TIZZO-PUER

TIZZO - PUER
Abstinet alma Ceres somnique papavera causas
dat tibi cum tepido lacte bibenda, puer.
Noctis erat medium placidique silentia somni:
Triptolemum gremio sustulit illa suo
terque manu permulsit eum, tria carmina dixit,
carmina mortali non referenda sono,
inque foco corpus pueri vivente favilla
obruit, humanum purget ut ignis onus.
Excutitur somno stulte pia mater et amens
“quid facis?” exclamat membraque ab igne rapit.
Cui dea “dum non es” dixit “scelerata, fuisti:
inrita materno sunt mea dona metu.
Iste quidem mortalis erit.
Ovidio, Fasti, VI
Racconta Ovidio, alludendo ad antichi rituali eleusini, che Demetra in cerca della figlia Persefone, giunta ad Eleusi in sembianti d’una vecchia, viene accolta da Celeo, che le chiede di curare suo figlio, il piccolo Trittolemo ammalato. Demetra per ricambiare l’ospitalità decide di far dono a Trittolemo dell’immortalità:
… pronunciò tre incantamenti,
formule non esprimibili con umani accenti
e nel focolare con vivente favilla
il corpo dell’infante ricoprì, onde
col fuoco sgravarlo del mortale carco …
Ma la madre dissennata toglie il piccolo dal fuoco, come sopra potete leggere nell’originale latino. Abbiamo tanto parlato del puer ed ora ce lo troviamo immerso nella brace ardente per opera di una dea che vuole renderlo immortale con il fuoco. Ma, perché ciò avvenga, deve pur esserci nel corpo egro, febbricitante dell’infante una vivente favilla, destinata a spegnersi se la mater/materia lo rapisce al tentativo di indiarsi. Quel corpo egro d’infante febbricitante è il tizzo incandescente tendente ad alimentarsi con la vivente favilla che nel disvelamento d'una pienamente coltivata assoluta consapevolezza, coscienza del più riposto sé, alimenterà nell’uomo/humus il Fuoco/Spiro, eliminando l’umidità radicale, ove fermentano i molteplici, meschini, idolatri “io”, conducendolo allo stato del Vir.
Puer?... radice “pu”, dicono i più, esprimendo il solo senso del generare, del nutrire; ma noi abbiamo a che fare con la parola puer che riteniamo ancor più antica dell’accennata radicale, limitata e involuta al solo significato terrigeno. Puer invece dovrebbe derivare da pyr/fuoco, con l’inserzione della e, attenuamento, cioè fuoco che cova sotto… nel tizzo, ancor infermo; cioè al momento non in grado di sostenere… perché terra tenue e quindi tenue fuoco. In questo, ancor, purezza.
Il poeta Arthur Rimbaud, nel suo sonetto Voyelles, così colora la vocale E :
… E, candeurs des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles;
Al suono vocalico E il Rimbaud assegna candori, vaporosità leggere, bagliore di ghiacciai, regale purezza... È proprio dei poeti esprimere immagini illuminanti; a ciò alludiamo con discrezione.
Ed ora torniamo là, a quei muti primordi, dove sfolgoreggia la sempre primigenia aurora e ci viene incontro il volto bifronte del Progenitore… Entriamo nella capanna avita, al centro di essa il focolare, l’ancestrale matrice, accanto una casta Signora… una mano virile si tende, scaturisce un fuoco; la capanna s’illumina tutta, la coppia sorride… s’ode un vagito!
Vesta, la Madre virginale; Giano, il Progenitore divino, il Fuoco/Spiro; il fanciullo, il tizzo che vuole ardere, il puer divino. Un Omphalos.
…est Tellus Vestaque numen idem,
recita Ovidio, perché come Tellus è madre, in quanto matrice di tutti i semi che dal suo grembo germogliano, così Vesta è la madre del Fuoco/Spiro, quindi di tutti coloro, i tizzi/semi, che matureranno in sé il Vir. Soprattutto è la Vergine Madre del Fuoco generatore, rigeneratore e purificatore, eppur figlia d’esso Fuoco.
Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio…
Così la celebra Dante, con versi velati.
Da quella capanna primordiale, al focolare nel Tempio di Vesta a Roma; da quel santo Penetrale il Fuoco si irradiava sull’Urbe e sulla casta intimità delle Domus romane. Fuoco sacro, tramandato dai tempi del Divino Progenitore.

