V  A  T  I  C  A  N  U  S

 

V  A G  I  T  A  N  U  S

 

 

ita Vaticanus deus nominatus, penes

quem  essent vocis humanae initia

                                               a.g.

 

Gentibus est aliis tellus data limite certo;

Romanae spatium est Urbis et orbis idem.

                                    Ovidio, Fasti-II

                                                                                                                                    

   Vaticanus, a, um – è un aggettivo latino e significa, precisa il Vocabolario della lingua latina Castiglioni/Mariotti, ed. Loescher(latino-italiano), del Vaticano; soprattutto, Vaticanus mons o collis; Vaticani montes, in Cicerone, indica il Vaticano con i suoi dintorni.  Invece, con il sostantivo maschile Vaticanus,i, si denomina il dio del colle Vaticano, o anche (sottintendendo mons o collis) l’istesso colle Vaticano. Segue un pertinente elenco di vocaboli: vaticinatio, onis, f., vaticinio, profezia, oracolo, predizione; vaticinator, m., e vaticinatrix, f., vaticinatore, indovino e indovina, profetessa; vaticinium, ii, n., vaticinio, predizione, oracolo; vaticinius, a, um, agg., tutto ciò che concerne la profezia e il divinatorio, per es., libri vaticinii; vaticinor, oris, atus sum, ari, I dep. tr., vaticinare, profetizzare, predire, avvisare, parlare, insegnare, ma anche, a dire di Cicerone, vaticinari atque insanire, cioè vaneggiare, farneticare; e ancora un aggettivo: vaticinus, a, um, profetico, per es., vaticini furores, il furore profetico. Tutto l’armamentario, ovvero l’ammennicolìo dell’aruspicina etrusca? Si rischia di sprofondare nella superstizione? In realtà tutto comincia, s’origina, discende da quel che s’impianta, nasce, s’attiva e s’instrada lassù, su quel colle, e precisamente determinato, ovverosia deciso da chi controlla e governa il luogo.

   Una breve pausa per inserire qui un’annotazione, forse non tanto marginale su quella contrada, oggi Stato Città del Vaticano. Non doveva essere un buon vignaio, e di sicuro non italico – ché gl’Italici, rampolli e posteri del padre Libero, erano esperti conoscitori e cultori della vite – colui che per primo in quei terreni piantò un vigneto, era infatti ben risaputo a quei tempi che i terreni intorno al colle Vaticano producevano un vino scadente; Marziale lo menziona qual acido e cattivo vinello dell’orcio Vaticano in un singolare epigramma del quale qui diamo la ns. traduzione:

 

    Qual vantaggio consegui, Tucca, a mischiare

il vecchio Falerno al vino tenuto in serbo

negli orci vaticani? Qual lauto ristoro,

qual bene, ti viene dai pessimi e

qual malanno dai vini eccellenti?

   Tacciamo di noi; ma misfatto è guastare il Falerno,

 mescendo al vino campano un atroce veleno.

Avessero pur meritata i tuoi convitati l’estinzione,

a tale anfora, altamente pregiata,

non toccava la morte!

 

   Che insolito, ma notevole ai posteri vaticinatore è, in questo impareggiabile per attualità arguto bozzetto, Marco Valerio Marziale, iberico poeta romano che visse tra il 40 e il 104 e.v.!  Ancor oggi i vitigni coltivati in quelle contrade da stranie genti non fruttano buon licore, ma rovello per le menti, tossico per gli animi; venenifero fluido, ateo-confessionale, che incodardisce e prostra i cuori.

