ARISTOCRAZIA E DEMOCRAZIA

SPARTA E ATENE
ARISTOCRAZIA E DEMOCRAZIA
NELL’ESEMPLARE AUSTERO PENSIERO
DI CRIZIA IL GIOVANE
Ma tanta è quest’invidia che regna,
Che sempre si disface il ben comuno
E l’uno di seguir l’altro si sdegna.
Cecco d’Ascoli
“Per perfezionare un sistema di governo si possono formulare molti rimedi; ma se si è convinti che un regime democratico deve sempre durare, e nel contempo si tenta di escogitare qualcosa per migliorarlo, ciò non è possibile, se non limitandosi a ritocchi minimi. Qualche modesto cambiamento è pur fattibile ma non tanto, senza incrinare il fondamento stesso della democrazia.”
Queste considerazioni riportate vengono da lontano, sono in una breve ma intelligente opera dal titolo Sul governo degli Ateniesi di autore ignoto, dicono (Pseudo Senofonte). L’opuscolo fu certamente stampato anonimo e circolava in quel tempo di nascosto per evitare la repressione della partigianeria democratica fin troppo accanita e aggressiva. Il tempo era più o meno quello dell’Atene democratica battuta, al termine della lunga guerra del Peloponneso, nella battaglia di Egospotami dall’aristocratica e guerriera Sparta.
Nel V sec. a.e.v. la ancor giovane democrazia ateniese si era dotata di una notevole forza navale e, inoltre, possedeva considerevoli risorse finanziare che si era procurata con il predominio sul mare e quindi con il traffico mercantile, munita la città del possente porto naturale del Pireo; violando quindi ogni accordo internazionale essa perseguiva una politica espansionista, e questa democratica intraprendenza incominciava ad apparire davvero aggressiva. Anzi senz’altro aggressiva. Le oligarchie e i capi democratici che si alternarono, sia quelli di mero stampo demagogico, sia governanti ‘illuminati’ e intenti al lustro della città, un Temistocle o un Pericle, tesero subito a costituire una lega capeggiata per l’appunto da Atene. Si armeggiò e si macchinò al fine d’introdurre dappertutto sistemi democratici per facilitare le intese con i gruppi mercantilistici e concertare i traffici, senza intralci o scontri; quest’accorta opera d’intrecci e scelte politiche evidenziava per giunta l’affermarsi di una vera e propria dottrina 'mercantilistica' e un lucido disegno di politica imperialistica che incoraggiava la città egemone a riscuotere tributi, a volte anche onerosi, nei confronti degli egemonizzati.
Il primo a gettare le basi di una dottrina democratica in Atene fu Clistene che definì la sua radicale riforma isonomia, cioè eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; si ispirava al buon governo e alla munificenza di Solone. Introdusse nella nuova legislazione l’ostracismo, esilio della durata di dieci anni cui potevano essere condannati i cittadini invisi al popolo o sospettati di ambire alla tirannide; l’esilio era deciso dal popolo con il voto scrivendo su un ostrakon (un coccio) il nome dell’esiliando. Tramanda Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica che il primo a subire l’ostracismo fu proprio Clistene. Ma il primo a intravedere nel senso progressista, cioè economico mercantilista, le potenzialità espansionistiche e di sviluppo materiale di quelle novità dottrinarie fu Temistocle. Era insito in quel rivolgimento istituzionale uno sconvolgimento dell’ordine normale e connaturale alla dignità della persona umana che deve essere orientata alla prudenza, alla rettitudine, alla probità, alla giustizia, a migliorarsi e ad essere idonea ad esercitare validamente la virtù. Si proiettava l’uomo in un futuro fatto tutto di problemi e necessità materiali, si condannava l’uomo alle esigenze istintuali, alla contingenza immediata, alla sorpresa dell’accidente. Temistocle, pare provenisse da una famiglia d’immigrati, ambizioso e molto intraprendente seppe astutamente giovarsi di tal stato di cose, escogitò stratagemmi e ogni sorta d’accorgimenti per acquistare popolarità. Come abbiam detto guardava lontano e una volta partecipe del potere s’adoperò per fare di Atene una potenza marinara, una potenza egemone e nel contempo finanziariamente solida. Plutarco ha scritto di Temistocle che fu “l’uomo che più di tutti contribuì alla salvezza della Grecia”. Si riferiva alla minaccia persiana e al contributo dato da Temistocle alla vittoria su Serse. Il Generale ateniese riuscì ad ingannare il Gran Re con false informazioni e astuti sotterfugi e a tendergli una trappola nello stretto di Salamina dove la flotta persiana andò completamente distrutta. Ma la gloria di Salamina il potente capo democratico la scontò con l’ostracismo; l’esule chiese asilo al Gran Re, il figlio del vinto sovrano, e Artaserse glielo concesse. In Persia Temistocle servì fedelmente il sovrano e partecipava volentieri alle battute di caccia reali.
C’è un’assoluta, radicata incoerenza nella democrazia e nei democratici d’ogni tempo su cui gli intelligenti avrebbero tanto da riflettere e liberamente chiedersi come è possibile che questa ideologia venga accettata al pari d’una verità dogmatica. Nulla di unitario, coeso, organico nei sistemi democratici; compromessi, accomodamenti, anche cedimenti, mai accordo generoso e duraturo; non equanimità, nessun accento d’armonia, nessun ordinato disegno. Non concordia, ma diffidenza, discordanza. Ὁ δῆμος, cupa, grigia, volgare idolatria dell’aequale informe! Non più i sapienti, non più sagge, esemplari aristocrazie, non più benemerite e operose plebi, non più popoli, nazioni di uomini, ma la moltitudine brulicante, la calca, la massa, il disordine serpeggiante di odiosità e livori. E lo stolido affaccendare dei demagoghi con cravatta a fiocco e delle novissime comizianti telex dalle labbra demoniche e i prolissi linguaggi cibernetici! Infine, il predominio assoluto dell’indefinibile ma indefesso usuraio, Mastro Finanza, il supremo ostracizzatore, i cui vasi di coccio sono i giornali, la Tv, i mass media che vanno asservendo tutto al cosiddetto ‘pensiero unico’. Sabbiosa uniformità! Il demone del deserto: il Disgregatore.
O Temistocle, qual grande fortuna ti arrise allorché l’ostrakon ateniese ti proscrisse! Libero dal peso gravoso del dèmos, tu grande demodossalogo, potesti, forse senza merito (o ci fu ravvedimento?), finalmente rilassarti e gioire un po’ della vita alla corte ospitale del Gran Re, prendendo anche parte alle favolose battute di caccia reali. Negli intervalli Artaserse ti chiedeva dei fatti di Salamina e tu gli narravi i particolari della cruenta battaglia e dei tuoi stratagemmi e dell’inganno astutamente tessuto e del fato che perdé la flotta di Serse. E il pensoso figlio del re sconfitto, Artaserse, dovette benevolmente sorridere all’ospite.