Le tremende guerre civili avevano insanguinato e sconvolto l’Urbe sacra, falsi dei e bugiardi insidiavano le coscienze e le menti degli uomini, popolavano di cupe immagini gli orizzonti. Ma il Genio patrio non era spento; ancora Uomini d’antico lignaggio, praticanti la Virtù dei Padri e in pace con gli Dei aviti respinsero il tenebrore. La luce iperborea ritornò a irradiare l’Urbe. Roma riebbe un Princeps, Augusto, un degno Senato e i suoi Vati. Il Fuoco ritornò ad ardere. Un Vate soprattutto, Virgilio, cantò con voce potente la divina rinascita; il ritorno degli Uomini ai nobili culti aviti, tra cui il culto del focolare urbico e di quello domestico. Nella ecloga IV delle sue Bucoliche, tutta risonante d’un divino auspicio, egli canta con semplicità e forza il ritorno d’un ordine che rinnova i secoli; canta il riapparire in casta immagine della coppia primordiale, alto caelo, da cui discenderà la nuova progenie. E il canto termina con domestica semplicità presso la cuna aurorale, con l’invito al puer divino a riconoscere i Parentes dal sorriso; il sorriso, il viso radiante nell’immagine solare del Vir, nell’immagine aurorale della Mater, la Matuta.
Il Vate che canta tale ritorno, nessuno lo può superare, nemmeno poeti di ascendenza divina, nemmeno il grande Pan.
IL PUER DIVINO
novus ab integro saeculorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Cantiamo, sicule Muse, temi più alti!
Non sempre gradito d’arbusti e umili tamerischi,
se cantiamo le selve, siano degne d’un Console.
Giunta è l’ultima età del carme cumeo;
già di secoli nasce un nuovo serto glorioso.
Già torna la Vergine e il saturnio regno,
nuova progenie dall’alto ciel discende.
Tu al fanciullo nascente, che porrà fine
all’età ferrea onde aurea età sorga,
favorevole sii, casta Lucina: ora il tuo Apollo regna.
Te Console, si vedrà l’inizio d’un’età gloriosa,
o Pollione, e ci verranno incontro mesi fiorenti;
duce te, ciò che ancor dura dei nostri misfatti svanirà,
libere le terre dal sovrastante timore.
Egli avrà la vita degli dei, e vedrà gli dei
agli eroi frammisti ed egli stesso con loro;
con le patrie virtù reggerà in pace l’Orbe.
Ma di più, incolta, la terra per te, o pargolo,
spargerà semplici doni, con lo spigo l’edera
errante, la colocasia al vago acanto unita.
Le caprette da sole riporteranno a casa
le poppe colme di buon latte; gli armenti
non temeranno i grandi leoni; conscia
la culla emanerà per te soavi profumi.
Perirà il serpente, si estinguerà l’erba nociva,
dovunque crescerà l’amomo assiro.
Tosto che avrai appreso i canti degli eroi e le imprese
del padre e in te scoprirai quanto valga la virtù,
bel bello la campagna imbiondirà di soffici spighe,
dai selvaggi spini penderanno giù grappoli rubenti,
roscido il miele stillerà dal tronco duro della quercia.
Eppur, alcune tracce rimarranno dell’antica rovina
che indurranno a sfidar con le navi Teti, di mura
a cinger le città, a fender coi solchi la terra.
Allora ci sarà un Tifi ancora e un’altra Argo
imbarcherà distinti eroi; divamperanno altre
guerre e daccapo il grande Achille sarà mandato a Troia.
E quando l’età in te avrà maturato le virtù virili,
sua sponte il navigante rinuncerà al mare,
né più nave scambierà le merci, ché ogni terra
porterà di tutto. Né il campo patirà il rostro,
né la vigna la falce; slegherà il robusto aratore
i tori dal giogo; né tinte contraffar saprà la lana;
sui prati l’ariete muterà del vello il colore;
o di porpora rutilerà soave o s’intingerà
nel croco; spontaneamente il sandice
rivestirà di minio nei pascoli l’agnello.
“Scorrete siffatti secoli”, dissero ai fusi le Parche,
concordi nel fermo volere dei fati.
Preparati alle alte cariche (già viene il tempo),
cara prole divina, gran lignaggio di Giove!
Guarda! Con il convesso pondo, il mondo concorda,
le terre, del mar la distesa e il cielo profondo;
guarda, come tutto gioisce per il secolo che viene!
Oh, a me ancora una parte resti d’una lunga vita
ed estro sufficiente a cantar le tue imprese!
Non vincerà me nei canti il tracio Orfeo
né Lino; benché questi la madre e l’altro il padre
assista; Calliope, Orfeo, e Lino, Apollo dal bello aspetto.
Finanche Pan, in gara con me, giudice l’Arcadia,
finanche Pan, giudice l’Arcadia, si direbbe vinto.
Inizia, pargoletto, a conoscere la madre dal sorriso
(ebbe la madre per lunghi mesi le nausee),
inizia piccino! Al nato cui i genitori non sorrisero,
né della mensa un dio, né lo degnerà del suo letto una dea.
Virgilio, Bucoliche, Ecloga IV -Nostra traduzione-