   Situati sulla destra del Tevere, i Vaticani montes sono una propaggine del Gianicolo; tutta questa regione un tempo era parte del regno associato e concorde di Giano e di Saturno, quest’ultimo, esperto navigatore giunto dal mare, fu ospitato da Giano e per ricompensarlo della regale accoglienza gl’insegnò l’arte dell’agricoltura; per tanto, la terra di quel felicissimo regno fu chiamata Saturnia. Giano, antichissimo, viene prima della storia e della preistoria, perciò quel mitico regno è da collocare agli esordi, al principio della parola e dei canti sacri che risuonavano di nomi divini mentre si affermava l’arte dei Vati. Era il tempo reale degli uomini che posseggono la conoscenza del profondo sé e dell’esistente intero, del divino che lo comprende e, mirabile sorriso, lo trascende. La voce vasta, ianuale possanza, che con saggezza governa il presente per una viva, qui e ora, conoscenza del passato e, veggente, qui e ora, provvede al futuro; infatti, ciò che gli uomini chiamano ‘presentimenti, presagi,’ non è altro che il saper ben veder dentro, nel presente che contiene la sapienza maturata nel passato e anche il germe del futuro, perché in quel germe è già l’albero adulto del domani;  quel principio che è sempre e sempre s’avvera nel presente, nella esistenza reale, nella verità della consapevolezza – conscientia –: ADSUM-ADEST! Coscienza è pur sapienza, scienza e prudenza, e il tutto proviene da magistero, arte e disciplina. Allora soltanto, è il presente che inchiude l’ieri e il domani, e ricalcando Dante, “parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude”, si manifesta qual realtà superiore, cioè veridica, più che limitata, egoica, labile esperienza sensibile; voce alta, vaticinante, nella vastità del cielo. Certo, tanto scaturisce dalla parola, dalla voce: se il suo accento raggiunge il limpido etra, o, all’inverso, se la sua eco si disperde in terrestre retorica, o, peggio, in una infera impetrazione, ad esempio, istanza agl’inferi per soddisfare abiette esigenze, nefandi, spregevoli scopi.

   Saturnia fu, ed anche quella arcaica regione era parte della Saturnia Tellus e la presiedeva Carmenta, la divinità dei carmina, la voce dei primordi, la coscienza ordinatrice, veggente, la indefettibile visione della mente sapiente che scandaglia tutti i tempi. Su quei colli, le Camene cantavano i loro inni e con il canto svolgevano auree trame e intessevano il cosmo. Si avvicendarono a fatare su quei colli i Vati Ausoni e Aurunci e Siculi, ed i pastorali e campestri Fauni delle genti italiche, e felicissime permanevano quelle contrade, fiorenti nella divina arte dei Vati e dei Fauni. Erano quelle, solari e libere genti, le generazioni del padre Libero, ch’è Marspiter, il SOLE; esse in continuità con quel divino consiglio rielaboravano il loro rapporto con l’esistere riassunto in limiti temporali, rinnovando e predisponendo i propri “fata” secondo la giusta misura, quale norma valevole nel mondo fenomenico e quindi pure in esso feconda.

   Accadde, poi, che su quei colli si abbarbicò una vite che produceva un pessimo vino, l’acido vinello degli orci Vaticani spregiato dal poeta Marziale. La vite che produceva quell’acido vinaccio, più veleno che vino a dir di Marziale, era chiamata “vatica”, e Vatica era anche il nome d’una infernale deità etrusca collegata all’endogeo del luogo; infatti ivi era anche una grande necropoli e veniva, a quei tempi intristiti, quel colle frequentato massimamente dagli aruspici etruschi che vi praticavano l’epatoscopia, millantando la fama di profeti e indovini capaci di prevedere il futuro. Rinzelava costoro un lunare devozionalismo per le fatalistiche, superstiziose credenze dovute all’ascendenza e all’influsso della religiosità fideistica mediorientale. Per tal motivo lo storico e filologo germanico Georg Niebuhr da Vatica derivò il nome del Vaticano. Comunque, e per quel che più ci riguarda, da parte nostra vogliamo riportare dalle Notti Attiche (Libro XVI, 17) di Aulo Gellio, scrittore latino del secolo 2° e.v., le seguenti notizie sull’origine di tal nome: “Era noto che l’ager Vaticanus e il dio che quel luogo soprintende sono così chiamati dai vaticini che ivi solitamente avvengono per il potere e l’ispirazione del dio stesso”. Ma, oltre a ciò,  ancora Gellio menziona che M. Varrone, nei libri Antichità divine trasmette anche un’altra origine del detto nome: ‹‹Difatti, siccome il dio fu chiamato Aius ed eretta fu a lui un’ara alla fine della via Nova, là dove si era udita la voce divina, il dio Vaticano fu chiamato così perché muove labbra e lingua e dà l’avvio alla voce umana, infatti i piccoli nel momento che sono partoriti mandano fuori come prima nota quella che nel proferir Vaticano è la prima sillaba, e quindi ‘vagire’ si dice per esprimere il suono della voce del pargolo nascente››.

   Ci troviamo di fronte al mistero della sonorità d’una sillaba ‘VA’, che fa della parola Vaticano sia il nome della regione, agrum Vaticanum, sia il nome del dio che quella regione presiede e che, essendo il dio dei vaticini, di quel luogo fa di rimando un luogo singolare, eccezionale, cui è concesso il privilegio oracolare. In quel luogo, l’orare (dal lat. os, oris = bocca), cioè il parlare, il dire, il pregare, quindi anche il chiedere, raggiungono un’alta amplificazione (dall’Urbe, dalla Città eterna, all’Orbe) e risuonano in preveggenti accenti di verità infallibile; un orare quindi sapienziale. Da aggiungere ancora la coincidenza di tal sillaba iniziale di Vaticano e unitamente del verbo vagire, da cui vagito, dal lat. vagio, is, ivi, vagitum, ire = vagire e in senso figurato il risuonare; senza poi trascurare Vagitanus, quella divinità del parto, che apre la bocca del neonato nel vagito, un pianto prorompente . . . vaaa! Quindi una mera risonante onomatopea che in Vaticano va più a fondo e si rinnova nella limpida sonorità d’un fonosimbolo. Infatti, vagire si ritrova nella parola sanscrita vac-ati, che ha il significato di gridare, mentre Vaticano, deriva da vaticinari e quindi da vates. Diamo uno sguardo al nostro vocabolario latino: il verbo concino, is, concinui, ere, è un composto del verbo cano, is, cecini, cantum, canere (cantare, sonare), e concino significa appunto ‘cantare insieme, sonare in accordo’; vaticinari è dunque il dire, è la parola del vates che predice, che insegna et cetera. Vates, a sua volta, s’affianca al greco phà-tès, colui che dice, o anche a phà-tis, detto, sentenza, oracolo, e il verbo greco è ph­­­e-mi, dico; la rad. ind-eur. è, fate attenzione, VAT, e si riferisce al conoscere, all’intendere. Ed è possibile presiedere, dirigere i Fata, conoscerli?