Fu Pericle dunque lo statista che rese stabile la democrazia ateniese? Di certo si sa che Pericle accelerò e rafforzò l’egemonia di Atene sulla lega di Delo e che di tale impero si servì per il lustro del popolo ateniese e per il decoro e la gloria della capitale dell’Attica. Delo era sede del tesoro dell’alleanza e con un colpo di mano Pericle lo trasferì ad Atene e a quel tesoro attinse per abbellire la città, ristrutturarne l’Acropoli e ampliare il Partenone affidando a Fidia l’incarico per la decorazione. Fu una eclatante appropriazione indebita, ma la cosa gli riuscì. In riferimento, poi, alla democraticità del governo di Pericle, Tucidite espressamente riferisce che in Atene sotto Pericle “nominalmente vigeva la democrazia, ma in realtà era Pericle stesso il padrone dello stato.” Il discendente degli Alcmeonidi, una famiglia aristocratica ch’ebbe sempre profonda influenza sulla società ateniese, fu, di nuovo dall’eminente storico, distinto come “primo cittadino ateniese”; in buona sostanza un Princeps che in tal qualità favorì le arti e la cultura della sua città oltre ai grandiosi progetti edilizi. Tra le guerre persiane e quella che poi sarà la lunga guerra del Peloponneso, in effetti la durata del governo di Pericle, si produsse quello che fu definito dagli storici antichi e dai moderni il periodo d’oro della città di Atene. Nella Vita di Pericle, Plutarco sostiene che lo statista riuscì a eliminare ogni contrasto nel popolo ateniese, ma che, per ottener questo, prese nelle sue mani tutti gli affari della città, controllando l’amministrazione pubblica e le forze militari di terra e di mare, senza trascurare l’obbedienza dei popoli dell’alleanza assoggettata, cioè la loro ‘fedele’ democratica sudditanza. Plutarco sostiene ancora che Pericle non fu mai “arrendevole verso il popolo né pronto a cedere o a compiacere le voglie dei più”. Sempre Plutarco aggiunge che fece “un potere aristocratico e monarchico” di quella che era stata una democrazia debole e disordinata; operava e procedeva inflessibile, ma sempre attento ad indirizzare il popolo al bene e all’utile. In tal modo riteneva di sostenere nel popolo la democrazia. Ciononostante venne il momento in cui fu accusato, da avversari interni al sistema, di cattiva gestione delle pubbliche finanze e ciò generò una grave crisi. Tra l’altro furono lanciate gravi accuse contro i suoi collaboratori. Fidia fu incolpato di empietà e di essersi appropriato di una parte dell’oro destinato alla statua di Atena, condannato, morirà in carcere. Il più illustre consigliere del Princeps, il filosofo Anassagora, fu anch’egli chiamato a rispondere di empietà e condannato al pagamento di una forte multa e all’esilio. Una grave accusa d’immoralità colpì Aspasia, la sua amante e donna di brillante intelligenza. Difesa dallo stesso Pericle, a stento se la cavò. La posizione dello statista sembrava fortemente compromessa e Pericle per risolvere la crisi interna pensò bene di guardare all’esterno e d’improvviso bloccò i tentativi d’intesa e compromesso che erano in corso con Sparta. Megara era nella lega del Peloponneso, ed era posta tra Atene e Corinto, anch’essa leale alleata di Sparta. Pericle volle imporre su Megara la sovranità ateniese. Ne nacque il conflitto, che Sparta non voleva. Una volta inaspriti i rapporti con la città lacedemone iniziarono i saccheggi dell’Attica, che indebolirono presso il popolo il prestigio di Pericle, sempre attento ad evitare di impegnare battaglia con l’esercito spartano mentre inviava la flotta a saccheggiare le coste del Peloponneso. Quando nel 430 l’esercito spartano saccheggiò nuovamente l’Attica, durante quell’estate scoppiò una epidemia che devastò Atene. Allora i nemici interni riuscirono a privarlo della carica di stratego, mettendolo sotto accusa; ebbe la peggio e fu multato. L’anno seguente però il popolo ateniese lo riabilitò e lo rielesse stratega reintegrandolo nel comando, ma poco dopo nell’autunno il Princeps degli ateniesi morì di peste. Pericle fu quindi l’uomo che, nella sua qualità di statista, per risolvere una crisi interna, scatenata dai perversi meccanismi insiti in un sistema democratico, dovette ricorrere, per primo nella storia, ad un incidente bellico. Sono molti gli storici che han sostenuto che per risolvere la grave crisi interna Pericle fu costretto a preparare la guerra contro Sparta. Da quella guerra Atene ne uscì malconcia.
Cosa accadde dopo? Sappiamo da Tucidite che, morto Pericle e subita la grave sconfitta, iniziò il declino di Atene e della ‘democrazia’ in Grecia; i demagoghi che gli successero non assorsero mai a veri statisti, per mantenersi in sella assecondavano la plebe e “la loro politica fu sempre dispendiosa e militarista”. Le loro figure e le loro gesta attraversarono le scene farsesche dei poeti comici dell’epoca; un esempio fra tanti il demagogo Cleone, l’accusatore di Pericle, antispartano ma interessato bellicista, feroce e sanguinario, e, più che alla salute del popolo, attento al business della sua azienda di conciatore di pelli; questo sgradevole personaggio fu il bersaglio della satira del grande Aristofane nell’arguta e coraggiosa messa in scena dello scadimento democratico: I Cavalieri. Incisivo e sentenzioso, lo scrittore rumeno dei nostri tempi Emil Cioran: “Ogni democratico è un tiranno da operetta”.
Il desolante e deludente contesto politico-sociale della democrazia nell’Attica antica non deve sorprendere chi reputa attuabile in pieno un sistema in cui ci si potrebbe destreggiare con bastevole accortezza e un po’ di abilità dato il numero contenuto degli elettori e l’inferiore consistenza demografica; certo ai tempi di Pericle la popolazione dell’Attica intera non s’approssimava neppure alla metà degli abitanti dell’Atena di oggi, inoltre i non cittadini erano in gran numero ed era da comprendersi in quella popolazione la massa degli schiavi e il rilevante numero degli stranieri e quindi non cittadini, seguendo le polis greche il criterio dello ius sanguinis; tolti tutti costoro e poi le donne, che seppur cittadine non erano ammesse al voto, e i minori e i giovani chiamati alle armi, i cittadini adulti di sesso maschile votanti e che potevano anche proporre disegni di legge non superavano i venticinquemila.
Orbene, cosa allora non funzionò? Non vogliamo ingolfarci nel pantanoso pelago del democratismo, la democrazia è sempre un falso professare, ci limiteremo perciò ad accennare con sobrietà. Il britannico Hobbes sosteneva che la democrazia “non è altro che una oligarchia di oratori, interrotta qualche volta dalla provvisoria monarchia di un solo oratore”, in tal caso il grande Leviatano (la moltitudine che si riunisce in uno) toccò a Pericle rappresentarlo, come abbiamo visto e il Princeps ateniese fu un grande oratore; per di più Pericle era un aristocratico, come lo era stato Clistene, ed ascoltava i consigli di saggi filosofi. E se allora le cose andarono male, dipoi venne anche il peggio. Ce lo dice il nostro Anonimo: “Io dico dunque che ‘il Popolo di Atene’ sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla canaglia. Ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli ed utili, anche se sono canaglie, e la gente dabbene la odia proprio in quanto perbene: pensano infatti che la virtù, nella gente perbene, sia nata per nuocere al popolo, non per giovargli.” Tutto questo fomenta l’indisciplina, e l’indisciplina, con lo sfrenato individualismo, può portare a improvvisi cambiamenti e all’impossibilità di controllarli, ciò può inevitabilmente volgere a gravi sconvolgimenti e a precipitare nello smarrimento intere generazioni. E questo possiamo verificarlo anche oggi, proprio in questi anni turbolenti.
La virtù è la qualità e il pregio del ἄριστος, superlativo di ἀγαθός, il migliore, il più idoneo e valoroso e quindi il probo, il capace, il coraggioso; in sintesi: questi è il virtuoso. Tal qualità non è solo una grazia innata, ma soprattutto una disciplina procedente da un consapevole e responsabile tenore di vita o anche acquisita con un lungo discepolato. Il popolo convenuto in moltitudine, in folla, non formato ed educato con l’esempio dall’alto, non guidato sulla via dei padri, quindi asservito ad allogeno costume, svilita la patria cultura e allontanato dall’amor patrio, abbandonato alle fazioni e alla faziosità demagogica è impedito a possedere e a coltivare virtù. In tal condizione anche il più antico e valente tra i popoli si corrompe, declina e senza scampo decade. Un tale agglomerato perseguirà esclusivamente l’utile nell’immediato, riterrà sgradevole e disutile la virtù e perfidioso seguirà la canaglia. La canaglia… quella d’ogni tempo!
All’inizio del V sec. a.e.v. il poeta Teognide biasimava nelle sue elegie coloro che una volta illustri per virtù incominciavano a comportarsi ignobilmente, intanto che, per converso, i provenienti da volgare e oscura estrazione si fingevano nobiluomini; mentre i nobili si screditavano, il plebeo acquistava notorietà con la frode, in ogni dove si propagava l’impostura. La decadenza delle aristocrazie dette avvio alla democrazia. Immiserito lo spirito aristocratico, non coltivando più l’ottimate la superiore consapevolezza, che educa alla conoscenza dell’uomo vero e lo indirizza alla imperturbabilità, specchiantesi nel cielo d’una trascendente olimpicità, si diffuse l’aspro morbo del losco turbamento, il sovvertimento d’ogni ordine. Il dèmos-volgo levò la sua testa d’idra famelica. Sopraggiunse impettito l’egoismo dei mercanti; l’affarismo incorreggibile e corruttore, troppo spesso alleato del crimine.
Veggio che è tolto l’ordine e lo bene,
Veggio che regna ciascun uom malegno;
Veggio li buoni qui non aver loco…
I versi di Cecco d’Ascoli, tolti dal Capitolo ‘Egoismo e Altruismo’ nel poema L’Acerba, sono assegnabili a quest’oggi come al mondo di ieri.
Un tempo per aristokratía s’intendeva il ‹governo dei migliori›, dei generosi e magnanimi: spiriti creativi e fecondatori che davano luce e splendore al governo, alle arti e alla cultura dei popoli, perché sapevano ben curare e custodire le tradizioni patrie e soprattutto sapevano governare sé stessi e governare le passioni per non lasciarsi travolgere, accettando ogni sorta di privazione e rinuncia. Esemplari sempre, i veri ottimati dovevano possedere poco, pauca, poche cose; esecravano la ricchezza e il lusso, per non incorrere nella distrazione, nella disattenzione, nella dimenticanza; non si concedevano svago per non divagare od errare e così non esser distolti dal giusto, proficuo operare. Intenti a dura disciplina, al raccoglimento, alla riflessione, per sviluppare maggior consapevolezza, ingentilire gl’intimi precordi e riaccendere nell’animo il valore, migliorare e lustrare la mente e sempre al più perfezionare lo spirito, con il precipuo intento di poter guardare attentamente nella profondità segreta, inintelligibile ai volgari e agli ignobili, della “provedenza che governa il mondo” (Dante), quella provedenza ove opera dei saggi il veloce intelletto. Afferma D’Ascoli: “Per l’opera si mostra l’uom gentile”. Concordia e misura, l’uomo gentile è colui che attende alla propria gente e ne ha cura ed è anche pronto a prestare soccorso a chi lo invoca. Con parola comune, abusata e incolore, oggi vien definito ciò altruismo e sarebbe l’attitudine del ‘filantropo’, questo sconosciuto! Altrimenti l’egoista, l’uomo pravo del D’Ascoli che “guasta la comune utilitate / per lo voler che acceca la ragione”. Ahi! Quanti filantropi, di ieri e di oggi, nella loro attorale finzione, e raggelante ratio, sono uomini pravi, pravissimi e … danarosissimi!
Ci siamo dilungati sulla nozione originaria del termine aristocrazia avendo esso subito, nei tempi ultimi una evidente falsificazione in quanto acriticamente, e anche faziosamente, contrapposto all’oggi dilagante democrazia, termine di gran lunga più recente. Con forzata distorsione e al fine di svalutarne il senso autentico, recentemente i politologi materialisti e le filosoferie marxiste straparlano di aristocrazie bancarie, finanziarie, di aristocrazie di arricchiti etc., ma impudentemente, a veder nostro, per quanto abbiam già detto di sopra. Vogliamo ancor di più approfondirne, per quanto possibile, il senso risalente alla sua prima antichità? Dapprima soffermiamoci un momento sul significato dell’aggettivo greco ἀγαθός, in lingua latina bonus, (compar. melior; superl. optimus), in italiano buono, migliore, ottimo. Premettiamo che i plurali οἱ ἀγαθοí e οἱ ἄριστοι entrambi significano ‘gli ottimati’; ciò è facilmente spiegabile per la ragione che in antico ἄριστος fungeva da superlativo di ἀγαθός. L’aggettivo italiano buono, d’altro canto, ha assunto sempre più nell’uso comune il senso insulso e scontato, compassionevole-pietistico, impressogli dal moralismo ‘buonista’ e dall’ipocrisia clericale sopravvenuta con l’avvento del cristianesimo, sminuendo il valore che il vocabolo aveva nelle lingue antiche, ove per esso si intendeva tutto ciò che era eccellente, forte, capace, utile, salutare e, con riferimento alla persona umana, il probo, il virtuoso, il valoroso, il nobile; infine al plurale: le virtù, i pregi dell’animo ed anche le ricchezze, soprattutto nel senso di beni che provengono dalla natura. E solo in tal senso esso va rinsaldato e quindi rivalutato. Per completare, con il termine ἄριστεíα, poi,ci si riferiva all’azione eroica, illuminante. Ci resta ora da considerare il termine neutro κράτος, che ha il significato di forza, vigore, solidità, possanza, superiorità, vittoria etc. Con aristocrazia, quindi, originariamente si intendeva esprimere la solidità e la potenza della virtù, che rendeva l’uomo nobile, valoroso e vittorioso. Solo successivamente volle significare il ‹governo dei migliori› e solo in tempi già in declino si prospettò come quella classe socialmente superiore che andava affermandosi in base a criteri di ordine dinastico e culturale ed infine di ordine soprattutto economico. Intristiscono i tempi, ormai ci s’imbatte in avide, intemperanti oligarchie, giacché appare sulla scena il vorace δῆμος, quel volgo che consuma e distrugge, e, giunti a questo punto, il κράτος sarà grossolanamente inteso soltanto come un potere politico-economico-utilitarista; compare la politèia, ma si presentano anche i primi conati di ‘democrazia’ con il codazzo delle superstizioni e delle dottrine materialiste. Ascoltiamo ancora Cecco D’Ascoli: “Non è chi faccia ben, non è, se ad uno / Per l’util si consiglia pur lo peggio.”
