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NEPTUNALIA

                         

 

NEPTUNALIA

 

Solo il cardo è in fiore [...] quando Sirio il capo dissecca e le ginocchia

                                                                Alceo

 

Ne hai da attendere prima che brontoli il tuono,

che cada di nuovo sui campi la pioggia

e si senta dell’aria la leggera frescura!

Silvano non scorrazza sui sentieri del bosco,

s’è nascosto nella sua grotta cavata

che i grandi escoli ombreggiano.

Sono i giorni della doppia fiera,

i giorni in cui la Canicola nasce con il Sole.

Stai attento, non lasciarti disseccar le ginocchia

da Sirio, non lasciarti tagliar come l’erba secca

dalla falce fienaia, segar come il fieno.

Non c’è lago o pozzo che tracimi all’inizio della canicola;

non il lago di Albano, non il pozzo di Nechtan per divino prodigio.

Ma tu davvero puoi, sì, straboccare. Per la forte caldana

puoi stupefare, restare stordito, uscir di senno o smemorare.

Non lasciar che la bestia ti tolga vigore, non infiacchire la mente.

Non sfidare la doppia fiera, stai attento,

ti può esser fatale! Contieni le acque negli argini

falle scorrere raccolte nei canali, nelle vasche, nelle cisterne

che non vadano sprecate per i campi, fuor di misura. Non far che ingrossino

in torbido fiume che a riversarsi corra in un ignoto mare.

 

   Non lasciarti disseccare il capo, sia chiomato sia calvo; esci sul prato nell’ora antelucana, bianche gocce di rugiada ti scorreranno sulla cute, non tergerle, non spregiarle, son dono del cielo; di là d’una torrida volta è sempre primavera. Non lasciarti turbare dalla monolatria. Un dio accentratore con il monopolio sulle acque! Il greco Poseidone era il dio del aestus, il demone del ribollimento del mare, delle tempeste marine, simile ad Ares il demone dell’esaltazione, del tumulto bellico. La superstizione degli Etruschi, popolo dedito al marino mercatare, s’era immaginato tal dio, modellandolo sul greco Poseidone. Il timore di perdere i beni viaggianti, giunse alla follia di immaginare un dio che tiene a freno le onde proprio nel demone del sommovimento. È il carattere del mare e delle onde quello di passare dalla bonaccia al far tempesta e viceversa. L’Uomo deve con il suo divino gemello saper governare il tumulto, sedando dentro di sé il demone delle tempeste. I latini arcaici, più terrestri e fluviali che marinari, non praticavano tal volgare superstizione; par conoscessero un Nettuno, demone scuotitore della Terra, armato di un tridente a simboleggiare che il passato, il presente e il futuro della massa terrestre è un magma in continuo movimento; essa ha connaturato in sé il demone del moto, terrae motus; salda nell’etere, in sé opera continuo mutamento. I nostri progenitori dettero a tal demone il nome di Nettuno. Un demone da fronteggiare, a cui resistere. La natura terrestre dell’uomo è infatti incline a instabilità ma l’uomo deve raggiungere fermezza, costanza, sicurezza, perseveranza. Come agricoltore, agronomo, agrimensore deve essere in grado di governare le acque; soprattutto deve mantenere gli equilibri posti dalla natura; deve essere un coscienzioso geometra. Tutto ciò deve essere operato prima in lui, una volta riuscita tale opera se ne vedrà il riverbero esterno; e questo riverbero sarà sempre un raggio di luce sovrannaturale. E allora, Nettuno è anche un dio delle acque? Lasciamo alla vostra intelligente immaginazione…

   Le acque avevano i loro geni. I Nettunni o Nettuni, Geni brillanti e lucenti. Gli uomini arcaici conoscevano bene i Nettuni, bene quanto i castori, geniali costruttori di dighe sui fiumi e sui torrenti. A quei dì i castori erano numerosi. I Nettuni stazionavano presso gli argini dei fiumi, dei ruscelli, presso i canali; salvaguardavano quegli argini dalla rovina, dalle illuvie. Avevano essi i pregi e i difetti dei Geni; se rassomigliassero di più ai Fauni o ai Satiri, di ciò non abbiamo notizia e tacciamo. Forse avevano un aria più mentale, si direbbe oggi da intellettuali. A proposito di intellettuali, Cicerone fa derivare Neptunus da nando (nare, nuotare), Varrone da nuptus, il velame, perché il mare copre di nubi le terre; altri dall’etrusco Nethuns. Etimologia dunque incerta. Qualcosa comunque che ha a che fare con le acque; per esempio, NarNaris, m., Nera, fiume della Sabina affluente del Tevere. Ancora: Nereo, il dio marino e padre delle ninfe Nereidi (dal celtico NER, acqua). Certamente i più antichi agricoltori italici dovevano molto brigare con i remoti obliati Nettuni, diligenti custodi dei loro primitivi canali scavati nel terreno e da tenere sempre puliti ed efficienti, poi fluenti in condutture di legno, ed in seguito canali in solida muratura. Dovevano altresì corrispondere ed intendersi con le fonti attraverso il culto ad esse dedicato e di certo con i fiumi e i ponti di barche sui fiumi. Erano i guardiani dell’onda fluente dalla fonte perenne, che dà sollievo dal belluino accanimento della canicola, preservando anche i campi dalla siccità, dalla secchezza il capo e le ginocchia degli uomini. Zampillante fluire che arricchisce e rende arzillo il mondo. E con i Nettuni, amabili Geni, sciamaniche intelligenze, non dimentichiamo due nostre antiche conoscenze, le potenti entità femminili delle acque, le instancabili energie del dio, Salacia e Venilia… scrosci, zampilli, saltelli, fluire, fluire…