   La parola latina fatum, vaticinio, predizione, ma anche fato, destino, deriva dal verbo FARI, un verbo difettivo di cui erano in uso pochissime voci, il citato Vocabolario le riporta tutte e dalla lettura degli esempi se ne evince l’uso riferito di più ad un dire solenne, rievocativo e celebrativo, oltre che al predire e al vaticinare. Un verbo singolare, carente di voci, ma che contiene tanto, come andiamo a scoprire. Vogliamo, infatti, qui mettere in evidenza il participio perfetto fatus, fata, fatum, completa è la declinazione, il supino fatu, il gerundivo fandus, a, um, indicante il dicibile, e il gerundio, dal cui ablativo fando, premessa la particella negativa ne, si ha l’aggettivo nefando (it. s. f. nefandezza) che denota l’indicibile, l’empio, ciò ch’è turpe. Il participio perfetto neutro fatum (= detto, proferito e quindi manifestato), sostantivato, designa: vaticinio, oracolo, predizione e anche fato, destino, sorte e quindi ‘volontà’ degli dei e ordine, volere; fata Deum, secondo un’espressione virgiliana. Si evidenzia che la radice dell’antico verbo fari, indubbiamente i.e. (sscr. bha, gr.pha, lat.fa) conteneva la nozione del porre, comporre, situare, collocare, disporre, ma anche del proporre e dello ‘stabilire con il dire’, e, inoltre, d’un impersonale affermare, come impersonale è sempre la fabula e lo era un tempo il fabulator. Ut fama est . . . come si dice, fama nuntiat . . . corre voce: anche la fama è diceria, voce, e può essere buona o cattiva o addirittura infamante, rovinosa, poiché anch’essa dipende dalla favella umana, e fabella, favoletta, anche questo vocaboletto, vien dalla radice di FARI.  Proprio così, infatti sulla banda terrestre e paraggi di questo almo Pianeta, la Terra, tutto proviene, origina, è posto e disposto dalla mente e dall’azione umana. Quindi è possibile presiedere, dirigere i FATA, conoscerli? Gli antichi avrebbero risposto affermativamente.

    Riflettiamo! Non trascurare l’osservazione della serie dei fatti, misurando con la mente la successione degli accadimenti, degli eventi similari, e in tal monotona sequela penetrare la possibilità d’un manifestarsi dello straordinario, di ciò che si propone come singolarità rispetto al consuetudinario; in quel continuo, uniforme avvicendarsi, non aiuta lasciarsi sorprendere dall’eccezionale, ad esempio dalla bussata del rinnovamento; occorre il vigilante, il normatore che deve esercitare sempre desta attenzione sul normato senza lasciarsene mai assorbire, anzi esser pronto ad oltre recepire. Era tale il Genio del vero legislatore, dello statista. Conoscere a fondo l’ordine delle cause è il mestiere del sapiente, perché è da quelle cause, poste dall’azione e dal dire dell’uomo, che dipende il succedersi degli eventi che gli uomini d’oggi chiamano l’oscuro futuro. L’oscuro futuro, ma ormai può addirittura definirsi oscuro il presente, è semplicemente il portato, l’esito dell’inconsapevole condotta degli uomini in quel che precipuamente doveva essere il loro presente. Il fato, come fatalità, oscuro destino, è assenza dell’uomo. Per gli avi nostri il Fato era l’ordine, il volere, il dire – FARI –, la parola degli Dei. E Vaticanus era il dio antichissimo che aveva preso parte agli inizi della voce umana, vocis humanae initia. Ed è Vaticanus/Vagitanus quando assiste al primo vagito dei bimbi; è là presente, e nessuno può estrometterlo da quel grido, da quel pianto dell’essere che viene a dar vita al nascente.

   Sovrapposizioni dei nomi di divinità e di luoghi, concorso di culti; compresenze divine, e spazi e luoghi che vi si confanno; un ideare, un concepire in accordo, una corrispondenza di suoni, di voci, tra il Cielo e la Terra e l’Uomo; o il corrispondersi dei loro segreti, promettenti intenti? Presagite sorprese? Son dessi! Fatuus e Fatua, i mitici Fauni, divinità profetiche dei campi solatii e delle selve italiche, i consiglieri reconditi le di cui tracce, sconosciute ai più, ricercavano i Vati oracolari e sentenziatori?  FAUSTE FARI! S’invoca, dunque, la campestre Faustitas? Sì! perché occorre che i campi siano prosperi, fertili, e sano e numeroso il gregge. E, soprattutto, si renda fertile l’uomo, che non tradisca il vagito delle origini, non tradisca quel dio che gli aprì la bocca, Vaticanus, il dio risonante in vagitu, l’antico dio degli initia, e con lui i menzionati fata Deum: la proba volontà, l’opera ragionata, l’iniziativa e l’azione giusta, ponderata nella concordia e per ciò fondata sull’ordine divino, che è il vero reggitore del governo d’uno Stato. FAUSTE FARI! Vaticinare . . . ma anche celebrare gli dei e le virtù e il pregio degli uomini . . . Contexere carmina al suono della zampogna, tra i rumori e i vagiti del vento, della natura, e raccogliere quelle voci, quegli indicia così prossimi ma anche remoti, dato che desto ed edotto è l’orecchio del Vate a penetrare quei cieli oracolari, ad addentrarsi in quei cieli, in animo, nell’intimo della coscienza, ove, al conscio richiamo, sempre risuona il primo vagito del mondo che è anche il vagito della nascita eterna, cioè di quella origine in cui il mondo si rinnova. SALUTALITER FARI! E, infine, puoi tu rifiutare il tripudio a Liber Pater, che è Marspiter, che è Sol, semper novus et invictus? Puoi mancare il consiglio del Sole? Puoi tu, Italus miles, mai disertare il combattimento? Non esserci? Preferisci permanere nella superstizione, nella conciaia tivvudica, continuare, ignavo e imbelle, al servizio di Vatica e battezzarti nel vaticum, il venenifero licore?

   Lasciamo a Te la scelta, lettore, tra l’aruspice etrusco che avvolto nella fosca cappa frangiata, curvo scruta i destini nelle piaghe del fegato dell’animale mattato o d’un idolo suppliziato nei secoli e, restando passivo, pronuncia oscuri presagi o lamentose suppliche, e l’augure romano-italico che, in piedi, eretto e saldo, osservando attento il volo degli uccelli di Giove attiva la visione salvifica nel suo cielo interiore per il magnanimo fine di

 

SPLENDIDE, LIBERALITER FARI.

  

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    Nell’anno 476 di Roma si svolse la battaglia del Gianicolo; l’esercito romano condotto dai consoli Aulo Rutilo e Spurio Prisco, pur se con gravi perdite, respinse definitivamente gli Etruschi che avevano rioccupato il colle con le sue adiacenze, stabilendovi fortificazioni e minacciando Roma con la devastazione dei campi e dei pascoli e il conseguente pericolo di una grave carestia. Quell’esercito dei Veienti fu annientato e umiliata la baldanza militarista dei Tirreni. Possedimenti preziosi, territori irrinunciabili per la sovranità e l’autorità dell’Urbe, furono sottratti al controllo dell’invadente nemico, alla pretesa egemonica dell’ars haruspicina.

   Nell’anno 476 e.v., che segna la caduta dell’Impero romano d’occidente, la ulteriore decadenza del Senato romano e il ritrarsi dell’ antica Religio, quei luoghi subirono anch’essi alterne e travagliate vicende, ma è indubbio che gli Etruschi ripresero a frequentarli e con gli anni, complici i tempi ‘nuovi’ e la nova externa superstitio che s’andava diffondendo tra le genti, mettendo alla rinfusa aruspicina, mosaismo, paolottismi vari, diavoli cristiani e demoni dei tuschi inferni, Caron dimonio, Tuchulcha et cetera, non trascurarono di certo Vatica il loro demone ipogeo dei luoghi vaticani. E dovette trattarsi d’un lavorio frenetico, incessante, fino ai correnti giorni, ed è indubbio che l’ars haruspicina, molto molto antica, dovette insegnare una quantità di cose ai nuovi arrivati e anche i reconditi segreti del demone Vatica che nei secoli a venire doveva avvantaggiare i progressi di quella externa superstitio tanto affine al carattere della loro religiosità nutrita di traffici mediorientali e di oltretomba. Fu così che quel clero sotto-biblico, cristiano-gnostico, nerovestito, untuoso, che aveva così bene acquisito le tortuose caratteristiche aruspicine, fin d’allora s’interessò e affezionò ai luoghi Vaticani. E presa confidenza con Vatica, in più per nulla spratico di negromanzia, divenne un clero potente e pretese d’espandersi per tutte le contrade ove s’era espanso il romano Impero ed oltre, sfidando duci e imperatori.

