Giove Statore, io offro in voto un tempio che ricordi anche ai posteri come questa città sia stata salvata per il tuo tempestivo intervento”. E, rivolto ai soldati Romani, ordina di riprendere il combattimento, volontà dello stesso Giove. I Romani di colpo si fermarono come se avessero ricevuto l’ordine da una voce venuta dal cielo: ipse ad primores Romulus provolat.
27. B C
28. C C
Lucifero subeunte Lares delubra tulerunt
Hic, ubi fit docta multa corona manu.
Tempus idem Stator aedis habet, quam Romolus olim
Ante Palatini condidit ora iugi.
Ovidio, Fasti VI
Nel 764 a.U.c. Ovidio celebrava ancora l’anniversario dell’antico tempio dedicato a Iuppiter Stator, lo stesso Dio che aveva invocato Enea contro le forze asiane guidate dal rutolo Turno nella battaglia presso Laurento, gridando ai Teucri - il Cielo è con noi - Iuppiter hac stat; quei Teucri che con lui lottavano per debellare definitivamente dal suolo dell’antica Patria ritrovata, purificando così anche la loro origine, l’asiaticità. Nelle Metamorfosi di Ovidio Venere bagna con le acque del Numicio il figlio per liberarlo dal suo corpo mortale. Purificato dall’onda del Numicio, il fiume dei Numi, Enea sarà proclamato dalla stirpe rigenerata dei suoi discendenti, Dio Padre Indigete. Illic sanctus eris, cum te veneranda Numici unda/Deum coelo miserit indigetem (Tibullo). E Romolo, il fondatore dell’Urbe, che dedica il primo tempio a Iuppiter Stator, così mantenendo un antico patto, sarà divinizzato Quirino. Sostiene il Bachofen: "Roma, che nelle sue origini trovò l'Asia, diviene colei che la vince definitivamente".
DA STATULINUS A IUPPITER STATOR
Sopra, nel paragrafo “NATUS PATRIAE”, trattando del puer prossimo ad abbandonare la culla, abbiamo scritto: - La parola autorevole, le labbra oranti, richiederanno un dì lo “star ritto”, il saper star fermo in piedi e il camminare eretto; l’attitudine a percorrere la diritta via. - Vi abbiamo, quindi, visto agire uno stimolo, una energia sottile, una misteriosa entità, anche come forza ingenita. Questo Instinctor, questo Incitatore, sappiamo che i Romani chiamavano Statulinus. Statulinus, dal verbo sto, statum, stare, in italiano star ritto, stare in piedi e anche star fermo, immobile. Le fiere, tutte le specie di animali hanno il muso (o il becco) rivolto verso il suolo, per ottenere da esso ogni sorta di informazioni, seguire tracce, fiutare il cibo ed altro. L’animale si muove in una atmosfera magnetica limitata superficialmente al suolo; ha sguardo ottuso, privo di luminosità. L’uomo ha il capo nel cielo, la sua statura sta in posizione eretta, il capo ne è la sommità. Ai suoi piedi tocca l’onere di sostenerlo sulla terra, ma è anche un privilegio se il passo dell’uomo è rispettoso. Lo sguardo, la sua pupilla devono esprimere consapevolezza e controllo di sé, sicura cognizione di ciò che lo circonda. Anche fiducia nel Cielo.
Il Cielo, il nostro non sarà mai un discorso astronomico, ricopre la Terra da tempo immemorabile, prima che la stessa Natura si manifestasse. Con il manifestarsi naturale tutto nel grembo della Terra sarà nascita e generazione, nel senso ciclico: nascita, crescita, morte. L’uomo respira nell’atmosfera terrestre, come tutti gli altri esseri della natura, il suo sguardo rivolto al cielo è limitato nel giro dell’orizzonte. Ma il Cielo è più ampio, perché ha suprema coscienza e vastità di coscienza, l’immortalità del Nume. Il Cielo è il sommo tra gli dei, Giove. È luminoso, oscuro, sereno, tempestoso; parla attraverso il tuono, il tumulto dei venti; esprime le sue sensazioni con la pioggia, le nevicate, la grandine, il lampo, l’arcobaleno. Tutto il suo essere è indipendente, vive nella sua dimensione divina. È Giove. La somma coscienza di questo Nume investe tutta la Terra e tutta la Natura, le cui divinità sono a lui soggette perché nel limite naturale. Sappiamo invece che non c’è limite alla coscienza di sé, cioè alla consapevolezza, alla conoscenza, così è anche per il Cielo, Giove. L’immortale tende all’eterno, il mortale tende all’immortalità. Per questa impresa occorre accrescere consapevolezza, l’essere deve acquistare sempre più conoscenza. Per avanzare occorre che ci si trasformi, si muti, vi sia movimento, fermo restando un Dio, fermo restando Uomo; occorre esser ponte, occorre sperimentare il tramonto, occorre nascere e rinascere come l’aurora. Così è il Cielo, cioè Giove. È colui che attraverso il continuo movimento cela il Nume immortale, colui che sta, Giove Statore. A questo Nume l’uomo, in quanto tale, è indifferente. Ma se l’uomo fa di sé stesso un Cielo, attraverso movimento ed azione, egli sarà in grado di entrare in confidenza (da confidere) con il Cielo. In grado di intrattenere rapporti con il Cielo. Il divenire umano, se indirizzato a espandersi al di là della mera naturalità e al di là dei limiti stretti della ragione, per rivendicare, eroicamente, divino sapere, deve necessariamente rivolgersi alla Suprema Conoscenza, ed allora soltanto Giove può stare a fianco dell’Uomo, venirgli incontro in ogni grande libera impresa. Giove, infatti, non è il padrone dell’uomo. La natura può farne uno schiavo, può definitivamente incorporarselo. Giove no! richiede però che quella umana coscienza in divenire, retta da stabilitas e firmitas, non si adagi, continui nell’ampio respiro del raggiunto Cielo, senza tracotanza e hybris. Aratro o remo, muova verso l’areté, verso l’eccellenza dell’arte, susciti Armonia. Questo solo patto è valido. Enea, venuto fuori dalla natura corrotta dell’asiatica Ilio, raggiunta la patria vera, eroico stato dall’umana condizione, può affermare la vicinanza di Giove ai combattenti dello spirito, ai Teucri tutti che combattono per definitivamente purificarsi dalle scorie infime del disfacimento d’un mondo crepuscolare. Occidit occideritque sinas cum nomine Troia!
… Celso medius stans aggere fatur:
‘Ne qua meis esto dictis mora, Iuppiter hac stat,
neu quis ob inceptum subitum mihi segnior ito.
Leggete con attenzione i versi di Virgilio. Enea ritto, medius stans, aggere 'celso' parla ai suoi e annuncia: Giove è con noi, hac stat! - Una Auctoritas. - Il patto è conchiuso.
Romolo poi fonderà Roma:
Iuppiter, tuis iussus avibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci.