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HIBERNALIA

                         

 

 H I B E R N A L I A

                                                                                                                                                                                           

                                                                     dum meus adsiduo luceat igne focus                                                                                                                                                                                                            TIBULLO, El.I

 

   Annottò di colpo nella valle, ché il cielo nubiloso e plumbeo aveva oscurato interamente il tramonto; del vespero, trafugato il vermiglio, neppur traspariva un segnerello lieve. Il barometro aveva annunciato la pioggia, e già se n’udiva il battere fitto sui tetti, quel tambureggiare insistente e monotono che poco a poco l’orecchio trascura. Colassù una nerezza cupa, indistinta; la serata invernale s’era all’istante dileguata nel tenebrore d’una notte impenetrabile, avida di pioggia; quei lunghi momenti, che andavano moltiplicandosi e dilatandosi sempre più, trasmettevano l’impressione d’una infinitudine di tenebre acquose.

   La piccola compagnia s’era riunita davanti al camino ove erano posti grossi pezzi di rovere e di pino che bruciando sarebbero conflagrati in un fuoco robusto con una sùbita splendida fiamma. La notte s’era pienamente addentrata in quella oscurità che s’attarda, nolente a dar la consegna al dì, e così l’inverno, ormai insediatosi, s’adoperava per una maggior dimestichezza, pretendeva dagli uomini più intimità, come d’altronde era avvenuto nella natura tutta. Conscio dell’invernale umore, il gruppetto s’era raccolto in una spontanea calma meditativa, e per conseguenza il discorrere era sobrio e ponderato.

   L’inverno…nella lingua latina hiems, hiemis, f., oppure hibernum tempus, n., la stagione invernale…riporta al freddo, alla neve, è quindi la stagione del freddo, della neve, del gelo. In un tempo molto lontano, un suono semplice, una parolina tenue e chiara, HIM – S, o con altra desinenza magari vocalica (la E bianca di Rimbaud?), e probabilmente comune a quelle popolazioni subartiche dette oggi indoeuropee, designava appunto la neve, nix, nivis nella lingua latina, e verosimilmente anche il color bianco, il candore delle distese nevose; ovviamente racchiudeva anche il freddo con il suo rigore. Eccone, dell’inverno, il profilo naturale con le sue caratteristiche stagionali! Ma l’intatto, immenso candore che richiama alla mente una virginale purità e l’inflessibile rigore che costringe le genti a riparare ante focum per l’accresciuta durezza delle condizioni di vita ci mostra anche il carattere metaforico dell’inverno, se rapportato alla psiche dei nostri antenati, svelandone la sensibilità più profonda. Il sostantivo latino hiems mantiene il genere femminile dell’antica parolina che designava la neve. Gli uomini osservavano le immense foreste con gli alberi spogli di foglie e dovunque distese di neve. Il manto dell’inverno, la neve! E sotto quel manto nulla è rimasto inerte nel grembo della terra madre, energie sottili si sono attivate, vi serpeggia un calore vitale che con paterna cura prepara la rifioritura e i fasti della primavera. E l’antico osservatore sa che non può sottrarsi a tanto operoso fervore.  