Teognide racconta nelle sue elegie che lo spettacolo sopravvenuto era davvero deplorevole; i nobili di una volta erano divenuti plebe e i più radicati plebei s’illudevano di nobilitarsi; da una parte i nobili si disonoravano, dall’altra i plebei ormai godevano di rilevante prestigio. Dappertutto un losco mestare, trafficare, intrigare e frattanto l’un l’altro si frodavano. Gente che s’addestra al raggiro, all’inganno, non conosce più la lealtà. Uomini perduti! E l’antico vate ne soffre, ancor oggi nei suoi versi. L’oclocrazia poi, quando prevarrà, conterrà ogni sorta di oligarchie in una eterogenea mescolanza di notabili degeneri, ricchi mercanti, demagoghi emergenti, nuovi già oscuri magnati. Queste oligarchie si alterneranno al potere, non solo in lotta fra di loro, ma attuando spesso anche compromessi; preminente sempre l’interesse, l’utile, gli affari, e il consiglio sempre indirizzato al peggio… che si possa cagionare.
Cagionare a chi? ... Al popolo, diamine! L’abbiamo già enunciato qualche riga più su che c’è un’assoluta, radicata incoerenza nella democrazia e nei democratici d’ogni tempo.
Resisteva ancora Sparta. L’aristocratica e guerriera città della Laconia era l’unica città greca dove, si è scritto, era stato istituito un vero ‹regno dell’uguaglianza›. Così aveva voluto Licurgo, il grande legislatore, in epoca arcaica, e quell’ordinamento era durato per secoli. Gli spartiati erano una perfetta ‹comunità degli uguali›; essi detestavano il lusso e lo sfarzo, avevano un sommo disprezzo per la ricchezza, prediligevano i costumi semplici; ritenevano cosa non degna il mercanteggiare, Licurgo proibì alla città di dotarsi d’una flotta sia mercantile che militare per evitare ogni spinta alle conquiste e richiami mercanteschi. L’amor di patria e la difesa delle patrie tradizioni arricchiva la coscienza e il sentimento della gioventù spartana; erano tutti ottimi, coraggiosi e leali militi. La guerriera Sparta, però, non era una città bellicista. Lo spartano guerreggiava soprattutto per sé stesso, onde raggiungere una elevata consapevolezza e liberare l’animo dagli oscuri istinti, dalle inclinazioni ignobili e così, interiormente pacato, assurgere a quella virtuosa disciplina attraverso la quale si riesce a forgiare la sicurezza dell’animo e a sentire che ormai si è idonei ad affermarsi in se stessi e a realizzare quella libertà vera e quella suprema pace che unisce e lega il turbine, quell’insieme di sensazioni, pensieri e l’altro che ci s’immaginava di essere, in un solo UNO, il luogo del reale/ideale e viceversa, ove ci si rende veritieri, saldi, fermi. Questo il motivo per cui a Sparta persisteva nei secoli la concordia nello Stato e tra il popolo e questa condizione si rinnovava di generazione in generazione perché, in continuità con i padri, sempre stabilita di comune accordo, una volta concluso in sé stessi il gran patto. Concordia è, e si afferma, quando gli uomini superano l’individualismo, gli egoismi, le vanità, le ambizioni, le rivalità, il richiamo delle passioni, dell’utile e dell’interesse esclusivamente personale. Concordia fu il severo costume di Sparta. È per questo che gli spartani ritenevano lo Stato il vero padre comune ed il padre e la madre e gli ascendenti naturali, anch’essi un tutt’uno con il cielo e la patria spartana, soltanto ragguardevoli avi e genitori, matrice necessaria, ma semplicemente un ponte momentaneo di congiunzione. Questi ‹uguali› sedevano in gruppi di quindici alle mense comuni, sobri mangiando gli stessi cibi e nella stessa quantità. Non c’è da meravigliarsi quindi se a Sparta mai ci furono sedizioni, né alcuno mai tentò d’impossessarsi del potere con violenza. Mai le autorità spartane abusarono delle leggi, ma con misura e giustizia sempre guidarono il popolo. Sul piano delle emergenze statuali l’addestramento alla guerra serviva esclusivamente a mantenere la pace, alla difesa della patria e alla tutela della libertà del popolo spartano, non avendo mai Sparta preso in considerazione una politica estera aggressiva, non mirando ad alcuna egemonia, né aspirando al controllo delle vie marittime per traffici mercantili mai da essa praticati.
Al vertice dello Stato spartano erano i due Re, che acquisivano la piena autorità, ma anche grosse responsabilità, solo in tempo di guerra; in tempo di pace essi non trattavano i pubblici affari, cui erano deputati i Senatori fra i quali anche i due monarchi e tanto al fine di lasciare aperto il dibattito ad una pluralità di pareri da concordemente comporre; i Senatori erano in numero di trenta ed erano scelti dal popolo al quale spettava anche confermarne le leggi. Le Assemblee popolari erano convocate dal Senato al quale spettava anche il potere di scioglierle. In fine gli Efori, i sorveglianti, in numero di cinque, eletti dal Popolo degli spartiati e tra esso Popolo; quest’organismo funzionava con durata annuale da suprema corte di giustizia e poteva autorevolmente intervenire in caso di disaccordo tra i due monarchi.
Orbene Sparta era una monarchia, una aristocrazia…e anche una democrazia? Sono stati in molti a sostenerlo e noi certo non manifesteremo sconcerto alcuno. Era una monarchia, è indubbio, ed anche un’aristocrazia per come sopra l’abbiamo rappresentata, infatti le società aristocratiche curano lo sviluppo armonico dell’essenza spirituale della persona umana senza congiuntamente trascurare le discipline fisiche; ed infatti era una aristocrazia guerriera mirante a mantenere la pace e la giustizia; una polis guerriera ma non bellicista e quindi aggressiva, perché una integra natura aristocratica non è assoggettabile agli appetiti e il vero guerriero è colui che si è sottratto ai bisogni animali, quindi non agogna e appetisce avido come un bruto, quand’egli attacca il nemico il suo non sarà mai un assalto feroce, belluino. Non sarà mai la guerra di sterminio che progetta il mercante e il suo sicario, il demagogo.
Il retore ateniese Isocrate, qualche decennio dopo la battaglia di Egospotami scriveva che una perfetta democrazia era stata realizzata solamente a Sparta dove gli spartiati, cittadini di pieno diritto, erano tutti eguali. Isocrate condivideva addirittura con Platone dubbi e diffidenza, invece, sulla democrazia in Atene, quantunque il retore attico fosse un tenace sostenitore della democrazia ateniese e ne auspicasse l’attuazione nelle altre polis dell’Ellade. Isocrate era un nostalgico dell’età di Pericle e ne sognava la rinascenza in una unione panellenica capeggiata da Atene e Sparta, infatti egli favoriva l’area politica conservatrice della sua città. Disprezzava la teoretica e i problemi che riguardano la conoscenza e riteneva perciò inutile l’insegnamento platonico. Socrate e Platone insegnavano l’esercizio della virtù, Isocrate al contrario affermava “la impossibilità di insegnare la virtù”. All’educatore è concessa, sosteneva, la possibilità di indagare sulla conoscenza relativa e quindi orientare l’‹opinione›, la dòxa, che è la conoscenza inferiore cui può attingere l’uomo comune, la convinzione dei singoli. La retorica è l’arte per educare la gioventù e la società alla vita pubblica, per indirizzare l’uomo alla ricerca di ciò che è utile, tra cui quel che procura il successo; un discorso va pronunciato solo se dà frutto, se procura utilità; pertanto l’opinione dei più non va trascurata, ma approfondita perché l’incivilimento dei popoli progredisce con la diffusione della cultura; presente sempre alla mente del retore il modello pericleo. Isocrate, quindi, respingeva l’epistème platonica, la ricerca della verità assoluta, quel sapere certo che s’afferma anche nella interiore consapevolezza della persona umana distinguendosi così dall’ondeggiante, mutevole opinione dei singoli. Quel che vale e si verifica nelle democrazie di tutti i tempi: i convincimenti soggettivi che si scontrano tra di loro, se non pervengono a compromessi e sovente al cedimento dell’opinione personale professata. E la dòxa di una polis intera riuscirà mai a fondersi, a portare a composizione lo sparpagliamento dei pareri, e la polis, quindi, a ricondursi a unità? No! Obbligatoria deduzione: le minoranze dovranno sottostare all’opinione delle maggioranze, che a loro volta e non di rado vivono di compromessi. Non fu il caso di Sparta. La polis spartana, fortuna tutta sua, non praticava la dòxa, la ignorava.
