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INCITAMENTO

 

 

 

La Parola perduta,

la Voce franta,

nel vibrante silenzio richiama!

 

L’Idea sommersa

che gloriosa trionfò,

in dì novo e lucente richiama!

 

Dai tristi tempi dell’oblio

risorgano al raggio del sole!

 

Vittoria, o Vittoria,

celebra così

il giorno solenne

in regale armonia!

 

Non con vile ausilio d’argano,

ma fulgido Genio sollevi

dall’informe materia

il prigioniero!

 

Di brute spoglie veste

l’ignominia, e infanga!

Seggio solenne accoglie

chi il suo tempo decora.

 

Di sé stessa vindice

la volontà trionfi,

senz’alcun smarrimento

osando perseveri.

 

Mirata ad eroica meta,

s’eterni in te, o Vittoria!

 

 

 

 

21 dicembre 2022, Mercuri dies

nell’anno del duro combattimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 I

 

 

  La Rosa ci suggerisce, ci ispira, o verosimilmente ci rammenta, cose visibili e cose invisibili, ma pur sempre idee, imago, figure, realtà, buone e amabili. Recita un vecchio proverbio: ‘quel che la natura insegna raramente vien dimenticato’. La rosa fa presente a noi la bellezza, quindi il bene radioso, la purità solare che va sempre protetta e difesa, ecco perché un rosaio è sempre guarnito di spine; e ancora, la modestia, che pur va preservata, la semplicità appunto, che denota il modo impeccabile, la misura precisa, quindi il retto, il giusto; e, soprattutto, la virtù della pudicizia, che tiene salda l’umana costumanza: natura e anima dell’umano consorzio. Il Mos maiorum dei Romani contemplava l’astenersi da tutto ciò che non si confà alla morale e al decoro. Pudicitia a Roma era la dea cui veniva dedicato un culto in un tempio al Foro Boario, Pudicitia Patricia, e un culto sul colle Quirinale, Pudicitia Plebeia.

 

Omnia vincit Amor et nos cedamus Amori.

VIRGILIO, Bucoliche, X, 69

   

Ce est il Romans de la Rose/où l’art d’ Amors est tote enclose... Questo è l’incipit del Romanzo della Rosa, ove l’arte d’Amore è compiutamente racchiusa; poema allegorico della letteratura cavalleresca, nata appunto dalla cultura cortese medievale, diffusasi in quel tempo in tutta Europa e tendente al miglioramento dell’essere umano; un sapere che sviluppava, approfondendolo, un discorso non solo profanamente mondano, ma di natura diciamo propriamente sacra; l’anima dell’uomo nel mondo è assediata dalle forze del male e il vate ispirato deve intervenire, concorrendo con un valente carme alla dissoluzione delle influenze ostili. Per far tanto occorre toccare i precordi, appellarsi a quell’antico Fabliau du dieu d’Amour, quell’antica Novella del dio che omnia vincit, quel dio che il casto Virgilio, sacerdote e vate della romanità, aveva evocato ai tempi della Roma Augusta, nell’Urbe genita dalla Venere celeste. Tutto vince Amore, enunciava il vate romano, e noi ad esso apriamoci, facciamoci degni di quell’energia, dono celeste, che mai si piega e non cede agli ostacoli. Uno spirito celeste, un vivo sole, guiderà l’uomo nell’arduo cammino; obbedendo agl’insegnamenti del dio, il fedele d’Amore manifesterà durante il periglioso viaggio la genuinità della propria indole, la virile volontà tesa all’onesto, leale e cortese vivere.

 

   Il poema della Rosa, scritto in francese medievale, composto di oltre ventunomila ottonari ritmati, fu concepito e iniziato da un poeta ricco di ispirazione artistica, dotato d’un afflato creativo, dovizioso e fluente    d’immagini e raffigurazioni simboliche; di lui quasi nulla si conosce, tranne che nacque nei primissimi anni del 1200 e morì nell’anno 1238 circa. Guillaume de Lorris, tale il suo nome, scrisse poco più di quattromila versi del poema da lui iniziato tra il 1235-36 e lasciato incompiuto, senza dubbio per la morte del giovane poeta. Quarant’anni dopo o forse oltre, tra il 1270 e il 1285, al Romans de la Rose furono aggiunti altri 18.000 ottonari circa, e così lo si volle ritenere completato, da un altro poeta, Jean de Meung.