Interrato, il seme sotto la coltre di neve e gelo subisce quella infinitudine fatta di tenebre acquose, che renderà in realtà morbido, marcidus, il duro tegumento che si era costruito e nel quale aveva costretto tutto il suo essere; frattanto in quell’abisso di tenebre, all’apparenza interminabili, esso via via sente rinvigorirsi, sostentato da quel tepido marciume sotto il manto nevoso. Il rischio è che possa esser risucchiato in quella fanghiglia, che, benefica finché si mantiene attivo, può altrimenti risultare mortale e trattenerlo nella infinitudine ottenebrante. Deve avvalersi di quel marginale ma vitale calore che ha pervaso il terreno in cui giace sepolto e che il provvido manto ha serbato; soprattutto, deve risvegliare in sé l’intima spinta per dotarsi, tenero germoglio, di quella energia e robustezza necessarie a rompere il grembo terrestre e, giunto il tempo, a sporgersi da lì alla luce e al sole. L’inverno è freddo e gelo, ma anche un’intima riserva di fiammeggiante energia; l’inverno è tale, paterno. In quel tempo lontano, cui s’è accennato, l’uomo meditava tutto ciò, nelle invernali difficoltà e angustie si concentrava opportunamente in sé stesso e discendeva, risoluto ma guardingo, in quella buia profondità per attraversarne l’infinitudine tenebrosa e reintegrarsi al padre antico, l’ancestrale FOCUS, onde, per la solare risalita riacquistata la coscienza supera, potesse sempre esser pronto a ‘pro aris et focis pugnare’. Questa massima degli antichi romani, autenticamente quirite, riassume in uno le grandi virtù del VIR, l’amore verso la patria, verso il focolare domestico e la imprescindibile pietas religiosa.

   E l’uomo, quello recentior, l’homuncio, cosa conta in tutta questa storia? Il moderno, l’homuncio d’oggi, ha i caloriferi, ha sconfitto il freddo e il gelo con gli impianti termici, i termosifoni, i termoconvettori; e poi, l’inverno ha finalmente i suoi spassi, i suoi svaghi, anche sulla fredda neve.  – Vai a sciare, Tom? Non scordarti i guanti e i calzettoni termici! –   

 

                                                                                                              

                                                *            *            *                                               

                                                                                               Imago animi sermo est                                                                                                                                  SECONDO

 

   Ipollitigante, nel gergo beffardo popolaresco un recentior homullus e il suo strepere! Negli scatoloni tivvù, i recentiores, stanno come polli nel pollaio, con le galline però ben polliticizzate che sopravanzano i pollastri ampollosi e fatui, becchettandoli ben bene. Com’erano belli e tranquilli quei tempi, quando di buon mattino s’udiva dalle corti e dagli orti il canto del gallo! Risuonava limpidissimo un chicchirichì prolungato e ripetuto annunciante la dolce luce; oh, specie d’inverno dopo le lunghe notti! Ma stonato e grandemente sgradevole è il chicchiriare incessante di questo pollame spregevole: la retorica stizzosa dei gretti pollitiganti, il chiacchiericcio irritante di tante pollanche maleducatamente presuntuose, perché smaliziate dal filantropismo clericale, ipocrita e privo d’un vero interesse per il genere umano, in più perfidamente ammaestrate dalle mode radical-femministe.

   Tanto discettare approssimativo, sciatto, elusivo e la verbosità pedantesca, denotano l’inettitudine propria degli insolenti; in aggiunta, la presunzione di coloro che si credono investiti d’una missione enorme, salvifica, e di padroneggiare l’intero umano scibile. Tuttavia riescono nel loro ambizioso, democraticissimo intento di dettar legge e fare il bello e cattivo tempo in tutte le contrade della Repubblica nell’interesse, dicono, del loro rappresentato, il popolo sovrano! È sempre meglio assicurarsi l’ufficio di vittimario che essere nei panni delle vittime.