Quando si leggono, e ripetute di frequente, frasi come questa che sottolineiamo, ‹le origini dell’ordinamento spartano si perdono nella notte dei tempi›, la silente pensosità che ispirano ci avverte che dobbiamo soffermarci e meditare. Cos’è che, in realtà, si perde nella notte dei tempi? Forse, un qualche cosa di prezioso che era il proprio di quella gente ai cui tempi ci stiamo riportando? Forse un che d’inconcepibile dall’uomo d’oggi per l’appiattimento delle facoltà intellettive non più accettate come attività spirituali, quelle autentiche, reali, operanti nell’uomo integrale, ma volgarmente come mere funzioni biologiche, posti i limiti del dominante pensiero materialista? Or appunto, torniamo a Sparta.
La tradizione più antica faceva di Licurgo, il mitico legislatore di Sparta, un savio, un reggitore e altresì un guerriero, figura in sé unificante le varie funzioni; contemporaneo degli Eraclidi, guida dei Dori discesi nel Peloponneso, era originariamente raffigurato monocolo, alla maniera d’un eroe solare; si riteneva generato da Eunomo (εủ-νομíα), significante rappresentazione, questa ipostasi della realtà ideale astratta del buon governo. M.G. Giustino tramanda: “Parsimoniam omnibus Lycurgus suasit, existimans laborem militiae adsidua frugalitatis consuetudine faciliorem fore. Auri argentique usum velut omnium scelerum materiam sustulit. […] Maximum honorem non divitum et potentium, sed pro gradu aetatis senum esse voluit”. Il savio legislatore esortava il popolo alla parsimonia, infatti le abitudini frugali avrebbero reso più sopportabili le fatiche della milizia. Proibì l’uso dell’oro e dell’argento, perché causa dell’inclinazione al delitto. Massimo onore era dovuto agli anziani e per grado d’età, non ai ricchi e ai potenti.
Fin dalla fondazione, dunque, quel popolo fu avviato a maturare una interiore consapevolezza della dignità della persona umana e sotto savia guida si esercitò alle spirituali virtù che dalla difesa di tal dignità discendono. Gli spartiati grandemente distavano dal concepire materialista, da atteggiamenti edonistici, si valuti solo il fatto che si erano imposti il costume di non maneggiare il denaro; saranno monete di ferro quando sul tardi risulterà indispensabile servirsene. La città, che fu sempre la meno popolata di tutta l’Ellade, non aveva cinte murarie, fin dalla fondazione le mura di Sparta erano le braccia, i petti e soprattutto l’incrollabile valore degli Spartiati. Sparta doveva essere invincibile o perire. L’urbe spartana fu a lungo una fortezza dello Spirito. Nell’anno 295 a.e.v. , quando il re Archidamo IV fu sconfitto dal re di Macedonia Demetrio I Poliorcete nella battaglia di Mantinea ove perirono circa 200 spartani e ne furono fatti prigionieri oltre 500, la Laconia fu invasa, ma ancora Sparta rimase illesa; il re macedone fu costretto difatti a ritirarsi per muovere contro il re di Tracia che minacciava i suoi domini e per altri gravi eventi. Archidamo, rientrato a Sparta, messo in guardia per lo scampato pericolo, per la prima volta nella storia della città fece costruire delle fortificazioni, ma Sparta ormai aveva terminato il suo eroico ciclo. Presto al popolo degli Spartiati sarebbe succeduto sulla scena del mondo il popolo dei Quiriti.
Abbiamo appreso che gli spartani erano sempre rimasti estranei alla dòxa, all’accoglimento del coacervo delle opinioni eterogenee dei singoli, essendo i savi dorici orientati ad una ancestrale forma di conoscenza aristocratica basata sulla rigorosa investigazione di quella profonda verità che sola dà norma alla pratica e fa da guida all’esperienza umana, ritenendo attendibile solo la conoscenza che si basa su fondamenti certi, reali, che non possono mai essere elusi; qualcosa di molto simile a quel che sarà l’epistème in Platone. Il popolo andava strappato alla schiavitù del ‘demonismo’, quella primitività covante la mala passione che si disfrena nel rincorrere la pubblica opinione mutevole ambigua infida, e quindi felicemente liberato dall’irrequietezza dell’opinabile, dell’illusorio, dell’ingannevole che oggi è questo e domani è quello o altro ancora o…chissà!
Inderogabile imperativo, dunque: affrancare le genti dall’incertezza e dal rischio di una perenne discordia e farne il popolo degli hòmoioi, degli uguali, dei concordi.
Per realizzare ciò occorreva render puro il δῆμος, toglier via ogni macchia, laidezza, disonore e vizio, liberarlo dalla cecaggine del cupo, oscuro ‘collettivo’, redimerlo dalla mediocrità, dalla inettitudine, svincolarlo dai ferali caco-demoni, aggressività, avidità, istintività ribellistica, sopraffattrice e così via; occorreva fare del δῆμος-volgo, un popolo solido, non bellicista/belluino, non aggressivo ma in armi, un popolo di guerrieri, quello appunto che fu il popolo degli Spartiati. Un popolo perseverante, insonne, instancabile, che riuscì a raggiungere un alto livello di consapevolezza politica e spirituale.