 

Salientes rivi… si per planum veniet

 

   Suggerisce il rurale Columella.

  Vi par poco per dedicarvi una festa, e nell’insorgente canicola?

 

 

 24 Luglio

 

   Ieri, giorno dei Neptunalia, questa Cittadina campana, dove per una sosta breve siamo capitati, era davvero rovente, la canicola non concedeva tregua. Tra queste distese di cemento, tra alloggi di cattivo gusto e tra brutti casamenti, che han sostituito la prospera vegetazione e i frondosi alberi nella frugifera campagna di quella che fu la Campania Felix, vien meno nella grande calura il respiro. Un tempo, “quondam?”, all’incirca settanta anni fa, un sano, garbato popolo contadino, custodiva i suoi campi; li irrigava, dove annaffiava e dove drenava; li coltivava con cura, sempre soddisfatto della sua opera e del raccolto. Campania Felix! Scomparsa! Detriti e rovine… Frammenti, brandelli, avanzi, ritagli qua e là di stentata vegetazione, anch’essi un po’ alla volta ingoiati, assorbiti, inglobati nelle vaste aree commerciali con annessi fondachi, nelle enormi rimesse e locali di magazzinaggio di squallidi opifici. Uno squilibrio, uno sbilanciamento di cui nessuno s’avvede, nessuno più nota; quindi, neppure un minimo di ravvedimento!

   Stamane, e allo spuntar del giorno, il brontolio sordo e prolungato del tuono. Il cielo è completamente coperto e livido. E l’infrangibile cobalto degli scorsi mattini? e le purpuree vampe dei tramonti, nella canicola? E’ il tuono ora che irrompe brusco e deciso, preceduto da folgoranti saette che percorrono il cielo. È Veiove, cui piaccion per giovanile baldanza le imboscate e gli inganni, a saettare con così gran fracasso? Le vetrate tremano nel eco sordo dei rimbombi. La pioggia adesso scroscia tempestosa; una burrasca canicolare? Pressappoco un’ora, poi subentra una strana bonaccia. Già s’avverte sotto l’epidermide di questa illusoria frescura, l’alito della doppia Fiera in agguato. Il bollore di quest’acqua accrescerà d’afa il suo fiato opprimente, accrescerà l’arsura. Tutto ciò, perché l’uomo più non s’adopera ad assecondare la vivente Natura, a propiziarsene con volontà indirizzata a giusti fini, non da usuraio, la benevolenza, come realizzavano un tempo, nella loro interiorità e fuori di loro, i nostri antenati, custodi di quella Virtù che fa sacra l’opera umana. Pur se lo volesse, il Cielo non può venire in soccorso a un omuncolo improvvido, anzi cattivo. Non si curano gli dei dell’edonista, del consumista che venera la bestia ingorda e disprezza le divinità della Natura e del Cielo e con esse la nobilitante Virtù che l’Uomo india, per dirla con Dante.

 

25 Luglio – FURINALIA

 

   Figlio di Giano e di Camesena, Fontus o Fons, era il dio delle sorgenti; Giano, il Signore della soglia, ospita sul suo colle, il Gianicolo, anche una fonte dedicata a Furina o Furrina: “Dea sconosciuta venerata dai Romani, posta in rapporto con le Furiae da Cicerone”, così citano i vocabolari. Ma noi vogliamo venerare nell’arcaica Furina, non la Furia (improbabile che una Furia fosse titolare di un flamine, anche se minore), la folleggiante dea delle acque, colei che si scatena nelle cascate, nelle rapide dei fiumi e dei torrenti, che si svaga saltellando lungo i tortuosi allegri ruscelli. La Dea delle acque profonde, tenebrose, che erodono e scavano spechi, meati, passaggi. Una entità ardimentosa, che mai arretra e procede diritta per la sua via, che costantemente allarga. Impeto che frange, che ruba (furatur) alla terra che la ospita, sali, granelli minerari, schegge preziose, pepite d’oro e d’argento. È la Dea delle Acque, alle cui itale vie fluviali Giano affidò la sua Nave carica del peso di fatali eventi, Nave da doversi ricondurre ed ancorare in aureo Porto.