   Ad Atene ce n’erano tanti; infatti, la moltitudine degli uomini che vivono esclusivamente di politica sono un magheggio delle democrazie; una trovata malefica oggi riproposta su scala mondiale da incogniti incappucciati, gli oscuri. Platone Comico in una sua commedia favoleggiava che per “ogni malestruo defunto nascono due oratori”e deprecava che “in tutta la città non ci fosse un Iolao abile e capace a bruciar loro le teste”in breve, il poeta comico ateniese ci tramanda che costoro erano temuti alla stregua d’un’idra di Lerna, il mostro mitico dalle molte teste abbattuto da Eracle cui Iolao appunto prestava aiuto cauterizzando con il fuoco  volta per volta i moncherini dei colli mozzati dall’Eroe, onde quelle teste non rinascessero, e duplicate, come soleva accadere. Quell’enorme serpente marino aveva nove teste e le sue orme erano velenose; quelle nove teste il comico di oggi dovrebbe per forza moltiplicarle per cento. Improba fatica? Ma no! Basta che evitiate i talk show politici spengendo la televisione. Ih, vi rincresce! E solo per compiacervi narcisisticamente di dire poi che col cazzeggio, e ciance e ciarle senza costrutto, costoro rincretiniscono la gente? Così li fate contenti. Meglio zittirli, spengete la tivvù! Astenetevi anche dai giornali, quotidiani e settimanali, che recensiscono la politica nel modo voluto dal politically correct. Sottraetevi alla tirannia della stampa che causa una perenne inquietudine. Questi imbonitori con un parlato usuale, infarcito di luoghi comuni, basato su un cliché corrente per la loro povertà d’opinioni, senza rendersene conto irresponsabilmente vanno impoverendo la nostra bella lingua. Sono cinquant’anni ormai che la scuola demo-italiota, avendo sostituito in modo svantaggioso, perfino sinistro, quella italiana classica, si mostra carente di una sostanziosa formazione culturale e di una sana educazione civica; s’è ormai diffusa una banale, uniforme subcultura di massa, uno standard comune da supermarket con tendenza irreversibile, quindi criminosa, a volgarmente americanizzare; dannatamente sempre più yankee, fino in fondo yankee. Questo il motivo per cui i pollitiganti atlantisti e i loro clienti con l’intellettualità asservita introducono una gran quantità di anglismi nella nostra lingua e privilegiano l’anglosassone a scapito del latino e quindi dell’italiano.

   L’anti-patria avanza nelle menti infiacchite, nei cuori irresoluti; s’arma della lingua bifida di questi smaniosi/e di ius soli, d’afrore di giungla, di sessualità selvaggia e deviata, di narcisismi masturbatori; usa la parola provocatoria, derivata dal linguaggio degradato dell’infatuazione paolino- leninista che vien fuori da un osceno misticismo ossessionato in scambievole maniera da un infimo idolatrato materialismo e da un ambiguo idolatrante clericalismo gesuitico. È la religiosità di questi e quest’altre dell’anti-patria, una religiosità mutuata dai bassifondi degli evangelismi e dei biblicismi aromatizzati dal filantropismo massonico, una religiosità proveniente dalle terre d’oltreatlantico.  La religiosità irreligiosa degli sradicati, dei desertificati; un fatto proprio dei tempi ultimi, i tempi dell’estremo declino.

   Noi che ci teniamo al largo da tutte le religiosità e pratiche devozionali di ogni epoca ed emisfero e non stimiamo una ciabatta il contemporaneo laicismo paradossalmente dogmatico e fideista, materialista, marxista, darvinista, con i codazzi ereticali ed ufologici, vogliamo, pur segnalandoli, considerare serenamente questi atteggiamenti e connessi accadimenti con imparzialità, perché avvertiamo che tutto ciò va a consumersi, a esaurirsi, e un profondo auspicabile mutamento sia in preparazione. Mutamento che non sarà un semplice avvicendamento, ma un rivolgimento dapprincipio, un inizio, come nel verso di Virgilio:

 

Novus ab integro saeclorum nascitur ordo

 

   Senza dimenticare questi versi augurali di Ovidio:

 

Iamque novi praeeunt fasces, nova purpura fulget

Et nova conspicuum pondera sentit ebur.

 

 

    Un ritorno alla prima iuventa del mondo, alla ripresa del suo naturale e civile splendore, ai valori dello spirito.