L’agoghé, ἀγωγή (da ἄγω, condurre, governare, educare) è invigilare la condotta, segnatamente dei giovinetti, accompagnandone lo sviluppo e la maturazione. L’agoghé era il sistema e il metodo di educazione spartana. Ogni uomo è figlio di due padri; il padre naturale che trasmette i caratteri genetici e quindi l’impulso allo sviluppo corporeo, che si compie da sé purché non manchi il nutrimento necessario; l’altro nascosto, ben celato in interiore, ma distante e quindi da raggiungere con assidua, instancabile operosità, oltre ad averci una guida integra, illuminata, addentrata e sicura. A Sparta fino al compimento del settimo anno provvedeva il genitore naturale, da quel momento, separato dalla famiglia, il giovinetto veniva preso in custodia dallo Stato per essere gradualmente sottoposto ad un rigoroso regime di formazione seguendo il modello degli antichi progenitori, i distanti, tra cui quel padre celato e vivente in interiore. Si iniziava impartendo una meditata disciplina e l’osservanza dell’obbedienza, s’insegnava a coltivare la lealtà verso sé stessi e verso i compagni d’armi e i cittadini tutti. Ci si allenava alla guerra, alla caccia, ma anche alla danza e ci si preparava alla vita sociale e alle attività civili e magistratuali. S’incentivava una virtuosa emulazione. Questa educazione, impartita dallo Stato, era obbligatoria e collettiva, essa sola dava ingresso alla cittadinanza e all’esercizio di tutti i diritti civili. Il Paidonόmos, il prefetto della gioventù, l’educatore, era uno spartiate, un cittadino di rilievo, mentre nelle altre città greche i pedagoghi erano di condizione servile; non poteva essere diversamente a Sparta, perché, raggiunta una data età, all’addestramento di cui sopra si univa qualcosa di molto serio e forte che andava oltre l’educazione del carattere e dell’anima spartana; un insegnamento molto riserbato, individuale, che avviava l’iniziando ad apprendere quella virtù necessaria per poter divenir partecipe d’un’alta e chiara consapevolezza spirituale, la conoscenza di sé stesso; virtù dall’iniziatore direttamente ispirata e trasmessa al giovine spartiate che da quel momento prendeva il suo posto tra gli hòmoioi, gli uguali, i concordi: le mura di Sparta. E si può comprendere da quanto lontano venisse e a qual profondità fosse diretta quella trasfigurante rivelazione. Gli hòmoioi, gli uguali, infine si concretavano nell’ unanime, leale popolo di Sparta, popolo puro, solido, incorrotto, senza onta, senza macchia. Un δῆμος libero, non più volgo, un popolo che conteneva e padroneggiava, in pace e in guerra, il suo κράτος, la sua forza, il suo rigore, il suo valore, la sua potenza e la sua signoria. A questo punto possiamo ben comprendere perché a dire dell’ateniese Isocrate, come già su riferito, una perfetta democrazia era stata realizzata solamente a Sparta. Un’affabile democrazia, quella spartana, che aveva in sé i netti contorni di un’aristocrazia, vigendovi nel contempo soprattutto una democraticissima aristocrazia. Una città, Sparta, perfusa d’un alto senso del divino, politicamente sagace e privilegiata: monarchia, aristocrazia, democrazia fuse in un unico, salutare e inscindibile. E, per tutta la sua durata, sempre gloriosa la memoria di Licurgo, il savio milite reggitore, vivente di generazione in generazione nei re di Sparta, nella sua Gherusia, il senato, e nell’Apella, l’assemblea del popolo di Sparta.
Adesso torniamo a discorrere della democrazia tout court. Platone la definiva il “governo del numero, della moltitudine” considerandola la meno apprezzabile delle forme buone e vantaggiose di governo, tra le quali eleggeva appunto l’aristocrazia, e la meno cattiva di quelle pericolose e degenerate, come la tirannide. Aristotile, ritenendola il governo di una parte che sostiene il proprio esclusivo utile, la includeva nel novero delle politiche deteriori e corruttrici. A piena voce approviamo le argomentazioni antidemocratiche dei due filosofi greci, oggi ancor più veritiere perché comprovate nel corso degli oltre due secoli post Rivoluzione francese, quella che produsse l’isteria giacobina ghigliottinaria e gli aggressivi nazionalismi cupidamente mercanteschi e forcaioli e tuttora in giro per il mondo; mercanzia avariata da congedare al mercato del robivecchi, se non fosse impregnata di tanto sangue. Frattanto la con-temporaneità democratica trascorre incerta, scialba, opprimente, priva di giuliva vitalità; propinando una melassa di ridicoli, malsani sentimentalismi fermentanti odi, perversioni e livori. Poi, scontri di opinioni, sino all’inopinabilmente opinabile e quindi polemiche inconcludenti, dispute… E a che fine? Poi, ancora, risse, risse…bagarre, il tutto divulgato giorno e notte dai lerci, squallidi e sinistri mass media. Ciucca frenetica di irresponsabili… o desolante calcolata invenzione di cinici potentati finanziari, imbrancati omofili, in combutta con sfrontate e grintose bagasce? Bagatelle, allora? ... Se all’orizzonte non s’addensassero nuvole nere nere… Se non fossero bagatelle per un massacro…
Utopisti? Niente affatto! Neanche dei fantasticoni, credeteci! Non riteniamo possibile trovare in questo XXI secolo nemmeno la più pallida ombra dell’eroico popolo degli uguali, né di rimediare un Pericle per codeste derelitte democrazie. Ma se fosse possibile ingentilirle, un po’ dirozzarle, renderle più semplici, schiette, ché ci risparmiassero o alleviassero perlomeno questa cupa ipocrisia, tanta doppiezza?
Intanto, tiriamo avanti con la storia che abbiamo intrapreso a narrare. Eravamo giunti alla vittoria spartana e alla disfatta dell’egemonia imperialista dell’aggressiva mercantilista democrazia marinara che vide anche la distruzione della sua potenza navale. Con la resa nel marzo 404 a.e.v. fu imposto alla capitale dell’Attica, tra l’altro, di richiamare gli esuli e di modificare le torbide e demagogiche precedenti istituzioni. Si insediò un governo detto dei Trenta (dagli storici democratici moderni malevolmente definito dei Trenta Tiranni). I Trenta furono scelti tra cittadini aristocratici ed eminenti personalità ateniesi. Il Consiglio che fu nominato provvide subito ad abrogare le norme ambigue che davano adito agli abusi di potere, soprattutto da parte dei giudici popolari, e a chiarificare tutta la legislazione, mettendo al bando i malversatori. Il governo fu inflessibile nei confronti dei sicofanti che in gran numero furono messi a morte; costoro venivano fuori, e aumentavano sempre più, proprio nei compromessi regimi democratici come accusatori di mestiere; sovente prezzolati, sostenevano calunniose e false accuse; l’abuso delle accuse per ragioni politiche, contro questa o quell’altra fazione, era infatti spropositatamente cresciuto, producendo mala giustizia e corruzione. Tendeva il governo a riportare la città ai costumi dei padri, rimodellando radicalmente le istituzioni e conformandosi all’ordinamento spartano. Crizia, infatti, il capo e l’ideologo dei Trenta, allievo di Socrate e di Gorgia, con Platone, del quale era lo zio, ammirava molto il modello spartano. Crizia disprezzava, ritenendolo sommamente disdicevole il perverso connubio che con frequenza si attuava tra i gruppi sociali facoltosi, le oligarchie del commercio e del denaro, e i sempre più influenti demagoghi che trascinavano il popolo, con ogni mezzo, a scopi ed atti che certo non riguardavano il bene comune. Platone di più, nella Repubblica, ritenne queste ibride alleanze la sostanza stessa della democrazia.
