SUB IOVE
S U B I O V E
A CIELO SCOPERTO

LA SPIGA
Insondabile vastità dei campi
attratti
nell’oro dell’estate,
quando del firmamento
si restringe l’azzurra pupilla
per ammirare
la spiga,
alta sull’erba selvatica,
apice della bruna zolla!
Qual fecondo trofeo
si specchia in occhi
accesi
di divina luce?
Qual suggello
d’inviolabil mistero?
Prendete fra le dita un chicco di grano, o di farro o di orzo se volete, palpatelo e ascoltate! È stato colto dalla spiga, che a sua volta è stata spiccata dal culmus, lo stelo. Cereali, appartenenti a Cerere,
la spigosa Dea, la battitrice
da biade, Ceres Aloa
che arricchisce i granai, raccoglie e stipa.
Si! già il chicco è stato denudato dalla pula (palea), la loppa, cioè il guscio che rimane in terra dopo la trebbiatura. Il grano! Il lemma latino GRANUM, dal più antico garanum, ci riporta alla radice ghar, che si riferisce a ciò che si dissemina, cresce e crescendo s’innalza,
i campi grandeggiavan di frumenti
sotto il grandioso ciel di pur zaffiro …
Ma quei campi granicoli han dovuto essere liberati, per poter produrre spighe rigogliose e dorate, da un’erba infestante, anch’essa una graminacea, la gramigna, che si diffonde con rapidità, si dice infatti “crescere come la gramigna”. Dove cresce la gramigna quindi non può crescere il grano, né altro cereale. La gramigna, infatti, è un’erba selvatica, Cerere non se n’è mai presa cura; ma non è un’erba maligna, ha virtù medicamentose; è diuretica ed elimina persino piccoli calcoli; i suoi germogli molto teneri e biancastri, cotti risultano una nutriente pietanza; il succo estratto dalla gramigna passa facilmente alla fermentazione contenendo dosi abbondanti di zuccheri. Ma, come detto, dove attecchisce e si propaga la gramigna, non cresce il grano, che ha portamento eretto: lo stelo tende con la spiga al cielo! La gramigna invece pervade il suolo con un apparato radicale nodoso ad andamento strisciante e diffusivo, che stende sul suolo fitti tappeti erbosi; ha debole stelo, appiattito e di poca altezza, con misera spiga. La gramigna si propaga soprattutto con il caldo estivo, quando la sua radice, dormiente nel sottosuolo, si risveglia. Essa è un’erba perenne; i frumenti invece nascono dal seme sparso, durano una stagione e muoiono.
Quel seme, che avete palpato ed ascoltato, tornerà alla terra per rigermogliare e moltiplicarsi attraverso le spighe, di stagione in stagione. Sarà, quel seme, una volta asciutto, dal mugnaio triturato e trasformato in farina. Farina, dalla radice fer ( far, farris, il farro ) contenente il senso di sostenere, nutrire; il verbo latino fero, fers, tuli, latum, ferre si traduce appunto con portare, produrre, sostenere, innalzare eccetera. Dalla stessa radice gli aggettivi ferax e fertilis, ferace, fertile. Una volta ottenuta la farina, separata dalla crusca, interviene il panettiere, colui che fa il pane. Il pane, il nutrimento principe! La radice del vocabolo PANE è indoeuropea, PÀ, è la stessa dei vocaboli latini pascor, mi pasco, pabulum, pastura, penus, provvista di viveri; tale radice si può considerare quasi identica alla radice del vocabolo latino pater, PĀ che ha in sé il senso del proteggere e del nutrire; il PADRE appunto, colui che sostiene la famiglia. Il PADRE il PANE! il PANE il PADRE! Il nutritore e il nutrimento. Matrice: la Madre Terra.