 

   Volgeva quasi al termine il XIII sec. quando de Meung pose mano al suo intento di completare l’opera di Guillaume, ma il momento culturale e storico era ormai indubbiamente diverso, l’ambiente grandemente mutato, la temperie morale di tutta la società andava guastandosi, discordante, in breve, lo spirito. La sobria espressiva fluidità figurale del primo poema, la sua nobiltà e bellezza, ovvero magnificenza cortese, quel narrar dal segreto intimo, semplice, sublime, languiscono, declinano nel magniloquio, il racconto degrada in facondia espositiva e l’allegoria s’immiserisce, si svilisce al punto di ridurre l’art d’Amors ad una talentuosa pratica per soddisfare il desiderio carnale, appetito, brama o pulsione che sia. Dal nobile artista coltivante gli ideali cortesi della prima metà del 1200, veniamo dal de Meung trasbordati in una prolissa cultura enciclopedica di fine secolo, con un suo verseggiare erudito che, divergendo dalla gentile simbolica sublimante del primo Romans tesa a conseguire la perfezione ideale, degrada in una fenomenologia del comune desiderio amoroso, come mero impulso istintuale.  Pertanto noi lasceremo da parte i diciottomila ottonari aggiunti, ci interesseremo invece alla narrazione allegorica delineata nei primi quattromila da Guillaume, dove ci aveva annunciato: “La matire en est bone et noeve:/or doint Diex qu’en gré la reçoeve/cele por qui ge l’ai empris.” Ci dice che la materia trattata è amorevolmente innovativa, pertanto il Dio voglia accogliere favorevolmente il poema come colei per cui lo ha impreso:

 

C’est cele qui tant a de pris,

et tant est digne d’etre ameé

qu’el doit estre Rose clamé.

 

   

   Sì! è colei che ha in sé tanto pregio, e degna tanto d’essere amata che deve chiamarsi Rosa. E Guillaume racconta d’un suo sogno giovanile. Sogno veritieramente vissuto. Il narratore porta dunque alla conoscenza il suo sogno e per far ciò compone il poema del suo sognato, il qual poema risulta essere un’allegoria. Nel sogno l’obiettivo del narrante è la conquista d’un simbolo, questo simbolo è la sua amata. Ma così grande è il pregio di tal simbolo, che l’impresa gli è impossibile senza l’intervento del dio d’Amore. Trovandosi sempre in sogno, ma nel vero allegorico, in quel verziere d’Amore di colpo coglie, e in un auspicato compendio, tutta la sua visione, sul tessuto del sogno, in quella corte d’Amore, si leva il simbolo soave e gentile, e gli si manifesta: la Rosa. Egli deve quindi intraprendere la conquista della Rosa vermiglia, deve con costante cura far germogliare in sé, nell’intimo, quel vermiglio fiore, simbolo di rigenerante amore. Difatti l’uomo deve affrontare la dura prova, dato che soltanto in questa sua realtà biologico-terrestre ei si spiritualizza, risolutamente spogliandosi de ‘l’uomo carnale’; per entrare nei penetralia del tempio deve attraversare le porte della morte.

 

   Un tempo, prelevandolo dalle prede di guerra si dava ai valorosi un premio, un guidernone a chi nella civitas aveva bene operato. Una ricompensa, dunque, vasto sole e luna radiante, il monito oracolare da noi riportato in un precedente scritto, e cioè “il Viro e la Donna. L’intelletto paterno e l’essenza rischiarante dell’anima. Sconfinata ricchezza, potenza che risplende. L’oracolo e l’anima divinatrice, il dio”.