Il governo dei Trenta è stato fortemente demonizzato dagli storiografi democratici e, più d’ogni altro il capo, Crizia, è stato anche oggetto di damnatio memoriae. Ci permetteremo alcune argomentazioni con l’aggiunta di nostre peculiari conclusioni quando saremo al punto di un opportuno riallaccio al principio di questa trattazione. L’operetta, il Governo degli Ateniesi, da cui abbiamo tratto le considerazioni che fanno da incipit a questo scritto non è adespota, ma con gran probabilità il suo autore è proprio l’ottimo Crizia, l’àristos ateniese, odiato dai democratici di ieri e di oggi. La democrazia, infatti, e salvo che non intervenga la mirifica educazione spartiate, ma è così improbabile, è sempre una pseudo-democrazia e, come tutte le cose malferme, ha bisogno d’un bastone per reggersi; tal sostegno lo trova, e se ne serve soprattutto a scopi dissuasivi, in un avversario da calunniare o da odiare per sempre. Il ‹regime oligarchico dei Trenta Tiranni›, questa è l’enfatica definizione che democraticamente troverete usata nei libri di storia, ed è falsa, in quel tempo si chiamava semplicemente il governo dei Trenta. La definizione di oligarchi, poi, significava ‹governo di poche persone› e non c’è governo che non sia governo di pochi. Robert Michels ebbe ad enunciare la ‹legge ferrea dell’oligarchie›, sostenendo che per tal legge in un partito politico, come in ogni grande organizzazione, il potere si concentra nelle mani di un gruppo ristretto, non necessariamente nocivo. Aggiungeva che persino nei governi democratici il potere è sempre esercitato da un gruppo ristretto e anche le burocrazie lo sono, senza trascurare le opposizioni. Ma ai giorni nostri, notate il malizioso intento di travisare, e non certo a quei tempi, gli oligarchi vengono identificati con i lobbisti detentori di grandi ricchezze che dominano i poteri legislativi nazionali nell’esclusivo interesse delle loro consorterie. Nulla a vedere con Crizia ed i Trenta.

Soffermiamoci su Crizia per osservarlo un po’ fuori dalla mischia politica dei suoi tempi. Tempi di guerra e di prolungato sovvertimento, nonché di odiosa e sanguinosa partigianeria.
Crizia discendeva da un’antichissima famiglia aristocratica ateniese e quindi come politico si oppose all’invadente mercantilismo e al potere delle astiose fazioni democratiche, fu perciò sempre un convinto filospartano. Allievo di Socrate e di Gorgia non trascurò di dedicarsi alla filosofia, in specie politica, e fu un notevole scrittore di prosa; si cimentò anche in drammi e tragedie. Viene dai più ritenuto un reazionario estremo, un ateo e un illuminista ante litteram per il suo pensiero sulla religione. In realtà egli era per il recupero dell’ordine anteriore, rifacendosi a quei modelli di vita aristocratica in cui gli uomini dovevano impegnarsi nel dovere di dar sempre e lasciare su di sé buona testimonianza. Puntualizzava: “La rinomanza e la stima segnalano l’uomo insigne anche nei luoghi più remoti della terra”. Era, pertanto, un sincero e leale sostenitore della spiritualità spartana; voleva ardentemente che Atene tornasse alle sue origini. Nell’omonimo dialogo platonico con commozione rievoca l’Attica d’un tempo, le sue belle terre fertili e rigogliose e i prosperi coltivi; tempi felici in cui i cittadini di Atene, non diversamente dagli Spartani, conducevano vita comune, non possedevano beni privati, non maneggiavano metalli preziosi e si cibavano solo del necessario. La nobile città di Atena e di Efesto, le due divinità della sapienza e dell’arte virtuosa. Al governo con i Trenta, favorì l’insediamento di molti cittadini ateniesi nelle campagne con due scopi, promuovere il risanamento dei campi con un ritorno all’agricoltura e ad una sana economia agricola, vera ricchezza, ed anche, e non secondario, combattere l’inurbamento, quell’affollamento che era stato la concausa della terribile peste, non solo, ma anche cagione di un flagello ancor più insidioso, una morale rovina, la corruzione pubblica e privata. Per tal motivo osteggiò i meteci (stranieri residenti ma non cittadini, dediti soprattutto al commercio), infatti il loro ruolo economico all’interno della città, con l’avvento democratico, era divenuto esoso e parassitario. Interventi e progetti tutti miranti al bene della città, ma invisi alle fazioni democratiche che vedevano in quella politica una chiusura alle loro mire espansionistiche e speculatrici e che, dopo la batosta, tornavano ancor più puntigliose e aggressive. Quanto alla taccia di ateo e antireligioso attribuitagli è in sommo grado risibile. Nel frammento del Piritoo, suo dramma satiresco, Crizia narra dei tempi in cui gli uomini furono costretti a porre le leggi per arginare l’empietà dilagante. La narrazione procede seria, ma non disdegnando di disporsi pure a un senso di pessimismo garbatamente umoresco. Son gli uomini a porre le leggi, ma deboli son gli uomini e frali le loro leggi. Fatta la legge, trovato l’inganno, ci dice l’autore del Piritoo; una volta emanata la legge i furbi, i faccendieri e i malfattori tenteranno di aggirarla. Fondar tutto sulle leggi è quindi un errore, una società sana dovrebbe soprattutto basarsi sulla prudenza e il senso della misura dei singoli. In tempi remoti, seguita il sornione didascalico narratore, un uomo di grande intelligenza, ma molto diffidente verso il genere dei mortali, per interporre un sicuro argine e dar forza alle leggi, onde scoraggiare trasgressori e furfanti, escogitò una straordinaria trovata, s’inventò gli dei! Finse, a tutto vantaggio dei mortali e a tutela del nomos, delle figure divine antropomorfiche attribuendo loro intelligenza, una vista acuta, il pensiero, l’interesse per le vicende umane, facendoli capaci di ascoltare e di veder tutto ciò che i mortali operassero; insomma convinse gli umani dell’esistenza di tanti demoni immortali, perché vivessero nel sacro terrore delle leggi. Insomma, suggerisce Crizia, che questo sommo legislatore-sacerdote dette alle norme un corpo e una forma, cioè anima e vigore. E questo non avrebbe potuto farlo se non avesse invenuto in sé gli dei e non ne avesse inventate le immagini (agàlmata). I popoli/volgo, aggiungiamo noi, i popoli ineducati, tendenti al primitivo, e nelle democrazie questo accade, sono prevalentemente superstiziosi e dalla superstizione non vien gran bene. Pertanto il nostro autore ammonisce: “Solo un carattere nobile è più saldo della legge, nessuno sarà mai in grado di aggirarlo”. Il carattere della nobiltà e le relative virtù si manifestano solo nell’uomo che in sé raggiunge una superiore consapevolezza interiore, che trascende il transeunte, acquista saldezza, ottiene duratura stabilità. Ben sapeva Crizia che un corpo, la parte materiale e organica dell’uomo, e ancor più un accorpamento sociale, non può comandare su sé stesso, motivo per cui l’uomo deve essere anima e capace di trasmettere la fiamma dell’amore. Indubbiamente egli guardava con distacco quell’arcigna empiria areligiosa, e pur superstiziosa, che s’andava imponendo. Possedeva viceversa, con la dovuta pietas, la conoscenza di essenze trascendenti e di entità luminose, della luce archetipica. Se andiamo di nuovo ad incontrarlo nell’omonimo dialogo di suo nipote Platone egli ci dirà che bisogna con costanza migliorare l’anima, ci dirà che un’anima ben curata è piena di virtù e che dove dimora la virtù c’è conoscenza. Ci insegnerà che il buon governo si basa sull’amicizia di tutti, su una sovrana concordia; quindi necessita del superamento delle fazioni in un unanime soffio ispiratore; ciò riteneva, e siam d’accordo con lui, non possibile con l’affermazione della democrazia, che provoca l’insorgere della sfrenatezza individualistica e d’una bieca faziosità. Solo uomini virtuosi, disinteressati e senza ambizioni, possono con semplicità e naturalezza realizzare il buon governo e far prosperare il popolo.