Il panettiere, in lungo camice bianco e cuffia bianca, nelle ore della notte pratica l’arte bianca. Impasta la farina con acqua e lievito madre, ne forma una pasta omogenea e la lascia crescere. A questo punto, un tempo, e si tratta di un tempo antico, anche al tempo dei più antichi panettieri romani, indovinate chi interveniva in tal processo di fermentazione e rigonfiamento della pasta? Ma pensate un po’, essa proprio, la gramigna! Infatti, quei panettieri antichi, anch’essi avevan bisogno del lievito e lo traevano dalle radici della gramigna; sopra abbiam detto: il succo estratto dalla gramigna passa facilmente alla fermentazione contenendo dosi abbondanti di zuccheri. Pertanto quelle radici essiccate, tagliuzzate e macinate venivano utilizzate per preparare il lievito. L’impasto cresciuto, come tuttora, veniva diviso e se ne formavano tante pagnotte che venivano lasciate ad un secondo processo di lievitazione.
Quando le pagnotte, belle gonfie, pizzicate dal panettiere, che in tal modo ne provava la giusta lievitazione, eran ritenute ormai mature, interveniva il furnarius, il nostro fornaio ed un bel forno, caldo di brace ardente.
Furnus dalla radice indoeuropea for, far splendere, ardere. Dal calore del nostro forno esce la fragrante pagnotta. Il grano figlio del sole, il pane figliolo del fuoco. Il seme ebbe matrice la terra e il sostegno del Mars Sator, la pagnotta matrice il forno, agente il Fuoco.
Gentili lettori e amici, da quel che andiamo scrivendo possiamo tranquillamente dedurre che la Natura non è mai matrigna e in essa non va mai assolutizzato il male, come hanno fatto i seguaci della dominante latria; soprattutto nella Natura non v’è ostilità nei confronti di alcun essere vivente. La Natura ha la sua intelligenza e le sue leggi ed anche il suo ordine naturale. L’Uomo sapiente, che s’inoltra nella conoscenza della Natura, non ne trarrà che benefici. L’uomo ignorante, spiritualmente ottuso, grossolanamente materialista, pur se accademico o scienziato di alta fama, non farà altro che provocare guasti con la sua hybris; e quanti già! Indubbio è che la Natura rimane indifferente al destino dei viventi. Ma l’uomo, dotato d’una intelligenza che può trascendere i limiti naturali, ha facoltà di muoversi in essa acquisendovi le necessarie conoscenze, onde non soggiacere alle forze selvagge, per controllarle invece e potersene anche giovare; il topo soccomberà al veleno della vipera, l’uomo imprudente potrà anche guarire del morso; lo sciamano saprà usare quel veleno a fini benefici e, se medico, trasformarlo in farmaco. Ma l’uomo può fare anche di più, lo abbiamo già detto; l’uomo può migliorare la natura: questo può soprattutto in sé stesso, su sé stesso e ciò facendo, vivere quindi in un ambiente naturale armonioso, sano e fecondo; può attrarre sul pianeta, attraverso la giusta conoscenza dei segreti della natura, senza nulla violentare, con la disposizione a trascendere però la terrestre soma e a realizzare una più profonda coscienza di sé, la numinosità del Cielo. Dalla storia del pane abbiamo appreso che l’uomo per far crescere bene il grano deve liberare il campo dalla gramigna. Che la incompatibilità del grano con la gramigna scompare nel momento in cui esso divenuto farina si dispone a diventare pane e la gramigna lievito naturale per far crescere l’impasto che darà il pane, operando il fornaio. Quando si parla di fornaio qui non s’intende parlare solo del benemerito artigiano che pratica tale mestiere. Il vero fornaio è l’uomo consapevole di ciò che è il pane, il nutrimento principe. La conoscenza dei segreti e dei processi della natura è dipesa dalla acquisita consapevolezza dell’Uomo fornaio nella pratica del suo intimo rapporto con l’essere Natura. È la consapevolezza dell’Uomo che agisce da tramite tra la Natura e il Cielo. L’Uomo sappia, nel lume della natura trascendendo la mera naturalità (la necessità con i bisogni, gl’impedimenti), rapportarsi all’idea deificante, in sé accrescendo sempre più alta consapevolezza, quello stato solare del Vir, che va a corrispondere alla sovrana consapevolezza sussistente nel Cielo.