   Eccola, finalmente, l’arcaica italica divinità delle acque, la dea Furina, fluida energia, flusso possente (gutta cavat lapidem), che fora (foro, as) persino il granito; che strappa, sottrae, ruba (furor, aris) alla terra; che infuria, si scatena, dilaga (furo, is); dappertutto penetra, giunge al cielo, in caelum usque penetrat nella sua essenza più leggera, attratta dal sole; in specie di rugiada s’accompagna alla sorgente Aurora. Solo alcune, queste, delle sue manifestazioni, che sono miriade. Furina (sic fatur), inafferrabile figurazione, irrefrenabile corrente. In mancanza di tal moto, di tal continua azione, non ci sarebbe vita. Divino moto inesauribile che si trasferisce alla vegetazione, agli animali, all’organismo umano, attraverso le irrequiete linfe. Soltanto all’organismo, nell’uomo? Ma non furono e non sono, anche se non più quelle d’un tempo, le Camene, le Ninfe delle acque e delle fonti? Non ha forse nome Camena la Musa della poesia e del canto? L’ispirazione, che nel Vate prorompe così come dalla fonte il getto zampilla. Ritorni, ritorni presto l’ispirazione degli arcani Vati, quelli che si sono nascosti (dove?) al pari della dea Furina. Nascosta davvero? Dove, nei pozzi? Dalle profondità della Terra, dalla gelida oscurità sgorgando la sua acqua è limpida nella luce del cielo, è fresca e disseta. Acqua torbida ristagna nella psiche dell’uomo, che non ha in sé le qualità attive della Dea; se volontà non osa, se costanza non opera, se ei non ruba alla “terra”, se d’amore non infuria, se fiamma d’ardimento non s’accende e si propaga dalle sue viscere, se tal fiamma non gli fa fiammeggiare il cuore e la mente non gli si purifica, mai gli s’aprirà la via al Divino, né Furina potrà dargli soccorso, anzi lo tratterrà nella palude mefitica, dove già da tempo ristagna, e non gli sarà possibile uscire a riveder le stelle.

   E chi è il Dio delle acque? Fontus-Fons? No! è solo il dio delle fresche limpide sorgive, a cui sempre l’uomo che pratica la Virtus può dissetarsi, per trarne sovrannaturale ispirazione con il segreto consiglio delle misteriose Camene.

   Chi dunque il Dio, il Signore delle acque? È lui, il Salvato dalle Acque. Il Timoniere che condurrà nell’aureo Porto la fatidica Nave di Giano.

   Allora, sotto il Cielo d’una eterna primavera, fluiranno chiare, fresche et dolci acque.

 

Giano Furrina
Giano Furrina

 

 

TRISTE CAMMINO

 

        Ai volenterosi

       che vorranno dedicare

       alla propria Anima

       queste semplici espressioni.

 

 

   Tu non ti senti amata!

Non ti senti amata dal Picchio

perché mai sei andata

ad ascoltare oracoli nel bosco.

 

   Non ti senti amata dall’Aquila

perché mai da alte rupi

hai contemplato voli grifagni,

ruote immense d’amore intorno al sole!

 

   Non ti senti amata dal Cigno

perché mai, neanche nei sogni,

hai rischiato sulle acque    

argentate dei laghi

quelle vaghe danze algenti.

 

   Non senti l’amore del Lupo,

perché tu mai nelle lunghe albe

hai udito i suoi alti richiami

dal fido cuore della selva.

 

   Già, non intendi l’amore!

Dell’Orso mai tu,

nella notte illune

dei gelidi inverni,

sei scesa a spiare

in fondo alla buia caverna,

il sonno fiducioso.

 

   Conosci tu    

il drudo dell’Ape, il Fiore?

Hai tu colto l’amore

dell’Ape per il Fiore?

 

   Ah, non ti senti amata,

perché tutto questo non curi,

non vedi, non ascolti!

 

   Fidanza non serbi nel tuo cuore

e tanta intesa di voci non odi;

tu da lontani giorni

hai dimenticato, ed è triste

il cammino se mal noto è amare!

 

 

 SICURO CAMMINO

                  Vos, aquae suaviter profluentes!

      

Sì, ho cara la Musa

che celebra i campi feraci

ove s’infiamma il papavero;

che canta i bei prati, in azzurro

tessuti dal fior del giacinto;

che vaga per boschi e per valli

e nelle remote radure

s’imbatte nel picchio vermiglio.

Là di sorti arcane discorre

con l’antico Regge indovino.

 

La Musa che al canto c’invita,

quand’anche su ardui sentieri,

e scopre le vene sorgive

seguendo segreti cammini.

È lei che di mondi stellari

echi vasti suscita, arcani

e al cielo il pio canto destina

che celebra l’astro fulgente.

 

O Diva, che ti offri alla Luna

nei bianchi colloqui affidati  

ai folti segreti silvani!

Ninfa! tu il piede fatidico

astergi nelle acque cilestri,

di vive rugiade, ai mattini,

nutri del casto labbro gli accenti

presaghi, di fulgide aurore.

 

Si sgretola il mondo? Tu canti,

e mai stanca

prosegui il cammino.