   Già nell’antichità la rosa era il fiore dedicato alla trinità delle Cariti, le Grazie, Aglaia Splendore, Eufrosine Gioia, Talia Fioritura, era il fiore di Afrodite, la loro madre. Era il fiore che i poeti avevano consacrato alla nove Muse, le Olimpie, figlie di Giove e di Mnemosine, la memoria. La rosa, il fiore, che i poeti hanno vantato quale emblema dell’essere amato, della bellezza della donna amata, e della mistica Monna Sofia, senza dimenticare Dante e Beatrice, il gentil Cavalcanti e la Donna me prega della famosa sua Canzone, Petrarca e Laura, Boccaccio e Fiammetta; per tutti i poeti dello stilnovo, i Fedeli d’Amore, creature mistiche, allegoriche, ma pur viventi creature; creature degli ideali cortesi, e in ogni caso mai creature della fantasia. E su labbra popolane, sillabe di premura, d’affetto, sei bella, sei dolce, colorita come una rosa, rivolte a persone care o amate. E vogliamo sperare che ciò ancor oggi accada! Questa celebrazione e lode della bellezza muliebre grazie alla rosa, la simbolica rosa, che va a cogliere nella grazia del sembiante, nelle belle fattezze, nell’aspetto esteriore gentile e onesto dunque, un’espressione, un visibile segno indicativo dell’accogliente riservatezza d’un’anima amabile, e in tanta benigna dolcezza e veste d’umiltà, una promessa, anzi un suggello di salute.  E tale intendimento non può realizzarsi se non sotto la giurisdizione di Venere; prerogativa e cura della dea è accendere l’anima della donna di piacevole attenzione e attesa, voluptas animi; competenza del dieu d’Amour è d’accendere di voluttuoso ardimento, ma soprattutto di aspirazioni virtuose e nobili sentimenti l’animo dell’uomo. Liberale intento dell’amante, che è giunto a voluptates frenare ac domare, di far nascere nella donna amata il medesimo generoso desio. Esemplarità, tipicità virile, abnegazione, dedizione femminina; nobiltà, magnanimità d’animi ascetici; superamento dell’egoismo, della gelosia, della possessività e d’ogni rivalità; superamento dunque dell’egoismo egocentrico.

 

   Ci ripetiamo, vasto sole e luna irradiante, il Viro e la Donna. E qui ci limitiamo a considerare la coppia coniugale, quella che crea le famiglie e dà origine alla società umana; quindi non ci inoltreremo nel mito platonico dell’androgine primordiale con i suoi risvolti misterici, soprattutto orfici, e nonostante rimandi iniziatici, rigorosamente spirituali, siano anche nel Fableau o poema d’amour di Guillaume e ivi soltanto, come d’altronde abbiamo evidenziato. Il piano spirituale opera nella sfera solare che, riverberandosi, illumina il piano terrestre ove l’uomo sperimenta, si cimenta e agisce; ma frattanto anche il piano empirico, pratico fattuale, deve tendere alla spiritualizzazione, ossia coltivarsi e realizzarsi qui unicamente nel bene, per poter partecipare all’armonia e alla bellezza del cosmo. Nel Romans de la Rose, il nobile agire e il contegno leale e virtuoso dell’uomo compongono l’art d’Amors che si trasmette idea generosa e feconda nel cuore dell’amata. Nel felice stato di rigenerazione, il fuoco del Vir e l’Eterno Femminino si destano uniti in uno spirito sottile, soave e pien d’Amore, che è una disposizione preludente a l’Androgine. L’Uno, il Tutto. Così un tempo fu nei penetralia del Tempio, e così fu nell’ Agorà, la piazza centrale dove raggiava il sole e cuore della città greco-antica. A Roma, nell’Urbe copulavano il gladio di Marte e la rosa e il mirto di Venere.

 

   La coppia coniugale, coniuges e il pagus e la città, urbs: quindi, la societas, la humana consortio! Coppia dal latino copula. Il verbo apio, is, ĕre= legare, e la prep. cum=con, formano la parola latina copula, ae, f.=vincolo, e anche il verbo copulo, as, avi, atum, āre = congiungere insieme, unire, legare. Coppia: par atque unus.

   Abolita la patria potestas, dissolta la antiquissima familia, trascurata la patria, avanzata addirittura la pretesa di educare il sole a ‘moderare i suoi raggi’! SOL, il Sole, che da remotissime ere ha nutrito, scaldato e donato la sua luce e il suo calore ad una infinità di famiglie terrestri, piante, alberi, animali e uomini, per generazioni e generazioni!

 

   IL PIU’ BRUTTO DEGLI UOMINI: ...io sono troppo ricco, ricco di grandezza, di terribilità, di bruttezzad’inesprimibilità”. In Così parlò Zaratustra di F.Nietzsche. E che altro dire? Possiamo aggiungere, sì, l’indicibilità della morte dal cielo e le stragi atomiche, mors illata per scelus; e, onta! lo stupro tivvudico della humana mens... forse, tutto ciò, humanum est?

30 novembre 2022, Mercuri dies 

nell’anno del duro combattimento