VUOI ESSERE UN ROMANO? FATTI PISTORE!
Giove fu chiamato Aliterio come Cerere Aliteria, cioè entità che somministrano e serbano gli alimenti e quindi portatori di ricchezza; portatori di ricchezza intende il volgo sul piano materiale, ma coloro che hanno la mente rivolta a più alte cose riterranno che ci si riferisca a nutrimento spirituale. Giove era chiamato anche Almum o Ruminum perché da lui veniva il nutrimento a tutte le cose. Nello scritto che precede, riferendoci al cielo e quindi a Giove, abbiamo parlato di un nutrimento principe e questo lo abbiamo trovato rappresentato nel pane. Quel pane simbolico abbiamo visto essere opera del fornaio.
… Hoste repulso
Candida Pistori ponitur ara Iovi.
Esisteva in Campidoglio una candida ara eretta e dedicata dai Romani a Giove Pistore. Questo soprannome di Giove deriva dal vocabolo latino pistor, is, che ha il significato di pestatore (significato originario), mugnaio, panettiere, fornaio.
“… un episodio, sicuramente fittizio, dell’assedio gallico, tratto dal folklore degli inganni bellici, ‘spiega’ il culto di Giove Pistor ecc.” così il Dumézil. La leggenda, infatti, racconta che durante l’assedio posto dai Galli alla città di Roma, Giove compare in sogno ai duci romani e ispira loro un trucco. Recuperassero tutto il grano che avevano nei granai, formassero una buona quantità di pani e li gettassero nel campo nemico. Da parte dei Romani ciò fu fatto e l’ordine del Dio fu eseguito. I Galli, tratti in inganno, ritenendo di non poter ottenere la resa della città per fame, disperando della vittoria, tolsero l’assedio.
L’episodio favoloso è narrato da Ovidio nel VI libro dei Fasti dal verso 349 al 394. Noi scriviamo accortamente favoloso e non fittizio, perché riteniamo che sotto il velo della favola si nasconda quanto abbiamo in parte illustrato prima. Tocca all’intelligenza di chi non si rifà solo alla lettera dei testi comprendere il senso della candidissima ara e del ruolo del Pistore. Se ci rifacessimo solo all’accademismo tutto sarebbe più semplice da interpretare, ma ogni manufatto umano perderebbe di significato e davvero ci limiteremmo ad essere i discendenti della ormai stra-famosissima scimmietta di darwiniana memoria. Il favoloso invece riteniamo possa essere una scala per aprire la nostra mente a spazi più ampi della ferrea gabbia chiamata “Dea Ragione”. Noi dell’empirismo razionalista non siamo soddisfatti e perciò diciamo a questi signori, pur riconoscendo i loro meriti, che vogliamo affrontare l’esperienza del “favoloso”. Perciò, come da ragazzini ci affascinava il bianco fornaio quando riuscivamo ad intravederlo nel suo laboratorio avvolto in un nimbo di candida farina, tanto più ci affascina la figura di Giove Pistore in forma di candida ara.
Ci tocca ora tornare alla favola ovidiana. Mentre la Rocca Capitolina è stretta d’assedio dai barbari, trucibus Gallis, e “fecerat obsidio iam diuturna famem” si svolge un concilio di divinità olimpiche presieduto da Giove. Un concilio molto intimo, familiare; sono presenti Marte, Vesta, Venere e Quirino. Marte si lamenta del destino che sta per travolgere la sua stirpe, i Romani, e si chiede addirittura come mai “putant aliquos scilicet esse deos!” Interviene Giove e rivolto alla sorella così parla: “Tu modo, quae desunt fruges, superesse putentur /effice, nec sedes desere, Vesta, tuas.” Racconta Ovidio che la Virgo Saturnia subito obbedì agli ordini del fratello, ma presi da stanchezza i duci romani erano immersi nel sonno. Giunge loro l’ammonimento di Giove:
“Surgite et in medios de summis arcibus hostes
mittite, quam minime tradere voltis, opem!”