   Alla preparazione e realizzazione di questo mutamento va rivolta la nostra attenzione; non è sufficiente un impegno desto e costante, ma dev’essere anche sostenuta da un’intrepida consapevolezza, la consapevolezza del pieno superamento della ambigua tortuosa contemporaneità e delle sue mitomanie alienanti, scientismi, evoluzionismo, consumismo, come dei suoi mitologemi socio-politici, del millenarismo avventista, della sua religiosità e delle imbelli pratiche devozionali dei vari gesuitismi, degli spiritualismi  crepuscolari. Il superamento di tanto offuscamento e di questo continuo abbruttire del mondo nell’artificiosità, in un perverso, cercato contrasto con la natura vivente. Chi aspira ad essere uomo non può sentirsi e soprattutto non deve esser spiritualmente limitato. L’uomo valente non può lasciarsi ridurre all’uniformità, a minima cosa, né svilire, degradare, abbrutire, imbarbarire, imbastardire. L’uomo deve distinguersi. Lo spirito libero deve emergere nell’uomo. L’uomo deve essere lo spirito libero. S’intenda, non l’uomo come individuo nella generalità, ma l’uomo come individualità, come singolarità; è infatti il punto di partenza  per fondare un popolo  omogeneo organico ordinato, come abbiamo visto nello scritto che precede, e anche per custodirne intatta la sua origine e la sua tradizione; è un elemento naturale, ma soprattutto un indicatore del suo grado di evoluzione spirituale la unicità d’un popolo, il suo Genio, le sue virtù, la sua cultura, il suo contributo alla promozione della civiltà dei popoli tutti.  La distinzione innalza e muove gli animi verso l’eccelso, il sublime, il grande, gli attributi dello Spirito. La mistificazione materialista dei cosiddetti liberi e uguali, di lugubre memoria settecentesca, infarcita di generico filantropismo, di confuso rivoluzionarismo (oggi da bacheca), di giacobinismo marxiano commisto a liberalità affaristica e rispettoso dello strapotere, politico-culturale-militare, amerikano, non è altro che una macchinazione per schiacciare l’uomo, una insidia posta a rovina delle sue facoltà spirituali, una falsificazione dello SPIRITO LIBERO. Una diabolica astuzia per mutilare l’uomo della facoltà di discernimento, privarlo del senno, irrigidirlo nell’accondiscendenza, nella credulità imposta con i mass media sempre più sofisticati. Un inumano soggiogamento. Ormai un rumore d’ambiente, ovunque diffuso pur se non distintamente percepito dall’orecchio fisico, ma che s’insinua nel subliminale delle masse. Masse informi di sottoposti, non popoli liberi, diversificati e in sé stessi integri nella loro omogeneità, un insieme organico di individualità interiormente salde, idealmente colte, cui nulla manca, quindi libere.

   Nietzsche scrisse nei suoi FRAMMENTI POSTUMI: “Noi viviamo in una civiltà che va in rovina a causa dei mezzi della civiltà.” Una considerazione di centocinquant’anni fa, avrebbe Egli oggi ancora parlato di ‹civiltà›?

   I popoli! ... Occorre davvero lungo tempo per riunire un popolo, organizzarlo, metterlo alla prova; è sufficiente una manciata d’anni a una frangia pretensiosa o fazione fanatica per svuotarlo di virtù, asservirlo e anche straniarlo dalla sua cultura e dai suoi aviti costumi. Un tempo i popoli prosperavano, avevano a guida i saggi; nel tempo presente i «popoli sovrani» languono sotto la dirigenza degli ELETTIhonorum cupidi, molto avidi e appassionati delle cariche politiche, gli homines ambitiosi, gl’intriganti, i vanagloriosi, gl’interessati. Gli ambiziosi, già! coloro che girano insistentemente intorno, alla ricerca del voto circuendo più attaccaticci della Damali oraziana che non si stacca dal nuovo drudo ma lo avvince più strettamente, ambitiosior, dell’edera voluttuosa.