   L’ 11 febbraio 1929 venivano sottoscritti i Patti Lateranensi tra il Regno d’Italia e la cosiddetta Santa Sede (Sede Apostolica a Roma della Chiesa Cattolica in Italia). Con la sottoscrizione di quei Patti nasceva lo Stato della Città del Vaticano. Uno Stato indipendente e sovrano, che andava anche immediatamente ad avvalersi d’una consistente convenzione finanziaria, si costituiva nel cuore di Roma, la capitale del Regno italico. Il Capo del governo di allora, proprio Lui, evocatore del Littorio romano, della ROMAE AUCTORITAS, consegnava alla externa superstitio, tanto ostile a quel fondamento di virtù ch’è tradito dal Mos dei Padri e perdura immutabile, la aeternitas Romae, il colle e il dio Vaticano e, con i tempi, i destini d’Italia, d’Europa, delle Genti. E fu sciagura, grave sciagura! Persistente sciagura!

   Ritornano di nuovo alla mente i versi di Ovidio, citati in epigrafe: ‘Alle altre genti furo destinate terre entro precisi confini;/lo spazio della Romana Urbe è l’orbe istesso’.

 

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   Inti era il dio degli Inca, il dio del Sole; pare che il suo culto fosse molto arcaico, e si festeggiava al solstizio d’inverno, appunto nel giorno detto ‘resurrezione del Sole’. Sua moglie e sorella era Mama Quilla, la dea della luna che aiutava la terra ad esser fertile. Il dio Inti era il progenitore del popolo Inca attraverso i suoi figli Manco Capac e Mama Oclo, che furono i fondatori dello Stato Inca, ed Inti era anche il dio tutelare dell’Imperatore. Questo orientativamente il culto religioso di quel popolo nei tempi arcaici. Ma all’incirca ventidue secoli orsono, causa forse la enorme espansione territoriale e il sopravvento della casta sacerdotale viene introdotto il culto di Viracocha che sopravanza il culto solare di Inti. Con gli anni Viracocha assume sempre più il carattere monoteista di un dio creatore del cielo, della terra e degli uomini, e nel cui culto e dottrina vengono introdotti concetti astratti, intellettualmente elaborati e dogmatizzati, la cui esegesi era riservata ai sacerdoti, costituiti in un vero e proprio clero. Pressappoco quel che avveniva nel nostro occidente con l’avvento della externa superstitio e i correlati culti giudeo-cristiani. Controparte di Viracocha è la deità femminile Pachamama. Viracocha è un dio alto, elitario, ristretto nel dogma, la Pachamama inizialmente dea della fertilità, propiziatrice dei raccolti, legata quindi al mondo rurale e popolare, si riduce a una deità inferiore, stregonesca, destinata al volgo primitivo.

   Tramite la Teologia della liberazione una amazzonica Pachamama, in vestimenta sudamericane (suggerimento yankee?), quelle dell’emarginazione e del sottosviluppo (una mascherata, quindi?), è giunta in Vaticano e ai suoi materni piedi si è prostrato, secondo abitudine, il Papa gesuita (una finta?).  Deità ormai dei fertilizzanti chimici e delle fecondazioni artificiali, ha scambiato i suoi primitivi stregonici poteri con la raffinata ars haruspicina di Vatica che l’ha ubbriacata e poi battezzata nel più feculento, feccioso, venenifero licore.  Lo spregiato viticum del poeta Marziale. Che capitombolo, Pachamama, qual ribaltone!

   Leggiamo da qualche parte: “Il Vaticano entra in “Alleanza Globale” con i Rothschild, Fondazione Rockfeller e grandi grandi banche! . . .

  

   giovedì, XXXI di dicembre, dopo il dì tempestoso dell’ultimo plenilunio dell’anno duro