Sappiamo come si concluse la vicenda. Abbiamo scritto sopra che “padre” è colui che nutre e protegge e pane nutrimento principe; abbiamo visto che i Romani a causa dell’assedio soffrivano la fame e rischiavano quindi la perdita della libertà.
La libertà dell’uomo che tende al divino può essere assediata o impedita da forze selvagge e ostili, i barbari, l’oscurità che si oppone alla luce. Tali forze passionali, istintive, necessitanti aggrediscono, pongono sotto assedio la rocca interiore per impedire alla volontà di raggiungere il nutrimento eccelso, il simbolico pane. Eppure l’uomo, come abbiamo visto, ha in sé tutto quel che occorre. Lui ha fatto grandeggiare i campi di frumento, ha tratto dal grano la bianca farina, ha conciliato con il grano l’avversa gramigna per far lievitare e crescere con il calore l’impasto, con il fuoco giusto ha approntato il forno ove cuoce il pane. Questo avviene giornalmente in ogni panetteria, così come avveniva a Roma; ma questo vale anche nel discorso allegorico. E l’allegorista o il favolista può compiacersene quanto vuole. Altrettanto può fare Giove, il gran Fornaio, il Pistore nella sua divina realtà. Ordinerà di buttare pagnotte ai barbari, quel bene che minimamente gli affamati assediati avrebbero voluto gettar via. Perché? Perché il sonno aveva fiaccato le menti dei duci romani, “Iam ducibus somnum dederat labor”, e il sonno è il vero nemico dell’operare, dell’agire. Il sonno e la stanchezza! A tal punto che Marte stesso dubiterà: “nil opis in cura scirent superesse deorum.” Si! Perché negli uomini assonnati il divino pensiero è assopito e nessun aiuto può venire ai dormienti. E quanti si vedono uomini dormire in piedi, come i cavalli, o, peggio dei cavalli, camminare diurni sonnambuli! Si lasciano condizionare da fatti o decisioni imposti dall’estraneo e quindi si lasciano estraniare dalla loro vera realtà, che invece li pressa e li incita all’agire. E c’è chi non vuol mai rinunciare a nulla e non sa fare a meno del superfluo, mettendosi così a rischio. Eppure, c’è da salvare la Rocca! Non volete gettar via quel che un principio superiore vuol che voi rinunciate? Ebbene, rimarrete asserviti per sempre. Ma è una cosa di cui non posso fare a meno, per me è di vitale importanza; e ti troverai in una via senza uscita. Ma guarda il libero cielo, il cielo che splende di luce inesauribile, il cielo che ha tutto in sé, e allora potrai anche concepire che potresti liberarti di tutto per non esser schiavo di nulla. E tutto operando con misura, senza hybris. Solo allora l’uomo trova tutto in sé, anche l’aiuto divino. E trova l’inesauribile nutrimento e in esso il sapere, il consiglio divino e la conoscenza che fa dell’Uomo ponte tra la Terra e il Cielo. Lui, il piccolo fornaio, troverà dentro di sé, nel cuore divenuto generoso, nella mente detersa del superfluo, dell’inutile, del vano, un’immagine realmente efficace, l’immagine del grande Fornaio, l’immagine candida e lucente di Giove Pistore, il Padre Almo Aliterio che serba e dispensa il nutrimento inesauribile.
Ah, la bella modesta ara candida - nomine quam pretio celebratior arce Tonantis - di Giove Pistore!
Vuoi essere un Romano? Non irrigidirti come uno stoccafisso, lascia perdere i parolai e i loro discorsi enfatici, non forgiarti in un Marte di cartapesta, rimarresti solo e per sempre un fantoccio. Sei affamato? butta ai barbari le pagnotte in sovrappiù e non dolertene!
Vuoi essere un Romano? Fatti Pistore!