   Occorre far cessare questo sinistro rumore, questo increscioso rumore, cui ormai la gente s’è assuefatta ritenendolo connaturale all’ambiente, ed è invece artificioso e oltremodo nocivo; occorre stroncare questa condizionante operazione stregonesca massmediale, le si è lasciato troppo spazio. Gli individui, i popoli si son lasciati invadere; è tempo che si cautelino, non si lascino trascinare da cotanta disforia, non si lascino avvincere da cotesta edera voluttuosa, da cotesta druda lasciva che li sfrutta. È bene far cessare cotanto chiacchiericcio, questo rumore inquietante. Per questo abbiamo consigliato ai nostri amici e lettori, ai nostri familiari e parenti, ai nostri vicini di spengere la tivvù, di zittirli questi falsi notiziari, e a fare a loro volta altrettanto con i loro conoscenti; con impegno e la buona volontà tanta gente potrebbe esser guadagnata alla iniziativa benefica, la miglior gente per sconfiggere l’insalubre malia. La menzogna verrebbe ringoiata dalle fauci mendaci e voi assaporereste la libertà vera, con essa finalmente riconoscereste voi stessi. Cessato, infatti, il rumore funesto, quel fragore di voci litigiose, incontrereste il vibrante, vitale silenzio e udreste l’invito a ritirarvi in voi stessi, a ricercare la vostra intimità. Quale felice scoperta! Ritrovereste tutto, la natura viva, vibrante di palpiti, la vostra sposa, la vostra famiglia, la vostra patria e il patrimonio spirituale, culturale, sociale di cui potete suo tramite disporre, fraternamente, senza più inimicizie, odi, rancori.  Ammutolitosi l’astioso e tirannico tono vocale dell’anti-patria e la strania albagia, riascolteremo insieme l’itala parola verace. La parola sapiente che crea, la parola che ci viene da lontano, dall’età di Saturno e dei padri latini, la parola del più antico dei numi, la suprema idea di giustizia, la parola che schietta risuona sotto limpidi cieli, la parola che dissolve ogni falsità, iniquità e discordia. La parola chiara, lucente.

   Nel mondo antico, soprattutto in Grecia, esistevano scuole di retorica molto severe, vi si apprendeva l’impiego corretto della parola. Gli antichi conoscevano il gran potere insito nella parola, in specie se emessa con la voce, e ne paventavano l’abuso, disapprovavano la smoderatezza dell’eloquio. Oratori, giuristi, politici soprattutto, ma anche poeti e letterati dovevano esercitarsi nello studio della parola scritta e orale. La pratica insegnava la scelta della parola appropriata, a come evitare l’approssimazione, lo stile trascurato, che possono indurre all’equivoco, al dubitare; ci si esercitava al giusto accorgimento, a una minuziosa prudenza nell’impiego della parola e di come pronunciarla. La parola può offendere sino ad essere lacerante, ma financo guarire; può diffondere odio, può far gioire. Azzittisca dunque questo dissennato, irresponsabile e femminesco multiloquio, che nella sua trascuratezza scade addirittura nel turpe, nel deforme, trasmettendo confusione e grande insicurezza; disorientando e avvilendo la gioventù.

   Infine, non è nemmeno necessario scomodare i retori greci e tante cose possiamo apprenderle anche rovistando tra nostre vecchie itale carte. Ecco alcune sagaci annotazioni del già da noi citato Matteo De’ Corsini:

   “Dice quel savio Seneca: Tacere qui nescit, nescit loqui. Dice che chi non sa stare cheto, non sa favellare. Socrate disse: Optimus est orator qui plurima paucis dicit.Dice che ottimo parlatore è quello che dice in poche parole molte cose sentenziose. Però che le parole, come Seneca dice, debbono essere fatte come el seme che si getta in terra; el quale è poco e fanne molto, massimamente quando ha buono lavoratore: così quando el parlare si fa per un savio e composto uomo, e ancora donna che fusse. Ancora contro a coloro che favellano cose tristi, dice Socrate:Quae facere turpe est, ea nec dicere honestum puto. Dice che non è cosa onesta di dire quelle cose che non si debbono fare; però che chi mal favella, si fa sentire che sia mal disposto dentro. Onde fu dimandato uno filosofo ch’ebbe nome Secondo, che cosa è il parlare; rispose: Imago animi sermo est; cioè disse, che ‛l parlare è una imagine la quale ti presenta che sia colui che favella.”