Ma tal nobile mira stava inevitabilmente per infrangersi. Il governo dei Trenta durerà all’incirca un anno. Dapprima il dissidio interno. All’intransigenza di Crizia si opponeva Teramene fautore di una idea politica moderata e adattabile agli accomodamenti, che per conseguenza andava ricercando il favore del partito popolare; Crizia, avverso ad ogni compromesso, accusò Teramene di facilità a cambiar d’opinione e che a cagione di tal deprecabile comportamento aveva provocato la morte di amici e di molti aristocratici per mano del popolo, oltre alla morte di diversi individui per contrasti attivati in seno allo stesso popolo. Sotto il peso dell’accusa di viltà mossagli Teramene si tolse la vita. La vera minaccia, però, veniva da Trasibulo l’altrettanto intransigente e radicale capo di parte democratica. Trasibulo era anche il fautore del ritorno all’imperialismo mercantile e per assicurare l’egemonia alla città attica lavorava alla costituzione di una seconda Lega marittima aperta anche ai traffici con le varie città dell’Asia; se ne può ben valutare dunque, considerata l’emergente cupidigia, la forza d’attrazione. Dall’esilio Trasibulo si dette a riunire le varie bande degli oppositori democratici e con l’aiuto dei Tebani mosse contro Crizia riuscendo facilmente ad occupare il Pireo e sconfiggendo gli ottimati nella battaglia di Munichia, ove Crizia perì in combattimento. Mancò ai Trenta l’aiuto spartano. La città lacedemone, a causa delle lunghe guerre aveva sofferto forti perdite ed è probabile che non intendesse immischiarsi in una guerra civile. Messo da parte Lisandro, il vincitore di Egospotami, verrà il mite Pausania con un esercito ad imporre una pacificazione. Atene resterà alla mercé del partito popolare guidato da Trasibulo, ai Trenta e ai loro seguaci toccò trasferirsi ad Eleusi. La Repubblica di Eleusi durò poco più d’ un paio d’ anni, gli Ateniesi ne convocarono un bel giorno i capi in città e a tradimento li trucidarono. Così si concluse quella guerra civile. In quei due anni, nonostante sia stato tramandato che Trasibulo fosse moderato ed umano, molti furono messi a morte, tra essi Socrate, il maestro di Crizia.
Abbiamo rievocato la vicenda umana d’un ottimate che fu testimone del declino del ‹governo dei migliori› e del confondersi dello stesso àristos, l’ottimo, nel disordine oligarchico-demagogico; s’andava affermando la democrazia, secondo Platone la meno buona e vantaggiosa delle forme buone di governo e la meno spiacevole delle forme malvage che degenerano in tirannide. Trascorreranno settant’anni dalla morte di Crizia, la vita d’un uomo, e nel 338 a.e.v., dopo la sconfitta di Cheronea, ad Atene e alle altre polis che avevano partecipato a quell’alleanza militare, Filippo II di Macedonia con la Pace di Corinto, impose lo scioglimento di tutte le leghe e il primato della monarchia macedone. Con la fine della Lega marittima e la sua egemonia mercantile la democrazia ateniese subì una irreparabile umiliazione, per essere soppressa nel successivo anno 322, trionfante Alessandro il Grande. Non era stata presente a Cheronea Sparta.
Possiamo ora ricollegarci alle considerazioni di Crizia, tratte dalla sua operetta Il Governo degli Ateniesi, scritto che conserva intatta la sua validità. Per comprendere a fondo quelle righe, così attuali, è stato bene accostare la persona dell’autore, i tempi in cui visse e lottò, per fedeltà alle sue idee incontrando innanzi tempo la morte. Quel pensiero, poi tracciato sulla carta, fu da lui talmente approfondito e vissuto e testimoniato con il suo sangue che, per buona sorte giunto ai nostri giorni, ci viene di netto incontro e con vivezza rende chiara alla mente e alla nostra sensibilità il maligno intoppo, la cieca ostruzione che nelle democrazie impedisce allo spirito d’un popolo di andare avanti ed anzi ne indebolisce la cultura, ne distrugge le tradizioni avite. Fondamento della democrazia (o, se preferite, della ‘ideologia’ democratica) è la materialità. Fine precipuo la vita materiale, le necessità materiali, le utilità, i vantaggi materiali. Interesse e tornaconto con addestramento mentale al trasformismo, al cambiar opportunamente d’opinione. Inoltre, depravazione dei costumi, ibridismo dei linguaggi, delle mode, le più grossolane e sgraziate; neanche arriva a contraffare la bellezza, che è uno slancio verso l’alto, verso il sublime; è la democrazia il luogo del dissidio ininterrotto; attua commistioni innaturali di culture e di popoli, senza più il minimo patrio riconoscimento, in totale oblio la prisca fides. E la morale e tutto quel che ad mores pertinet e le virtutes animi e i recti mores? Una inerte confusione e un uniforme pensare e un esprimersi difforme… E ognun di voi che ci legge ponga qui le sue aggiunte.
Ci dice Crizia, infine, che la democrazia si propone come un dogma vantaggioso (oggidì addirittura adattabile, 'esportabile', al mondo intero), ma essa non lo è; nel suo stesso fondamento infatti, nella sua pretesa dogmatica, persiste l’impossibilità del perfezionamento, quindi di ogni miglioramento, insomma la possibilità di completarsi, d’avvicinarsi alla compiutezza; perciò a ogni passo rischia di trovarsi sull’orlo del precipizio, nella sua degenerazione tirannesca. La materialità non è perfettibile, solo la virtù dello spirito conduce alla perfezione, quel sottil fuoco che alimenta la fornace ove il piombo si trasmuta in oro. Quella imposta agli uguali massmediali, la massa appunto, il volgo – nessuna democrazia è in grado di forgiare un popolo – è una via catagogica.
Voi, cortesi lettori, seguirete perciò questo dire dell’Ascolano che conobbe il cristiano rigore del rogo non volendo da valentuomo rinunciare ai suoi principi:
Non prende l’uom gentil le brutte cose,
Ma, per virtù dell’animo ch’è granne,
Consegue sempre le più valorose.
Per l’opera si mostra l’uom gentile,
Sì come è scritto nel secondo stile.
Noi, nell’accomiatarci da Crizia, abbiam sentito il dovere di ringraziarlo dello stimolante rigore che ci recano le sue lumeggianti considerazioni in questi tristi anni di prepotenza democratica mondialista, prepotenza che ormai ha raggiunto la spiacevolezza di una ingiustificata e minacciosa tirannia. Governo, malo, nocivo e mortifero che, com’egli ha scritto, non è possibile emendare, ma è solo e assolutamente da contrastare, lottando con spirituale energia e mente intrepida per l’affermazione dell’uom gentile, l’uomo che operi per la salvezza delle genti. Ai suoi tempi Crizia tentò l’impossibile, forse fu anche, ed invano, troppo severo e inesorabile, ma esemplarmente da uomo nobile lottò e morì. Nostalgia dell’Attica archetipa, terra delle origini… Altri tempi! E che tempi eran quelli! O ambizione, fretta? Certo, Crizia osò forzare i tempi. E solo settant’anni dopo sulle rovine della decadenza greca passò la meteora di Alessandro, un lampo folgorante, a preparare il fulgente sole di Roma.
Di quelle righe, ritenute aristocraticamente adespote, faremo tesoro d’intransigenza antidemocratica e tu, o Crizia, nella estrema sfortuna dei tuoi tempi, per noi
Facesti come quei che va di notte,
Che porta il lume dietro e sé non giova,
Ma dopo sé fa le persone dotte…
Dante